Bob Dylan e “Chronicles”: come l’ho letto, come ci ho viaggiato

Se ho impiegato sei mesi a leggere “Chronicles”, è stato per scelta. Poche pagine ogni notte, nutrendomi di esse anziché divorarle. Per dilatare il tempo e garantirgli consistenza di luogo…

Massimo Giuliani
RadioTarantula
19 min readApr 10, 2021

--

di Silvia Longo

Silvia Longo lavora da trent’anni presso una cooperativa sociale che si occupa del recupero e del reinserimento socio-lavorativo di persone in situazioni di disagio, soprattutto nell’ambito delle dipendenze patologiche. Ama leggere, ha il vizio di scrivere. Nel 2012 ha pubblicato per Longanesi il romanzo “Il tempo tagliato”. È presente in diverse antologie con poesie e racconti. L’altra sua grande passione è la musica.

Se ho impiegato sei mesi a leggere “Chronicles”, è stato per scelta. Poche pagine ogni notte, nutrendomi di esse anziché divorarle. Per dilatare il tempo e garantirgli consistenza di luogo. Per colmare di suono il vuoto che percepivo intorno e dentro, e ascoltarne la cadenza. E prolungare lo stupore, le stelle nei primi giorni di un amore, l’albore che illumina ogni angolo e soffia sulla polvere. Dopo una latitanza di senso indotta da circostanze diverse, sentivo ora risvegliarsi parti di me intorpidite. E volevo che quanto ricevevo vibrasse il più a lungo possibile prima di depositarsi in qualche cassetto. Alla volatilità dell’emozione contrapporre la durata, questo l’intento, e continuare a percepirmi abitata dalle moltitudini cantate da Dylan, narrate nelle sue cronache.

E ho letto per viaggiare — la struttura stessa del testo suggerisce l’idea, descrivendo un percorso di tappa in tappa — anche perché il never ending tour è a tutt’oggi interrotto causa Covid, e chissà se e quando mai potrà essere ripreso. Chi ama la musica e l’arte in genere — oltre ai professionisti del settore — ha vissuto con dolore la chiusura di musei, cinema e teatri, la cancellazione di concerti ed eventi pubblici. Ci siamo ritrovati d’un tratto orfani di bellezza trasmessa in modo diretto; inventiamo palliativi, da artisti o fruitori.

Se intendiamo il never ending tour, oltre il viaggio fisico, come work in progress, possibilità di mai arrestare il processo creativo e la sperimentazione, visto che Dylan continua a lavorare sulle proprie canzoni ogni volta che le esegue dal vivo (sottraendo cioè l’opera d’arte ai rischi che corre nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, là dove la fruizione diviene consumo, la magia del qui e ora è sostituita dalla possibilità di replicarla sebbene depauperata di parte del significato originale, nel fraintendimento per il quale acquisire una copia dell’opera significhi possederne l’essenza: tutto ciò va ad alimentare la macchina produttiva del Mercato e, non è nemmeno così sottile, la possibilità di manipolazione politica dell’opera stessa) avremo chiara la lacerazione. Tra libertà di mettersi alla prova con nuove modalità espressive, oltre che sulla strada, e l’obbligo alla stasi. Vero che si può viaggiare anche con la mente, e che il desiderio di bellezza può essere in parte appagato restando a casa. Ma alla lunga mancano il contatto diretto, l’interazione immediata, la parte fisica dell’esperienza. E credo che Dylan — nonostante il riserbo che lo caratterizza, quel modo di fare che lo univoca, che cioè lo rende unico e forse in qualche modo solo — abbia sofferto per la rottura forzata del suo ricercare, di una stanzialità faticosa alla sua natura mercuriana, per la distanza tra sé e noi, i suoi amanti. Che magari anche per questo abbia deciso, a sorpresa, di donarci “Murder Most Foul”, lo scorso 27 marzo 2020. Non dimenticherò mai il primo ascolto di quella canzone, le circostanze, il modo in cui la luce filtrava nella mia stanza, le parole che scrissi a caldo:

“Ho ascoltato molte volte la traccia, cercato il testo in rete. L’arrangiamento, pianoforte e archi soprattutto, un tappeto sonoro e la voce sopra che racconta commossa, partecipe, avvolgente, una carezza se non fosse che il testo è un lamento, una specie di celebrazione sommessa eppure vibrante di quanto abbiamo perso in senso di cultura, impegno artistico e sociale, umanità e innocenza, una carrellata di citazioni: personaggi famosi, film, canzoni nella canzone, fatti storici precisi a partire dall’assassinio di Kennedy, “il più atroce dei delitti” (Shakespeare), quasi un male radice di altri mali in successione inanellati e inevitabili forse perché, quando si rompe un equilibrio, è difficile ristabilirlo, e quando il male trova la crepa per insinuarsi poi è arduo scacciarlo o vedere la luce che attraverso filtra nonostante,

e così, è come se tutto quello che Dylan canta in “Murder Most Foul” sia narrazione di noi, oggi, soli in questa epidemia da calende di marzo, del fallimento di un sistema politico economico e culturale, il crollo della società e del suo senso, la caduta dell’Impero romano d’occidente, quando mai rivedrò Roma, e se accadrà sarà comunque ferita della sua stessa gloriosa bellezza, perché così vanno le cose quaggiù, ciò che ci accende e fa splendere può bruciarci, ciò che ci ispira può disperarci nel non riuscire a controllarlo a definirlo a contenerlo, esplode prende fuoco e le fiamme salgono altissime, alte tanto questa canzone, una specie di lungo saluto a un mondo che non esiste più, in disfacimento, alte quanto la distanza dell’artista dal mondo che pure sente suo e per questo compiange, non riesce a smettere il lamento dolce e triste come luce di stelle, che quando arriva a noi, magari la stella è già spenta.”

Ricordo di aver temuto, in quella circostanza e con la successiva uscita di “Rough and Rowdy Ways”, che Dylan non godesse buona salute, che stesse replicando quanto agito da Bowie con “Blackstar”: prendere congedo piangendo in anticipo la propria morte, signorile e generosa, trasformando anch’essa in opera d’arte. Così che la propria stella, da morta continuasse a splendere. Il fatto che a dicembre Dylan abbia ceduto i diritti del suo catalogo alla Universal Music mi ha di nuovo messa in agitazione. A maggior ragione essermi immersa nello studio di “Chronicles” mi ha aiutata a immaginare Dylan ancora in viaggio. E a immaginarmi in viaggio con lui.

Dovevo avere accanto lo stereo, mentre leggevo, per ascoltare i dischi di cui si parla; e il portatile, per cercare in rete i testi citati, informarmi sui personaggi nominati e se possibile guardarli in faccia, per visitare con Google Map e Earth i luoghi nei quali Dylan di volta in volta mi conduceva. Così sono stata a Duluth, mi sono aggirata tra casette basse dai tetti spioventi e edifici industriali, lungo ponti robusti e strade ampie che digradano verso il lago.

“Quello che più mi ricordo di Duluth sono i cieli come una lastra grigia e le misteriose sirene antinebbia, bufere violente e i venti che fischiavano senza pietà, provenienti dal grande misterioso lago nero. Quasi tutta Duluth era inclinata. Non c’era niente di piatto lì. La città è costruita sul fianco di una ripida collina e si cammina o in salita o in discesa.”
L’ho immaginata in inverno, le periferie distese a perdita d’occhio, abbaglianti di neve come in alcuni episodi della prima stagione di “Fargo”. E ho pensato che accadono fatti, nella vita di ciascuno, che non sono affatto casuali, e che i chiaroscuri dei luoghi inevitabilmente confluiscono negli animi di chi li abitano, caratterizzandoli, mescolandosi con la sostanza di cui sono composti. E che la musica, quando è sincera, è strettamente connessa alla geografia e alla storia di un territorio:

“la musica folk era una realtà fatta di una dimensione più splendente...”

E poi: “…Io mi sentivo a casa mia in quel reame mitico fatto più di archetipi che di individui — archetipi di umanità tracciati vividamente, metafisici nella loro forma, ogni ruvida anima piena di sapienza naturale e saggezza interiore, ciascuna a chiedere il rispetto che le era dovuto. Io credevo a quel mondo, e lo sapevo cantare. Era così reale, così tanto più vicino alla vita della vita stessa. Era la vita, ma resa più grande…”

e che pertanto ti fa viaggiare. E nella musica di Dylan il viaggio è sempre presente, come nel blues di uno dei suoi ispiratori, Robert Johnson. Nascere in Minnesota, per esempio, terra in cui la musica popolare deriva dall’unione tra la musica dei nativi e quella dei coloni europei. Crescere a pochi chilometri dalla sorgente del Mississippi, il fiume che si snoda attraversando dieci Stati per poi sfociare nel Golfo del Messico. E compiere lo stesso percorso del fiume, da Duluth a Minneapolis “dove mi sentivo liberato, fuori dalla gabbia. (…) Forse cercavo quello di cui avevo letto in “Sulla strada”, la grande città, la velocità, il suo suono, ciò che Allen Ginsberg aveva chiamato “il mondo del juke-box all’idrogeno” e poi ancora da nord a sud, solcando le terre in cui è nato il blues, fino a New Orleans, culla del jazz:

“Io ero anche appassionato di blues rurale, era come la controparte di me stesso…”

Ma prima soggiornare a New York, in cui diverse influenze musicali si erano mescolate nel tempo, e dove Gershwin aveva saputo fondere elementi della musica europea con gli idiomi del jazz e della musica popolare americana, creando qualcosa di difficilmente riconducibile a un unico genere. Anche Gershwin conteneva moltitudini: la musica impressionista francese, le sinfonie orchestrali russe, l’opera e il musical, il dramma teatrale e il vaudeville, il ragtime e il folk, lo spiritual e il blues.

“Chronicles” è diviso in cinque capitoli, e si apre con l’incontro tra Dylan e John Hammond, talent scout della Columbia Records, che mette sotto contratto il giovane Bob: “«Io capisco la sincerità.» Così mi aveva detto”.

Quello di Hammond è solo uno dei tanti ritratti che Dylan dipinge in questo libro. Alcuni, come quello di sua moglieaveva il talento di vedere un granello di verità più o meno in ogni cosa -, di Dave Van RonkDave andava dritto al cuore delle cose — e soprattutto di Woody Guthrie, traboccano rispetto, commozione, affetto.

“Guthrie aveva una tale presa sulle cose. (…) Le sue canzoni rappresentavano l’intero arco dell’umanità. E’ il poeta di una terra dalla crosta dura e dal fango appiccicoso. Guthrie divide il mondo tra quelli che lavorano e quelli che non lavorano, quello che gli importa è la liberazione della razza umana e vuole creare un mondo dove vale la pena di vivere.”

Anche dei personaggi descritti con poche pennellate trapela l’essenza, così come delle diverse stagioni e del clima sociale, politico, culturale.

“La Columbia era una delle prime e più importanti etichette del paese”, scrive…

E ancora: “La scena musicale americana tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta era piuttosto sonnolenta. Le radio commerciali perpetuavano una sorta di immobilità permanente, piene com’erano di piacevolezze”.

Più avanti: “Non c’era niente di allegro nelle canzoni folk che cantavo io…”

Nulla di così diverso da quanto accade attualmente, tanto in ambito discografico che editoriale, viene da dire. Si corre il rischio di non aver alcun successo, o di diventare impopolari, se si offre qualcosa di non allineato al gusto corrente, per contenuto e/o forma:

“Semantica ed etichette erano cose che facevano diventare pazzi. Il messaggio nascosto era che se uno voleva avere successo doveva diventare un rude individualista, per adeguarsi da subito alle circostanze. E, in conclusione, doveva conformarsi. Il passaggio da rude individualista a conformista poteva avvenire in un batter d’occhio”.

Tutto il secondo capitolo è ambientato in una New York che riporta, con le atmosfere nevose degli esterni e quelle fumose e composite dei club, a “Inside Davis” dei Coen: “luci color d’ambra mandavano un alone soffuso dalle finestre dall’altra parte della strada. Il nevischio colpiva l’edificio come un rullio di steel drums. Fuori dai vetri si sfrangiava in diamanti scagliati su velluto nero”. Un Bob Dylan non ancora ventunenne vagabonda tra il Greenwich Village e i vari caffé alla ricerca dei suoi ispiratori, primi tra tutti Woody Guthrie e Dave Van Ronk. Ospite di Ray Googh e Chloe Kierl, una coppia anticonformista e colta, Dylan attinge alla quantità di dischi e libri disponibili in quella casa. Romanzi, saggi, libri d’arte, testi di poesia. Lo colpisce Tucidide:

“‘Il generale ateniese’, una storia che dava i brividi. Era stata scritta quattrocento anni prima di Cristo e spiega come la natura umana sia sempre nemica di ciò che è superiore. Tucidide racconta in quale modo le parole, ai suoi tempi, avevano acquisito un significato ben diverso da quello ordinario, e come le azioni e le opinioni si possono modificare in un batter d’occhio. È come se niente sia cambiato dalla sua epoca alla mia”.

E alla nostra. Esiste un libro che ben spiega come alcune parole-chiave abbiano perso il senso originario e come vengano spesso ab-usate da chi sta al potere (in senso ampio, vista la stretta connessione tra politica, Mercato e cultura). In quest’ottica, riappropriarci del senso intrinseco alla parola e attribuirle un senso contestualizzato nella realtà, costituisce il primo passo verso la riscoperta dei valori fondamentali, una comunicazione potente e una mobilitazione pacifica. Si tratta di “Dizionario della dissoluzione” dell’attivista John Freeman (Black Coffee Editore).

Gradualmente Dylan riesce a inserirsi nel mondo variegato degli artisti che si esibiscono ogni sera nei locali, fa le sue prime brevi esibizioni. Per lo più interpreta canzoni della tradizione, non si sente ancora pronto a presentare le sue: “Non so esattamente quando mi venne in mente di scrivere canzoni. Sono cose che accadono per gradi. Non ci si sveglia un bel giorno con il bisogno di scrivere canzoni…”

Dylan è in primo luogo un osservatore attento della realtà. Sorprende come riesca a cogliere l’essenziale, per poi sintetizzare concetti complessi allo stesso modo in cui dipinge ritratti vividi: poche immagini e poche parole, ma evocative. In altri termini: le parole giuste. Il concetto di moltitudine torna spesso nelle sue narrazioni, di come sia necessario riassumere concetti ed esperienze, assimilarne il significato e poi liberarsene per far spazio ad altro:

“Volevo capire quello che dovevo capire e poi liberarmene. Avevo bisogno di imparare a comprimere cose e idee. A saperlo fare, si poteva mettere tutto in un paragrafo, o in una strofa.(…) Mi ero fatto un’idea delle canzoni che volevo scrivere. Solo che non sapevo ancora come procedere. Facevo tutto troppo in fretta. Pensavo in fretta, mangiavo in fretta, parlavo in fretta e camminavo in fretta. Avevo bisogno di rallentare un po’ i miei pensieri se volevo diventare un compositore con qualcosa da dire”.

Ma “Certe volte si sa che le cose devono cambiare”…

E “Quando succede sembra che succeda in fretta, come una magia, ma la realtà è del tutto diversa. Non è che si senta una sorda esplosione ed ecco che il momento è arrivato, gli occhi si spalancano e tutto a un tratto ci si ritrova pronti e sicuri. La transizione è più lenta”.

Il secondo capitolo è ambientato a Woodstock nella seconda metà degli anni ’60, periodo in cui Dylan è tanto famoso da essere considerato un punto di riferimento, un guru, un’icona. Ruolo che ovviamente a Dylan non piace e non interessa, vista la sua necessità di non doversi necessariamente collocare in una sola corrente o in un unico stile musicale e poetico, di non doversi etichettare a tutti i costi, data la sua personalità in continua evoluzione:

“sembrava che io fossi sempre all’inseguimento di qualsiasi cosa in movimento, un’automobile, un uccello, una foglia portata via dal vento, qualunque cosa che mi potesse condurre in un luogo con più luce, qualche terra incognita lungo il corso del fiume. (…) Gli eventi di quei tempi, tutta la babele culturale, mi stavano imprigionando l’anima, mi nauseavano. Capi del movimento per i diritti civili e leader politici abbattuti a fucilate…”

“Avevo avuto un incidente in moto ed ero rimasto ferito, ma mi ero rimesso. La verità era che volevo uscire da quella corsa dissennata. (…) Restare fedeli a se stessi era l’unico imperativo. Io ero un cowboy, non un pifferaio magico. La gente pensa che fama e ricchezza si tramutino istantaneamente in potere, che a sua volta porterebbe gloria, onore e felicità. Qualche volta sì e qualche volta no. Io mi trovavo bloccato a Woodstock, vulnerabile e con una famiglia da proteggere. I giornali, di me, dicevano tutto tranne questa verità. (…) Il mondo, a quanto pare, ha sempre avuto bisogno di un capro espiatorio, o di qualcuno che guidi la carica contro l’Impero romano. (…) Io non ero un predicatore capace di fare miracoli. Ci sarebbe impazzito chiunque”.

Tra gli assedi dei giornalisti e le richieste pressanti dei fan — e di alcuni colleghi artisti, tra cui Joan Baez — di uscire di casa a comandare la crociata, Dylan cerca di prendersi cura della famiglia, dipinge paesaggi e scrive “New Morning”, “un album che faceva parte di quello che poi i critici avrebbero definito il mio periodo di mezzo. In molti settori venne definito l’album del mio ritorno, e lo era”.

Ora, leggendo questo capitolo, mi si è affacciato alla mente il film di Haynes “I’m not there”, io non sono qui. Che mi è piaciuto molto. Racconta Dylan attraverso sei alter ego (io contengo moltitudini), ciascuno dei quali incarna alcuni aspetti del carattere di Dylan, o una fase della sua vita. In particolare ho amato l’episodio con Cate Blanchett che impersona Jude Quinn, famoso cantante folk ai ferri corti con la sua stessa notorietà, il cui comportamento è spesso strumentalizzato o travisato da fan, giornalisti, intellettuali. L’episodio culmina nella scena in cui Jude canta “Ballad of a thin man”, e viene oltraggiato e additato come Giuda, traditore. I versi della canzone sono potenti, e quando gliel’ho sentita eseguire dal vivo, a Milano, nel 2018, mi sono commossa alle lacrime. Mi è parso la voce di Dylan vibrasse ancora di quell’isolamento dettato dall’essere stato sempre se stesso, e a maggior ragione non sdoganabile, qualcosa di sottile e sfuggente alla grettezza di coloro che devono capire, etichettare, confinarti in un ruolo. Persone che non sono per forza migliori di te, ma ansiosi di spiegarsi il fenomeno, smontare la giostra, smembrare e sezionare il genio (definizione da Dylan stesso rifiutata reiteratamente) per assimilarlo o forse renderlo ancora più vulnerabile. E che, se non raggiungono l’obiettivo, si sentono così frustrate da detestarti, da negare il tuo talento, da cercare di distruggerti.

“Because something is happening here / But you don’t know what it is / Do you, Mister Jones?”

Ed eccoci nel gennaio del 1987, a inizio capitolo 4. Dylan ha avuto un brutto incidente e la sua mano “strappata e maciullata fino all’osso, era ancora in condizioni gravi e non mi sembrava più nemmeno mia”.

Quanto segue, per il mio gusto, è una delle parti più emozionanti del libro. Quella in cui ho ritrovato il miracolo della musica e della poetica di Dylan. Quel suo saper narrare con linguaggio semplice e lineare, e di colpo l’impennata, il guizzo, il verso che ti toglie il fiato, che ti spiazza e ti porta via, qualsiasi cosa tu stia facendo, in qualunque luogo ti trovi. In queste pagine, Dylan spiega cosa rappresenti per lui la musica dal vivo, in cosa consista la sua ricerca espressiva, e quanto conti l’onestà intellettuale per un artista autentico, e come la natura riesca a ispirarlo e a riconciliarlo con se stesso e il mondo: “Era stato uno strano scherzo del destino. Tutte le aspettative vanificate. Con cento date di concerti già in programma a partire dalla primavera, io non sapevo ancora se sarei stato in grado di suonare. (…) Capii che forse avrei dovuto dire addio alla speranza di poter suonare ancora dal vivo. In un certo senso sarebbe stato anche giusto. Fino a quel momento avevo ingannato me stesso, sfruttando il mio talento fino al completo esaurimento. (….) Erano anni che il pubblico veniva regolarmente rifornito di mie registrazioni su disco, ma le mie esibizioni dal vivo non riuscivano mai a catturare lo spirito intimo delle canzoni”.

E poi: “Alcuni mesi prima mi era capitato qualcosa di straordinario…”

“(…) L’epoca in cui ogni mio concerto era occasione di grandi sommovimenti aveva già subìto una brusca frenata, e ormai si era quasi fermata. (…) È bello sapere che sei una leggenda, e la gente è disposta a pagare per vederla, ma per la maggior parte della gente una volta è abbastanza. Bisogna saper onorare gli impegni, non sprecare il proprio tempo e quello degli altri. Non ero sparito dalla scena ma la strada si era ristretta, si era quasi interrotta e invece avrebbe dovuto essere ben larga. Non me ne ero ancora andato, stavo solo gironzolando giù nell’ingresso. Dentro di me c’era una persona scomparsa che io dovevo ritrovare. (…) In natura c’è un rimedio per tutto ed era lì che di solito andavo a cercare il mio.(…) Di notte, in mezzo alla natura, alci, orsi, cervi tutto intorno a me, non molto lontano avvertivo la presenza di un lupo grigio, quiete sere d’estate ad ascoltare il richiamo della strolaga”.

Proprio nel mezzo di questa crisi, Dylan va in un locale e ascolta dal vivo un gruppo jazz. E, osservando il cantante, la naturalezza dell’emissione vocale, ricorda che “anch’io lo sapevo fare, era tanto tempo fa ed era una cosa automatica. Nessuno me l’aveva mai insegnata. Mi chiesi se ne sarei stato ancora capace”. Gradualmente, e con molto esercizio, mano e voce tornano a funzionare, e Dylan riprende la tournée. E sente che qualcosa di nuovo sta per nascergli da dentro, di essere sulla soglia di qualcosa. Elabora un sistema di esecuzione delle sue canzoni basato su schemi matematici precisi (terzine tematiche, soprattutto), tali che le canzoni stesse ne sarebbero uscite trasformate: “molti avrebbero detto che le canzoni erano state alterate, altri che era così che avrebbero dovuto essere eseguite fin dall’inizio. Ognuno poteva scegliere come preferiva”.

Ricomincia a scrivere e comporre: Political World, What Good Am I?, Dignity, Disease of Conceit, What Was It You Wanted?, Everything Is Broken. Grazie a Bono, conosce Daniel Lanois che si propone a Dylan come produttore del suo disco successivo. E d’un tratto mi sono ritrovata a New Orleans, a condividere con un gruppo di musicisti atmosfere, stati d’animo, ispirazioni, insomma, ad assistere al parto di “Oh Mercy”. Ho trascorso sere intere su Google Earth e in rete, e le immagini della città si fondevano con le parole evocatrici di Dylan. Mi sono innamorata della New Orleans che egli descrive: “Nessuna azione sembra inappropriata qui. L’intera città è un unico lungo poema. Giardini pieni di viole del pensiero, petunie rosa, oppiacei. Tempietti cosparsi di fiori, mirti bianchi, bougainvillee e oleandri porporini stimolano i sensi, donando calma e chiarezza interiore. A New Orleans ogni idea è una buona idea. Villette in stile Bijou Temple fianco a fianco a liriche cattedrali. Case e ville padronali, strutture dalla grazia selvatica. Stili italiano, gotico, romanico, neogreco in lunga fila sotto la pioggia”.
Ancora: “Qui il tempo accade solo un giorno per volta, poi viene sera e domani sarà di nuovo oggi. Una malinconia cronica pende dagli alberi. Non ci si stanca mai. (…) Un impero dello spirito. Un impero della ricchezza. (…) New Orleans. Squisita, fuori moda. Un gran bel posto dove condurre un’esistenza vicaria. Qui va bene tutto, non ci si sente feriti, un gran bel posto per impegnarsi seriamente su ciò che si deve fare”.

L’ultimo capitolo, Un fiume di ghiaccio, si riallaccia a quello di apertura, Annotare lo spartito. Perché Dylan è un narratore onesto, e non lascia cerchi aperti. Riprende cioè il resoconto di quanto esposto a inizio libro, l’epoca cioè in cui la sua carriera decolla. Il momento storico in cui “la psiche dell’intera nazione stava per cambiare (…). La strada si stava facendo pericolosa e io non sapevo dove portava, ma la seguii ugualmente. Laggiù, più avanti, uno strano mondo stava per svelarsi, un mondo tuonante, dagli spigoli taglienti come fulmini. (…) Io ci entrai senza esitare. Stava lì spalancato. Una cosa era sicura, non solo non era retto da Dio, ma non era retto nemmeno dal diavolo”.

Così Bob Dylan, con tono confidenziale e sincero, mi ha accompagnata in questo lungo viaggio. Mi ha fatto visitare luoghi e messa al corrente di certe tecniche musicali, mi ha spiegato come sono nate alcune delle sue canzoni. Dato il lirismo che caratterizza determinati passaggi della narrazione, è stato come se stesse cantando e suonando per me. Conoscendo le radici della sua ispirazione, oggi ascolto i suoi dischi con una diversa intensità, e meno arduo mi pare addentrarmi nei significati, nelle scelte poetiche e degli arrangiamenti. Qualcuno, sapendo che stavo leggendo “Chronicles”, mi ha domandato se percepissi forzature della realtà, autoreferenzialità e autocompiacimento, da parte di Dylan. La risposta è no. Sebbene risulti chiaro che egli ben sia consapevole del proprio talento, dell’eccezionalità del suo percorso artistico, Dylan non rinuncia a confidare i momenti peggiori della sua carriera, gli errori, i passi indietro, gli impaludamenti. Ciò che trapela da ogni pagina, semmai, è la condizione che vive chi ha in dono e coltiva un autentico talento: la necessità di una solitudine densa di voci. Che provengano dalla natura, da altri artisti, o dal profondo di sé, dove tutto ciò che hai accumulato nel tempo sedimenta e cresce, sino a tradursi in musica e parole. Un procedere per illuminazioni successive, da outsider e da innovatore, pur sentendosi parte di una tradizione.

Non vi ho scorto cioè la pretesa di farsi destino anche per gli altri — che credo sia qualcosa che ha a che vedere con il narcisismo patologico (penso a Achab e a Ulisse). Semmai di lasciare un segno, perché un segno si è ricevuto alla nascita.

Curiosità:

  • A pag. 44 Dylan scrive: invocare la musa era una cosa di cui non sapevo ancora niente, e comunque non abbastanza per cominciare a preoccuparmene. In “Rough and Rowdy Ways”, è arrivato il momento di farlo.
  • I libri che ho letto, inframezzando lo studio di “Chronicles”, sono stati scelti in funzione. Cioè per completare e ampliare l’idea di viaggio e di immersione nella letteratura americana. Oltre al già citato “Dizionario della dissoluzione” di John Freeman, e a “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di Walter Benjamin, ho riletto “Mentre morivo” di William Faulkner (contiene moltitudini, e cioè le voci dei diversi narratori) e alcuni passaggi di “Furore” (idea del viaggio, epica dolente della classe rurale). Ho ripreso la poesia beat e scoperto la nuova poesia americana contemporanea (due volumetti della Black Coffee). “Strade blu” di William Least Heat-Moon (che consiglio vivamente a chi ama il viaggio su strade secondarie) e “L’ultima corriera per la saggezza” di Ivan Doig: un “On the road” narrato in prima persona da un ragazzino di undici anni. Come dire, Kerouac bambino, che davvero a un certo punto incontra Jack Kerouac.
  • La canzone che ha ridondato per tutta la durata della lettura è stata, come è evidente, “I Contain Multitudes» (un verso di Whitman): una sorta di tributo che Dylan porge a coloro che nel tempo lo hanno formato, le loro storie nella sua, canalizzando arte nell’arte, plasmando e agendo nel profondo, trasformando la materia grezza del genio in quell’oro azteco purissimo che non deriva dal furto, o meglio, da quello condotto con amore e per amore (“Love and Theft”), dall’attingere alla bellezza pregressa che sta lì, a un passo solo del cuore dagli occhi dalle orecchie.

--

--

Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.