È che quando se ne va uno come Clarence Clemons, non se ne va da solo.

Massimo Giuliani
RadioTarantula
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4 min readJun 19, 2011

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Ho amato alla follia quel suono e poi gli ho voltato le spalle sdegnosamente. Intendo quel suono ossuto e nervoso come il corpo di Bruce dei concerti del 1978 e massiccio come la figura di Clarence “Big Man” Clemons.
Ero a Milano, allo stadio Meazza, nel giugno del 1985, per quella serata che attendevamo da una vita e che in qualche momento eravamo arrivati a pensare di non meritarci più: un concerto di Springsteen e della E Street Band in Italia. Erano i giorni di Born in the U.S.A., l’album che dal titolo faceva il verso a Born to Run e che pure rappresentava il punto più distante dal lirismo del Boss degli anni Settanta.

Quel disco ci aveva divisi: ricordo che fra i giornali che seguivamo alcuni lo indicavano come la svolta verso un suono F.M. (lo chiamavamo così perché allora l’appeal per le radio commerciali era la vera misura della perdita dell’innocenza), altri lo celebravano come il ritorno del Bruce di The River. In mezzo c’era stato Nebraska, il disco che aveva scarnificato il rock and roll e ne aveva restituito lo scheletro nudo; a pochi artisti avremmo permesso un’operazione così radicale: Bruce era uno di quelli. A proposito: quando di Nebraska arrivarono in Italia le prime cinque copie (non c’erano gli mp3, la musica viaggiava sui materialissimi supporti di vinile) la mia era una di quelle cinque, grazie a lui.
Ma stavo parlando di Born in the USA, 1984.

Quel disco ci divise. Piero, che — per come si muoveva, per come cantava Thunder Road, per come guardava le ragazze — era per tutti noi una specie di alter ego del Boss precipitato in Abruzzo, gettò via il giubbotto di pelle e dopo parecchi giorni lo vedemmo con una mise new wave: un paio di pantaloni con il cavallo sotto le ginocchia e i capelli che sembrava uno dei Cure. Diceva che Cover me sembrava una canzone dei Boney M e forse ricordo male, ma a Milano manco ci venne.
Io c’ero. Sebbene passassi il tempo a domandarmi perché quella batteria facesse tuschhh e il piano a coda di Roy Bittan somigliasse all’improvviso al pianino giocattolo di quando ero bambino, e sebbene fra i sessantamila del Meazza avessi realizzato che eravamo riusciti a coronare l’attesa solo nel momento in cui Bruce si era guadagnato le copertine delle riviste da ragazzine, in canzoni come No Surrender avevo ritrovato il “futuro del rock and roll”, quel futuro di cui orgogliosamente ci eravamo sentiti parte. E poi avevamo vent’anni, e Bobby Jean raccontava come meglio non avremmo saputo fare il momento in cui volti le spalle ai sogni adolescenziali.
Fu qualche mese dopo che dissi adesso basta, non mi ci trovo più. Mi misi in cerca di una presunta “naturalità” della musica, che mi sembrò di trovare più pura e meglio conservata nel suono di Bob Dylan e di tanti altri piuttosto che in quello possente e muscolare della E Street Band. I dischi successivi di Bruce, da Tunnel of Love in poi, sembravano fatti apposta per darmi ragione: troppa elettronica e troppo studio di registrazione. I difetti che pure avevamo perdonato a Dancing in the Dark erano diventati la cifra della nuova musica del Boss. Così il “mio” suono americano era sempre più quello di Dylan e The Band su tutti, e poi di Ry Cooder, e dei Byrds, e il presente era rappresentato da Steve Earle e non più dai suoni e dalle magliette freschi di bucato del Boss. Questo per quanto riguarda il cuore e i sensi. Per la mente (a vent’anni riesci a fare queste distinzioni insensate), la musica era quella che andava da Jelly Roll Morton fino a Miles Davis, con una certa spiccata curiosità per quello elettrico ma con totale devozione per quello che soffiava l’anima nel registratore passando solo per la tromba.

Ti ci vuole del tempo per capire meglio che quando litighi con la musica della tua vita e ti metti in cerca di una qualche forma di verità sempre più pura e nascosta, quello che stai facendo ha a che fare con dei conti aperti con qualche parte di te, e che questo vale anche per i pantaloni di Piero.

In queste ore è morto Clarence Clemons, che non soffierà più nel sax che ha incendiato quel suono e la nostra gioventù. E il fatto che al futuro del rock and roll siamo sopravvissuti e abbiamo persino potuto vedere il futuro del futuro, ci consola poco. Tre anni fa era morto Danny Federici, il tastierista della band, e avevamo accettato che quella parte di noi avrebbe continuato a vivere monca. Oggi è successo qualcosa di più. Non solo perché “Big Man” era di Bruce il contraltare e lo completava, ma anche perché se una perdita è una perdita, la seconda è il segno inequivocabile che il cielo ha tolto la sua mano da quella storia. Da quella parte di te, con cui magari avevi bisogno di continuare a litigare su quale sia il modo giusto di essere “puri”.

Altre storie vivranno, e magari saranno anche da ricordare: e sono sicuro che Springsteen di storie da raccontare ne ha ancora tante (quanto ho amato, di amore struggente, il suo disco su Pete Seeger, la sua deflagrante e poco filologica festosità: magari gonfia anche quella della grandeur da kolossal del rock and roll, che però riesce a diventare quasi ironica nel matrimonio con le ballate folk della tradizione).

Altre storie vivranno: ma quella, quella non sarà più la stessa. E, per chi capisce cosa intendo, nemmeno noi.

Originally published at massimogiuliani.wordpress.com on June 19, 2011.

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Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.