Piccole storie romane

unvoltonellafolla
raccontibrevi
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4 min readJun 11, 2017

Un’ancora di vapore usciva dal battello che traversava il Tevere, ricco di turisti che manifestavano il loro entusiasmo in tutte le lingue del mondo. Noi stavamo sulla ex-riva, oramai cementificata ma trasformata in pista ciclabile, a guardarli senza poter capire né i loro idiomi né il loro entusiasmo. Non avevamo granché da fare e quindi tiravamo grossi sassi nei pressi del battello, ben speranzosi che gli schizzi torbidi sporcassero quell’entusiasmo che ci pareva roba da ingenui.

Il condottiero del battello – ci piaceva chiamarlo a questo modo anche se il battello, in primis, non era suo e, in secundis, io avrei potuto (e forse dovuto) chiamarlo papà – appena s’accorgeva della nostra invidia manifesta, dapprima cercava di individuarmi in mezzo al folto gruppo di nullafacenti ( a me similari sia nella natura che nelle distrazioni ) che chiamavo amici, alle volte riuscendo nella sua ricerca: ed allora mi puntava gli occhi contro senza mollarmi neanche un secondo che parevano sfidarmi a commettere l’affronto sotto lo sguardo del Padre — eterno, secondo lui. Altre volte invece rinunciava al compito e partiva un serrato scontro verbale che riportare qui farebbe sembrare, il mio genitore, un mascalzone senza alcuna educazione. Inutile dire che i turisti non perdevano affatto il loro entusiasmo e che anzi da quel teatrino erano ancora più esaltati!

Il mio padre lo capì ben presto e quando, da uomo a uomo, ci trovavamo seduti al tavolo del pasto, forse a causa del cibo — che tutto allieta — , a parte la solita ramanzina di facciata ( che comunque ricevevo a priori, perché serviva a temprare il temperamento!), ben poco restava dei fattacci avvenuti al meriggio. Non si può dire insomma che quello fosse un tentativo infantile di scontro generazionale, un tentativo — per così dire — di affondare la baracca per individualismo!

Di certo era una manifestazione infantile, ma di qualcos’altro: della noia si direbbe superficialmente e solitamente questa era la motivazione additata dagli adulti e quella che noi stessi non ci prendevamo la briga di contraddire perché comoda e facilmente digeribile. Le nostre brigantate erano innocenti e senza vittime: scoprimmo poi che ai turisti piaceva terribilmente tutto ciò, fino al punto che salivano sul battello solo per noi — e questo segnò la fine della noia e l’inizio di altra noia, ancora più noiosa. Mica stavamo lì a far dispetti per il piacere altrui! Il dispetto ha ragione d’esistere nell’assenza della domanda! Era — secondo noi — un gesto di purissimo altruismo, ed ora che questi lo domandavano il rapporto se n’era andato a spasso, per così dire. Comunque venimmo sostituiti da altri come noi e lo spettacolo poté proseguire e ciò mi fece riflettere che forse era proprio nella mia condotta più diligente che danneggiavo mio padre, curiosa situazione.

Si camminava sotto l’ombra dei platani del lungotevere tra il chiacchiericcio di gruppo e il traffico roboante: s’arrivava dal grattacheccaro e ci si lamentava del rincaro — ma non ricordo più quali gusti fossero i miei preferiti, c’entrava qualcosa il pompelmo.

Sotto l’afa romana a guardare le macchine passare veloci, pareva che noi pedoni non potessimo neanche impensierirle, solo il tram che passava per il ponte aveva il potere d’opporsi. I miei pensieri allora si riversavano verso la quotidianità, le ragazze, i miei affari subalterni.

Ricordo però di un uomo che ogni giorno entrava nella libreria a Via Induno, prendeva sempre il solito libro, se lo leggeva per una decina di pagine e se ne andava. La madre di Nino era la proprietaria dell’anfratto e a ‘sta situazione non sapeva come reagire. Un giorno decidemmo di spiare la scena, per il grosso potenziale cinematografico.

Era un uomo con grossi baffi a spazzola, neri, che gli coprivano quasi la bocca per intero, gli occhi piccoli che sembravano due puntini scuri – pareva un incrocio tra un tasso e Benedetto Croce. Andava sempre in giro con un cappello mediocre e un impermeabile leggero di quelli che indossano i dipendenti al Ministero. Aveva cinquant’anni penso, forse poco meno. Ci mettemmo all’angolo di Via Induno in attesa; ed eccolo fare capolino preciso alle quattro e mezzo. Cammina a piccoli passi pesanti, iniziamo a riprendere il tasso Croce.

(No, non avevamo una cinepresa, è per dire, d’altronde Rossellini non aveva degli attori eppure era un gran regista, quindi!)

Lo seguiamo fino alla libreria, salutiamo Nino che sta alla cassa con la madre (che ci guarda stranita). Il Tasso-Croce si mette a cercar per gli scaffali, sempre più nevroticamente. Nino si gira verso di noi e fa:

- Sta volta je l’abbiamo fatta a sto qua

La madre dice a Croce che, se vuole Il deserto dei tartari, ebbene di venirselo a prendere in cassa. Noi tutti lo guardiamo cercando di cogliere la sua delusione.

Il Tasso-Croce fissa la madre e risponde:

- L’ho già letto quello, grazie.

Ora rivolge lo sguardo su di noi e sono sicuro che abbia sorriso dietro a quei baffi a spazzola, potrei giurarlo. Esce dalla libreria, scoppiamo a ridere forte.

La madre rimane nel vuoto ad ascoltare le nostre risa. Scappiamo fuori, anche Nino è dei nostri.

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