Storia di Sophia

unvoltonellafolla
raccontibrevi
Published in
4 min readFeb 26, 2018

Sono nata e cresciuta in un nosocomio, o meglio, sono nata in un nosocomio e cresciuta vicino ad un nosocomio. Al piano superiore di una panetteria: “La casa perfetta per l’inverno, dotata di riscaldamento gratuito!”, come amava ripetere mio padre. Un inferno durante l’estate, ma comunque non c’eravamo mai durante l’estate.
Ho conosciuto gli odori del forno prima di tutto il resto, dei colori stessi; le tipologie dei pani, i loro esterni come i loro interni. Non è stato l’amore genitoriale a traghettare i primi anni della mia esistenza, ma il calore e i suoi profumi.
I miei genitori si separarono quando ebbi circa 12 anni, a loro quel calore ricordava soltanto quanto si fosse congelato il loro legame — e nulla più. Fui mandata in collegio, al Saint Martin College. Le giornate d’improvviso divennero fredde, mi ci abituai. La mia vita prosegue: sorrido, mi lego ad altre persone, proseguo gli studi.

Ti sei aperta come un ventaglio e ora soffi forte il tuo vento, mi disse. Tomas! — non aggiunsi altro. Non avevo la minima idea di cosa si dovesse provare in amore o in quale modo bisognasse comportarsi. I miei genitori non erano stati granché d’esempio d’altronde. Furono le prime volte che un uomo entrava dentro di me.

Io e Tomas non litigavamo mai, ogni gesto era — non caldo e non freddo ma, tiepido, paziente, lento -. Passavamo le nostre giornate come tutte le altre coppie di questa città; d’apprima rimasi abbacinata da questa lentezza, come se mi avesse intorpidita e resa sciocca. Era questo amare? Era questo il modo di fare l’amore? Tornai a quella casa sopra la panetteria: il suo calore mi investì umiliando ogni altra possibilità. Entrai in camera mia, lasciai cadere i vestiti davanti allo specchio: osservando come scivolassero dalle mie spalle, lungo i fianchi. Completamente nuda, quel calore attaccarmi. Stesa a letto, iniziai a sudare: divaricai le gambe; ero bollente — le mie mani ora sul mio seno cadente, ora tra le mie gambe: sparendo.

Il giorno seguente seppi che l’amore non poteva essere così, che il modo in cui Tomas entrava dentro di me non era l’unico. Gli dissi cosa avevo fatto, mi sorrise e non ne parlammo più. Presi a stare con lui per abitudine; quella tiepidezza si era trasformata in un legante viscoso, come catrame — dal quale non riuscivo a liberarmi, era *dovuto*: avevamo passato quei bei giorni e gettarli, che senso avrebbe avuto? Era dovuto, ed io lo detestavo.

Sono stata prigioniera della sua gentilezza, della sua pazienza, della nostra struttura — ormai soltanto sua. Il legame in quanto legame, il gesto in quanto gesto: non significato, non intenzione, ma puramente gesto, puramente segno.

Conobbi Franz alla libreria pubblica, mercoledì 10 maggio. Eravamo seduti a tavoli poco distanti, inavvertitamente ci scambiavamo sguardi. Mi alzai con l’intenzione di riporre il libro al suo scaffale, rimase sul tavolo. Egli mi seguì. Non chiese il mio permesso, mi baciò stringendomi il collo tra le dita della mano destra. Sentii il sangue smettere di scorrere, un forte calore riempirmi la testa e chiudermi gli occhi. Mi abbandonai a quel calore.

Vedere Tomas era diventato inaspettatamente più piacevole: mi divertiva la sua innocenza, il suo non sapere nulla. Dopo qualche settimana notò che sul mio corpo comparivano piccoli segni, lividi, qualche taglio: inventavo qualche storiella assurda, forse ciò che volevo era essere scoperta, rovinare quel bel quadro inesistente. Forse volevo che Tomas mi odiasse, che mi facesse del male come Franz.
Franz che mi umiliava davanti allo specchio, passando una corda sotto al mio seno cadente, circondandolo e legando la corda ai miei polsi, dietro la schiena. Insultava il mio corpo, mi stringeva e immobilizzava. Il modo in cui entrava dentro di me: non era come Tomas, non chiedeva il mio permesso, non si assicurava ch’io fossi pronta. Il calore della stanza era soffocante, il mio corpo bagnava la corda che si faceva più fastidiosa. Mi afferrava il collo — sapeva di Tomas -, me lo nominava.

Tomas non era capace di ciò. Pensai che fosse perché c’era troppo amore dentro di lui: così tanto da anestetizzarlo, da castrare ogni violenza. Gli afferravo le mani e le mettevo sul mio collo, le teneva lì per un po’ e poi le toglieva — abbassando lo sguardo.

Tomas era diventata la mia vittima: la sua innocenza, era diventata la mia preda. Fu la prima volta che sentii una forte pulsione a dire la verità: quello stesso, forte, istinto intrinseco alla natura umana che ci ha portato a sviluppare la Scienza, uccidendo ogni mito. Volevo togliere ogni velo dal suo volto, mostrargli la luce.
Organizzai un doppio appuntamento, invitai Tomas una mezz’ora dopo — circa — rispetto all’orario in cui solitamente mi vedevo con Franz. Tutto andò come prestabilito, Tomas entrò in casa, sentì i rumori provenienti dalla mia camera. Trovò la porta aperta e vide come Franz mi prendeva. Incontrai il suo sguardo, il mio amante troppo concetrato sul mio corpo per accorgersene, ma lui vide. Prima di voltarsi e uscire, seppi — e sperai — di aver innestato il seme dell’odio, nello stesso modo in cui il seme di Franz innestava me.

Quando mi rividi con Tomas, pianse. Invece di odiarmi provava pena per il mio corpo, e colpa per non aver interrotto l’atto. Era stato un codardo, diceva. Vedermi così, legata e sodomizzata. Lo cullai tra le mie braccia, mentre al suo orecchio sussuravo: “Non hai mai capito, vero? Non si può intrappolare il vento, Tomas. Io volevo tutto ciò che quell’uomo mi stava facendo.”

--

--