Angelo Branduardi: le magie si fanno (almeno) in due

Massimo Giuliani
RadioTarantula
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11 min readSep 22, 2013
Angelo_Branduardi_e_Maurizio_Fabrizio_nel_1979

Questa storia dimostra che nella musica il successo è sempre il prodotto di un incontro magico. Anche di tante altre cose, si capisce, ma se non capita uno di quegli incontri lì, non c’è niente da fare. Quando dico il successo non intendo per forza nel senso dei numeri, e del pubblico, e dei soldi, ma spesso se la magia è di quelle che funzionano veramente, arrivano anche quelli.
A dispetto dell’immagine comune del musicista che crea chiuso nella stanza col suo strumento, la musica è un fatto collettivo, mai individuale. Quel momento privato, quando c’è, fa comunque parte di una storia. E sebbene per semplicità e per questioni legali siamo abituati a pensare a una canzone (a un disco, a una carriera) come il prodotto di un intelletto individuale, quasi mai è così. Forse nessuno dei nostri eroi sarebbe diventato quello che è diventato se non avesse incontrato quel compagno di strada, quell’amico, quel suo alter ego grazie al quale il suo progetto si è realizzato in quel modo (e proprio in quello).
Avevo qualcosa come tredici anni e sul secondo canale della tv andava il programma “Odeon. Tutto quanto fa spettacolo” di Brando Giordani ed Emilio Ravel. Una sera passò “Alla fiera dell’est”, una canzone di uno strano violinista di formazione classica, con un sacco di capelli, che passando per Dylan e Donovan era arrivato alla canzone d’autore.
Non se ne sapeva un granché, salvo che mi pareva di ricordare una sua canzone che si chiamava “La luna”. Qualche settimana dopo avrebbe suonato nel Teatro Comunale della mia città, e fra noi amici che si passavano i primi dischi a 33 giri si decise di andare ad ascoltarlo.

Angelo Branduardi era al terzo album, e di quella serata ricordo la filastrocca che intitolava il disco, e poi “Il dono del cervo”, “Sotto il tiglio”, “La serie dei numeri”, “Confessioni di un malandrino”, dall’album precedente, e “Re di speranza”, dal primo (realizzato con Paul Buckmaster, uno che fino al giorno prima aveva arrangiato per Elton John e aveva lavorato con David Bowie per “Space Oddity”).
Per quanto lo si dica spesso, la musica di quella sera non assomigliava a nulla che avessi ascoltato prima. Capivo che “Alla fiera dell’est” aveva una storia che veniva da lontano, sentivo che il flauto di “Il dono del cervo” aveva una parentela con la musica andina che avevo ascoltato dagli amici più grandi e che “Re di speranza” assomigliava un po’ di più alle canzoni-canzoni che mi erano più familiari, ma che comunque ciascuna di quelle canzoni rimandava a qualcosa che rimandava a qualcosa che rimandava a qualcosa ancora.
Una canzone non era una cosa che stava dentro i confini di una canzone. Già questo era sconcertante e mi faceva immaginare territori da esplorare, di grandezza spaventosa ma anche pieni di sorprese.
Cercai di leggere tutto quel che c’era in giro e scoprii che c’era una persona piuttosto decisiva per gli arrangiamenti e per i suoni di quel disco. Era un tipo dai capelli più normali, che come chitarrista era più bravo di Branduardi ma assolutamente complementare a lui. Si chiamava Maurizio Fabrizio, era un musicista classico che all’inizio degli anni 70 aveva tentato la carriera di cantante e autore nella canzone leggera. Dal vivo, accanto a lui, suonava la chitarra e i plettri.

Bisogna dire che a quel tempo stavo cercando di frequentare le lezioni di chitarra classica nel locale Conservatorio, ma la cosa si rivelava inutile per entrambi. Ero partito da lì perché era l’unico modo di cui mi avessero parlato per imparare la chitarra, ma la classica non era precisamente lo strumento che mi scaldava il cuore. Così, sentir suonare una canzone come “Confessioni di un malandrino” mi fece considerare la possibilità che quello strumento dalla cassa grossa e dalle corde di nylon nascondesse qualcosa che non conoscevo ancora.
Quel concerto mi segnò profondamente, e per due anni i miei dischi furono “Alla fiera dell’est” e “La pulce d’acqua”. Oltre, naturalmente, ai primi due che recuperai in fretta. I “miei” dischi nel senso che, oltre a consumarli (letteralmente: “Alla fiera” lo dovetti ricomprare) furono la bussola per orientarmi nella musica e i punti di partenza per i viaggi successivi. Mi misi ad ascoltare musica medioevale e rinascimentale.
Nel settembre del 1978 mi trovavo per caso a Torino con i miei. Proprio in quei giorni suonava al Palasport la “Carovana del Mediterraneo”, una festoso gigantesco collettivo formato da Branduardi con tutto il suo gruppo, il Banco del Mutuo Soccorso e Maurizio Fabrizio con un’orchestra d’archi. (Oggi, quando si dice “La Carovana del Mediterraneo”, si pensa al tour di qualche anno dopo, Branduardi insieme a Stephen Stills e Richie Havens, ma pochi ricordano che c’era un precedente: questo). Lasciai i miei al ristorante e presi un autobus per il Palasport. Sarebbero venuti a riprendermi alla fine, gli detti un orario molto comodo.
Fu un concerto di incredibile energia, una cosa irripetibile. Non so come darvi un’idea, immaginate se nel Rinascimento, in quella notte di tuoni e fulmini, invece che Troisi e Benigni, ci si fosse ritrovato Bruce Springsteen. Due batteristi sempre compresenti, il basso di Gigi Cappellotto che aveva una classe irraggiungibile ma anche un tiro da fare spavento, le launeddas di Luigi Lai, la grandiosità dell’orchestra (che a Torino non era nemmeno al completo, il privilegio fu riservato a pochissime date), arrangiamenti totalmente stravolti rispetto agli originali dei dischi, e poi un palasport pieno di gente di tutti i generi, capelloni, punk con le spille, e in mezzo io a quattordici anni.
Lo show fu lunghissimo, non so dirvi quanto, ma quando uscii perché i miei erano fuori ad aspettare da un po’, quelli non avevano ancora finito di suonare. Questa versione di “Re di speranza” dal film “Concerto”, del quale uscì un cofanetto con triplo vinile, si riferisce proprio alla “Carovana”.

Non c’era in quel periodo in Europa uno spettacolo che raggiungesse quei livelli di coinvolgimento. Dal vivo Branduardi era un folle. Il fiuto (e i mezzi) di David Zard gli avevano permesso di aprirsi una strada da popstar internazionale, ma soprattutto il rigore e la progettualità di Maurizio Fabrizio, che arrangiava, orchestrava e suonava diversi strumenti, erano il contenitore migliore per disciplinare quella follia. (Credo che nella musica italiana di quegli anni il “produttore” non fosse una figura determinante come sarebbe diventata poi: un disco, in fin dei conti, lo si suonava; magari con molte sovraincisioni, ma con un approccio piuttosto live e artigianale, comunque senza soverchie intermediazioni della tecnologia: il vero demiurgo della sala d’incisione, dunque, era piuttosto l’arrangiatore.)
Nel 1979 uscì “Cogli la prima mela”. Come il precedente, era un disco che a tratti si faceva strada nel sovraccarico di arrangiamenti e di orchestrazione. Tutt’altro da quel disco della scoperta, che stava tutto sul piccolo palco dell’antico Teatro Comunale. Anche quello, comunque, diventò un punto di partenza per la conoscenza di altre cose. Ad esempio, lessi che la canzone del titolo era debitrice all’amore giovanile di Branduardi per Cat Stevens, e così mi misi in cerca di quel cantante anglo greco (la fortuna fu che mio cugino, a Roma, ascoltava soltanto quello; e siccome dovetti passare più di un mese forzato a Roma, passai metà del tempo da lui ad ascoltare Cat Stevens e l’altra metà dalla cugina di cui vi ho già detto che comprava i dischi a Londra, e di lì la strada cominciò a dividersi in più sentieri differenti).
Gli archi e gli arrangiamenti, dicevo. D’altra parte, nell’anno della “Carovana”, Maurizio Fabrizio aveva pubblicato un album visionario quanto ambizioso, un esperimento neoclassico con gruppo rock nel quale dirigeva niente di meno che l’Orchestra della Scala.

Negli anni successivi successero molte altre cose, io presi a seguire altre piste (ma la musica medioevale rimase una mia fissa), e il rapporto di collaborazione fra Branduardi e Fabrizio cominciò ad allentarsi. L’arrangiatore infilò una serie di successi sanremesi come autore e si aprì la strada per il mondo delle grandi produzioni pop degli anni successivi. Per l’album successivo di Branduardi gli arrangiamenti tornarono nelle mani sapienti di Paul Buckmaster e tutto sommato non ne soffrirono. Certo, il fascino irresistibile di quel pugno di dischi degli anni 70 era un’altra cosa.
Maurizio Fabrizio tornò ad essere determinante in occasione del disco del 1986, “Branduardi canta Yeats”. Dieci canzoni su liriche del poeta irlandese, suonate con due chitarre classiche e poco più. Il collaboratore dei tempi migliori sapeva essere determinante sia quando c’era da arrangiare grandi orchestre, sia quando c’era da cercare la musica togliendo tutto quello che c’era da togliere.
Un disco formidabile nel suo minimalismo. Il successo del tour internazionale lo premiò.
In quell’anno ebbi l’occasione di intervistare Angelo per la mia radio. Lo raggiunsi al telefono nella sua stanza d’albergo nel giorno di una data austriaca. L’intervista trascritta si può leggere qui.

Poi a quella magia successe qualcosa. Probabilmente il mercato discografico di quegli anni non aveva più alcuna disponibilità verso una musica come quella, e richiedeva piuttosto suoni sempre più standardizzati e uniformi. Fabrizio entrò trionfalmente in quella nuova realtà e legò il suo nome a collaborazioni stabili con personaggi come Ramazzotti e al festival di Sanremo. Sui dischi di Branduardi sarebbe tornato a regalare un po’ del suo talento di polistrumentista, di tanto in tanto. Non che Branduardi sentisse la nostalgia degli anni dei grandi numeri (lo dice chiaro anche nella mia intervista) ma insieme al ridimensionarsi delle platee è come se il progetto si appannasse piano piano.
Il rapporto con le fonti musicali si fece ambiguo. Da sempre, è evidente, Branduardi utilizzava frammenti di materiale tradizionale, o materiale già strutturato, e non sempre dichiarandone la provenienza. In generale questo rifletteva una leggerezza (diciamo così) tipicamente italiana. Da noi si pensa ancora che “Geordie” sia una canzone di De Andrè, per dirne una.
Ma per esempio, quando comprai “Pane e rose” e lo misi sul piatto, restai di stucco all’ascolto della prima traccia, “L’albero”. Fatta salva la sostituzione della chitarra classica alla slide, era la trascrizione precisa, senza intervento alcuno, del tema di “Paris, Texas” di Ry Cooder. Il quale era ispirato a sua volta a un vecchio classico americano, “East Virginia”.

Peraltro, nell’attesa di quell’album, si era sparsa la voce di una partecipazione di Cooder stesso. La voce poi rientrò, ma mi venne facile immaginare che (se non si era trattato di una bufala promozionale) il chitarrista americano avesse declinato davanti a un utilizzo così ingenuo della sua musica.
Con il folk statunitense Branduardi tornò a dialogare nel 1993, col cd “Si può fare”: e lì c’erano veramente ospiti come Jorma Kaukonen e Zachary Richard. Un lavoro davvero molto godibile, l’incontro fra l’universo creativo di Branduardi e il mondo della musica tradizionale americana partorì alcuni episodi di sottile bellezza.
Ma qualcosa non tornava. Branduardi aveva ricambiato la partecipazione di Zachary Richard con un duetto (in italiano!) sull’edizione europea dell’ultimo album del musicista della Louisiana: “Brucio”, traduzione della canzone “Burning”. Era impossibile non vedere come l’episodio “cajun” dell’album di Branduardi (“Forte”) apparisse completamente ricalcato sulla canzone di Richard, un esercizio di stile che suggeriva l’impressione di un approccio, da parte del musicista italiano, quantomeno scolastico alla tradizione americana e alla musica dei suoi ospiti di lusso.
Da questo punto di vista l’episodio del 2003 appare incomprensibile. Branduardi pubblica “Altro ed altrove”, un cd ispirato alla poesia erotica dei popoli del passato. Un’impressione diffusa di già sentito è generata dalle cospicue autocitazioni, e vabbè.
Ma una parte del pubblico nota subito una somiglianza imbarazzante fra la canzone “Lo straniero” e “Orinoco Flow” di Enya.

Di più: “Il bacio” è identica, anche nella strumentazione, a “Lazy Days” della cantante irlandese:

Non basta. Un’altra connessione sulla quale non ho trovato polemiche in giro, ma che alle mie orecchie è evidente, è quella che riguarda “Se Dio vorrà”: dopo il minuto 1'10" parte un inserto di pianoforte che è la trascrizione esatta (anche qui, senza sostanziali interventi sullo script che non siano la ovvia ricontestualizzazione) di “Music for a Found Harmonium” della Penguin Cafè Orchestra.

Se negli anni precedenti si nutriva di materiale musicale delle diverse tradizioni, qui pare guardare al mainstream, o comunque alla musica corrente, non ancora stratificata nella memoria. Operazione che può anche avere le sue ragioni se non fosse che appare come una forma di appropriazione, se non indebita quantomeno piuttosto disinvolta, di quel materiale.

Come dicevo, in Italia è possibile. Forse anche per una critica musicale poco sensibile a questi aspetti.
Poco prima dell’episodio cooderiano, nel 1992, era uscito “Good as I been to you” di Bob Dylan. Era un album suonato con chitarra e armonica e tutto dedicato agli standard del folk americano e inglese. Fra il novembre del ’92 e i primi mesi del ’93 il dibattito su quel lavoro incendiò le pagine (sia delle recensioni che della posta) di Folk Roots, autorevole rivista britannica, perché, fra le altre ragioni, Dylan aveva usato per la canzone “Canadee-i-o” un arrangiamento troppo simile a quello di Nic Jones.
Dylan, dico. Non uno qualunque.
E non perché avesse “rubato” una canzone. Ma perché aveva arrangiato una canzone popolare, cioè “public domain”, cioè di tutti, in modo troppo simile a quello di un collega senza citarlo.
Non fu casuale, credo, che il cd successivo di Dylan, “World Gone Wrong”, che completava il progetto, uscì corredato di un libretto col titolo “About the songs”, che spiegava per filo e per segno la storia dei pezzi del disco e degli arrangiamenti utilizzati.

Non penso che da parte di Branduardi ci fossero cattive intenzioni. Credo si tratti soprattutto di un’ingenuità sostenuta da un problema culturale che riguarda la preparazione e la sensibilità della stampa e del pubblico. Peraltro dal ’96 Branduardi prese a pubblicare una serie di lavori dal titolo “Futuro Antico” (non so bene a che numero sia arrivato) che è anche un omaggio esplicito alle sue fonti e una operazione di chiarezza sulle origini di tanta parte della sua ispirazione: a partire da Giorgio Mainerio, il musicista del ‘500 che aveva raccolto e utilizzato “cellule” melodiche che grazie a lui sarebbero in seguito state utilizzate e rielaborate ampiamente. Lo furono anche da Branduardi: su tutte, valga come esempio la composizione di Mainerio “Schiarazule Marazule”, che sarebbe diventata “Ballo in Fa Diesis minore”.

Il lavoro del 2000, “L’infinitamente piccolo”, ispirato a Francesco d’Assisi, gli ha restituito un pubblico appassionato come ai bei tempi. Una platea che forse assomiglia più a quella che in altri paesi segue il “christian rock”, più che essere interessata al fatto musicale in sé. Un disco davvero collettivo, che non sarebbe lo stesso senza NCCP, Muvrini, Battiato, Madredeus. Il lavoro offre più di un momento di piacere e più di un’idea musicale sorprendente. Forse l’autore ne è rimasto in qualche misura prigioniero: dopo una lunga tournèe lo ha portato in giro anche come “La Lauda”, un musical sulla vita del santo, e per anni il repertorio di quel cd è stato al centro della sua attività dal vivo. Ma forse questo corrisponde anche a qualche necessità dell’uomo, e va bene così.
Alcuni dei passaggi della sua musica restano indimenticabili, e indimenticabile resta la lezione che si trae dalla sua storia artistica: che le magie si fanno sempre in due. Maurizio Fabrizio vive una fortunata carriera di produttore e arrangiatore di lusso, che certamente lo ripaga ma altrettanto certamente non lascerà qualcosa di paragonabile a quel che lasciò, accanto al menestrello sodale, in un periodo che per la musica italiana fu creativo, forse ingenuo ma certamente fuori dagli schemi stretti che qualcuno avrebbe costruito poi.

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Massimo Giuliani
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La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.