Andrea Tarquini, storie e chitarre dal Novecento.

Esce il 17 giugno “In fondo al ‘900”, il nuovo album del cantautore e chitarrista romano. Lo precedono due singoli che da qualche settimana circolano in streaming. Il ragno li ha ascoltati e ha colto l’occasione per scambiare qualche parola con l’autore. La conversazione è stata molto più lunga, ma per il momento vi riporto la parte che riguarda l’album in uscita.

Massimo Giuliani
RadioTarantula
6 min readJun 4, 2022

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Andrea Tarquini è un cantautore con una storia importante che comincia al fianco di Stefano Rosso. Al cantautore romano scomparso nel 2008 Andrea dedicò il suo primo album “Reds” (2013), realizzato con un cast pazzesco di amici che vanno da Luigi De Gregori a Beppe Gambetta a Paolo Monesi a Leonardo Petrucci. Il secondo è “Disco rotto” del 2016, anche quello registrato con una squadra stellare (e Anchise Bolchi alla produzione).
Il prossimo 17 giugno arriva “In fondo al ‘900” e in giro ci sono due singoli (la canzone eponima e “UFO Robot”) che lo anticipano. La prima impressione è che Andrea Tarquini, ancora una volta e ancora più forte, canti il tema della memoria, che mi capita di sentire al centro di tutto quello che fa. A volte si mostra in modo più personale e leggero, altre volte più impegnativo — come quando in “Un fiore rosso” canta la vicenda di Eluana Englaro. Stavolta la memoria è quella di chi ha vissuto il Novecento, con le luci e le ombre di quegli anni, le tragedie e l’impegno politico che faceva da cornice e dava senso alle cose che accadevano.

Max Giuliani: Andrea, mi domandavo se sia una questione di nostalgia. Poi mi ha risposto quel verso di “UFO Robot” in cui lo escludi esplicitamente, quel passaggio dove canti: “…e rimane una scia, e non è nostalgia…”

Andrea Tarquini: Le due canzoni sono “UFO Robot” e “In fondo al ‘900’”: parlano della stessa cosa, da punti di vista diversi. Quando ho finito “In fondo al ‘900” ho sentito che avevo toccato solo alcuni punti. Il ‘900 è anche Hitler, l’olocausto, il Vietnam… chi è figlio di quella storia è stato abituato al culto della memoria. Siamo il paese dove c’è la più alta concentrazione di arte e cultura nel mondo. Qui sono nati il violino e il violoncello. Qui è nato uno stile di vita per cui avevamo pochissimi obesi, perché si mangiava in un certo modo. Questa è memoria. Ora si istituiscono non so quante giornate per ricordare questo e quello, un segnale più propagandistico che altro, che non nasconde il fatto che la memoria non è praticata quotidianamente. Solo per fare un esempio, guarda tutta la tematica femminile: non c’è un giorno senza la notizia di un femminicidio. Tutta quella tematica si è tentato di sistemarla con iniziative simboliche, le quote rosa, le pari opportunità, le giornate dedicate, ma un tempo erano vissute come temi di liberazione, di educazione. Non si parla mai dell’educazione dei maschi che si sentono inadeguati e diventano violenti. Siamo un paese frantumato socialmente, per cui senti il bisogno di dire che senza memoria, senza studio e ricerca, non avremo nessun futuro.

MG: Non mi sorprende sentirti parlare così… Appunto, è una visione che emerge dalle tue canzoni. A proposito di memoria e di storia, io sento dalle tue canzoni una forte connessione affettiva con Stefano Rosso…

AT: Ah, quella si sentirà sempre. Anche se chi ha preascoltato il disco nuovo mi dice: ti sei affrancato dal tuo padre artistico…

MG: Io mi sono domandato se non sia un disco meno chitarristico dei precedenti…

AT: No, guarda, al di là di quelle due canzoni c’è per esempio un brano acustico totalmente strumentale con la chitarra e un sax soprano suonato dal grande Luca Velotti, clarinettista di Paolo Conte, jazzista, professore eccetera eccetera… poi c’è il brano finale con la Nashville tuning più altre due chitarre…

Ph. Saretta Fantozzi

MG: La Nashville tuning?

AT: La conobbi parecchi anni fa, successe che Will Ackerman passava per l’Italia e mi chiese dove poter lasciare in sicurezza le sue chitarre per qualche giorno…

MG: Vi conoscete?

AT: Sì, ci suonai anche insieme… Insomma, le portò da me e una delle due era una parlor della Martin, quindi con la scala ridotta. Aveva le corde montate in quel modo, come se di una muta da 12 corde tu prendessi solo i cantini: delle quattro corde più basse metti solo le corde risonanti acute, mentre Si e Mi sono ovviamente dello spessore normale. In questo modo hai una chitarra con dei mostruosi cantini al posto dei bassi. In più l’aveva accordata in open tuning. Immaginati la scena, mi porta queste chitarre e poi se ne va, saluti, “ciao”, “ciao”, e a quel punto guardo gli astucci e mi dico: devo vedere cosa c’è dentro. Apro furtivamente e trovo questa chitarrina che ha, oltre all’accordatura aperta, questa serie di corde che vedo per la prima volta!

MG: Quella che usi in una canzone del disco nuovo…

AT: …in “Uve al sole”. E poi nell’album c’è molto violino americano, c’è molto mandolino! La chitarra, è vero, forse un po’ meno in primo piano rispetto al disco precedente, però è sempre la base sulla quale scrivo. In “In fondo al 900” la parte del pianoforte l’ho scritta io: prima l’ho fatta con la chitarra, poi trascritta per il pianoforte, e infine l’ho fatta suonare da Nicolò Protto. La chitarra acustica è meno in primo piano, ma è sempre il motore di tutto.

MG: …un modo di lavorare che ti porta dritto nella grande tradizione cantautorale italiana…

AT: Qualcuno, dopo aver ascoltato “In fondo al Novecento”, mi dice “è un po’ degregoriana”. A parte il fatto che per me è un complimento. Francesco è uno che ha fatto la storia della canzone italiana, e anche del costume. Ci mancherebbe che non stia nella memoria. Ma al di là di questo, capita che se fai un disco un po’ springsteeniano ti dicono “riecheggia Springsteen” e le recensioni dicono “che figata!”. Se per caso, invece, c’è un’aria degregoriana c’è sempre qualcuno che te lo fa notare in un altro modo…

MG: Uhm… non mi era venuto in mente De Gregori. Anche se capisco che l’argomento, l’arrangiamento di piano, possano rimandare a quei riferimenti, a “La storia”… Ma al di là, anche fosse, io penso che sia una questione anche di onestà essere trasparenti sulle proprie influenze: “questo sono io, questa è la mia storia, questo è quello che mi ha fatto diventare quello che sono”.

AT: È così. Io poi sono convinto che viviamo in un’epoca in cui tutto è talmente derivativo che tanto vale innaffiarla, questa memoria… Il punto vero è fare le cose in un modo più decente possibile anche sul piano etico. Poi se una canzone è scritta male, o è copiata, o è un patchwork di cose diverse, inevitabilmente poi dal vivo la suoni male. Alla fine si vede. C’è una limpidezza se c’è un senso di responsabilità.
Alla fine la musica è sempre un esercizio di memoria. Ma questo accade, non ti devi manco accorgere che stai tirando fuori una cosa che assomiglia a qualcosa. Quello che fai è sempre frutto di quello che hai ascoltato. E nella storia di un artista aumenta nel tempo la confidenza con l’atto creativo, guarda per esempio i dischi di Lucio Dalla: i primi sono molto diversi da quelli degli ultimi anni 70, primo 80… sei circondato da un entourage produttivo e promozionale che gradualmente comincia a fare per te le cose che prima facevi da solo, e questo ti permette di rilassarti e calarti sempre più in quello che fai.

MG: Andrea, tu organizzi da anni la rassegna “Corde e voci d’autore” nel calendario dell’Acoustic Guitar Village che si svolge ogni anno a Cremona nell’ultimo week end di settembre…

AT: Sì, per quest’anno stiamo raccogliendo le ultime iscrizioni al Premio, che si tiene il venerdì in mattinata. E poi c’è la rassegna, a partire dalle 14 della domenica. La line up è completa, stiamo per rivelarla…

MG: Allora al 23 settembre a Cremona!

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Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.