Bruce a Padova, bentornati a casa

Massimo Giuliani
RadioTarantula
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8 min readJun 3, 2013

Di solito il ritorno a casa è la fine della storia.
La storia che Bruce racconta nei suoi concerti italiani del 2013 del lungo “Wrecking Ball Tour”, invece, inizia con “Long Walk Home”, che è una canzone sul ritorno. L’ha cantata in apertura a Napoli, è stata la prima eseguita con la band (dopo una infuocata e solitaria “Tom Joad”) a Padova. È una canzone sulla città che ti ha visto bambino, quella che per tuo padre “è un bellissimo posto in cui nascere” perché “ti stringe tra le sue braccia” e perché lì “nessuno ti sta addosso, ma nessuno fa da solo”. Quella che tu invece più la guardi e più le facce che vedi ti sono estranee, e persino il vecchio ristorante ha la porta sprangata, e le parole “chi siamo, cosa faremo e cosa non faremo” sono ancora scolpite nella roccia. Eppure il Bruce che ieri cantava la strada e la necessità di andare (“baby, questa città ci spezza le ossa della schiena, è una trappola mortale”, “una città piena di perdenti, e io me ne sto andando per vincere”) da anni ormai canta il bisogno di esserci. Perché nel frattempo l’odio ha distrutto la città e ha lasciato rovine su cui piangere, o anche perché quella città l’hanno sbranata, e quelli che le hanno portato la morte (ma una morte pulita: senza bombe, senza armi, senza fare la guerra) ora passeggiano per le strade come uomini liberi. I suoi due più grandi album dopo gli anni Ottanta cantano lo sgomento dell’attentato alle Torri (“The Rising”, 2002) e le vite strangolate dalla crisi economica (“Wrecking Ball”, 2012).

E quella canzone del ritorno, messa lì, a cornice di tutto quello che succederà dopo, spiega bene il Bruce di oggi e spiega quello che è più difficile da spiegare. Provo a dirlo, ma mi dovete permettere una lunga digressione.

Innanzitutto sembra incredibile, ventotto anni dopo la prima volta, domandarsi se fra i tre concerti del Boss che mi è capitato di vedere, non sia stato questo il più emozionante. Nell’85 c’erano la gioia e la soddisfazione di vederlo finalmente in Italia dopo anni in cui avevamo perso le speranze, e lo spettacolo di San Siro fu memorabile. Ma il disco che si celebrava nel tour di quell’anno, “Born in the USA”, a parte alcuni pezzi da groppo alla gola (“Bobby Jean” e “No Surrender” restano fra i miei preferiti di sempre, ma tragicamente schiacciati dal suono che caratterizza tutto il disco), non è mai stato fra gli album che amo di più di Bruce, e anche per quello da allora restai lontano per parecchio tempo dalla sua musica.
Lo show di Milano dell’anno scorso arrivò nel momento in cui, come vi raccontai a suo tempo, “Wrecking Ball” mi convinceva a riprendere il discorso. Fu uno spettacolo sontuoso e formidabile, tanto che già all’uscita dallo stadio si calcolava che fosse il suo concerto più lungo di tutti i tempi (in realtà quello omologato come più lungo iniziò la sera del 31 dicembre 1979 e terminò nei primi minuti dell’anno dopo: scontato, essendo un concerto di Capodanno, dunque si poteva decidere che non valeva ai fini della classifica).

Jake Clemons, che ha preso il posto dello zio Clarence nella band (Foto http://www.zedlive.com)

Ma quest’anno Steve Van Zandt è tornato in grande forma, quando l’anno scorso (sia a Milano che altrove, stando ai video di altre occasioni) appariva stanco e quasi assente.
Così abbiamo ritrovato i duetti fra lui e il Boss, ancora più rimpianti da quando la morte di Clarence Clemons ha privato la E-Street Band dell’altro amico di sempre, colonna del suono e dello spettacolo del gruppo.
Inoltre (pur essendo questi concerti italiani ancora parte del lungo “Wrecking Ball Tour“), Bruce e i suoi compagni hanno abbondantemente evaso l’obbligo di onorare l’album recente: la scaletta, che pesca ormai da un repertorio immenso, è ogni sera una sorpresa e una scommessa. Quello che consegna Padova alla storia dei concerti del Boss è l’esecuzione filologica, sotto la pioggia (modesta, per fortuna), di tutto “Born to run”, il disco del 1975.

Ecco, tornando a casa ripercorrevo questa storia che comincia in quella giornata del 1985 in cui lasciavamo a casa le famiglie trepidanti per partire per Milano con gli amici che avevano già la patente (i nostri genitori avevano negli occhi le immagini della strage allo stadio Heysel, di pochi giorni prima, e ci guardavano partire con una comprensibile quota di angoscia: restarono tutto il tempo incollati ai telegiornali, che di quell’evento non capirono nulla, salvo intuire che in quello stadio stava succedendo qualcosa che era diverso da qualunque altra cosa) e arriva alla notte di questo venerdì. E continuavo a domandarmi, appunto, cos’è che renda speciale questo evento ogni volta che si rinnova. Cosa faccia sì che nell’esplosione di quelle luci e di quarantamila voci che gridano “Baby, we were born to run…” quel che vedi intorno a te non lo guardi da spettatore ma piuttosto come qualcosa che, in un certo senso, ti comprende. (Quel che rende così emozionante quel momento non ha tanto a che fare col dispiego di luci ed effetti tipico dei concerti di quelle dimensioni: e anzi nei concerti di Springsteen l’uso delle luci è parco, e si limita a punteggiare gli eventi che si svolgono sul palco e la relazione fra il palco e il pubblico). Insomma, nei miei trentacinque anni di passione musicale mi è capitato di vedere concerti brutti, così così, belli, bellissimi. Ma quel che pensavo di ritorno dalla grande festa di Padova era che nei concerti di Bruce Springsteen succede qualcosa che va oltre. Tanto che, quando le persone cantano con lui “Long Walk Home”, quel che sentono è che quello che si festeggia è, per ciascuno, un ritorno a casa.

Perché la cifra degli spettacoli del Boss è un senso generoso della convivialità: che, certamente, avrà anche a che fare con le sue origini che per metà stanno in Italia, dove la convivialità ha anche a che fare con l’abbondanza. Suonare per tre ore (tre e quaranta l’anno scorso) va molto oltre quel che sarebbe più che sufficiente a onorare l’ospite. È condividere quel che hai fino a che ce n’è. È quello che fa dire ai fan (e pare uno di quei luoghi comuni che gli ammiratori fanatici amano tramandare, eppure provate) che ogni volta hai l’impressione che in mezzo a centomila persone quella sera Bruce abbia suonato proprio per te.

Ma quando dico “conviviale” non penso solo a come accoglie il pubblico dei suoi concerti. Penso a un modo di gestire il proprio personaggio e la propria musica sorridendo di quel che prescrivono le regole dell’industria. Oggi Bruce ha una formazione di, credo, diciassette elementi. Compresa Patti, sua moglie, che quando non è sul palco a suonare la chitarra e a fare i cori, è in America ad occuparsi di qualcosa a casa, o della propria musica. Molti sono compagni di viaggio con cui il Boss ha lavorato e che poi sono rimasti. Negli anni in cui Miami Steve scelse di tentare la carriera solista col nome di Little Steven, fu Nils Lofgren a prendere il suo posto nella E-Street Band. Conoscevamo Lofgren come chitarrista accanto a Neil Young e autore di alcuni lavori (discontinui, eh) in proprio. Poi Steve Van Zandt, dopo un album di pregevole soul music e alcuni dal forte impegno politico, forse ritenendo compiuto il suo progetto, o forse perché essere una delle tante primedonne non era male, ma essere il più prezioso dei comprimari era meglio ancora, tornò a casa. Riprese il suo posto, ma Lofgren restò. La band è cresciuta a dismisura nel tempo proprio così, come una tavola dove c’è posto per tutti e dove ogni amico che arriva è benvenuto. Se facessimo qualcosa del genere io o voi, il commercialista ci farebbe interdire. Invece la conseguenza di questa scelta è che, oggi che il capo ha quasi sessantaquattro anni e non corre più da una parte all’altra del palco con la scivolata finale, e non salta sul pianoforte e non si straccia la camicia simulando un coccolone, la festa è ancora più travolgente proprio per quel suono robusto e ricco come non se ne sentono in giro. D’altra parte, dove le altre rock star amministrano la propria immagine e la preservano, lui la mette costantemente in pericolo. Bruce è il musicista rock più piratato della storia e non sembra farsene un problema. Poco dopo che si sono spente le luci su un palco, da qualche parte qualcuno sta già riequalizzando la registrazione, più o meno casereccia, del concerto: anni fa per farne bootleg anche costosi, oggi soprattutto per condividerla on line. E questa sterminata discografia parallela, tutta illegale, impossibile anche da ricostruire, è stata dagli anni Settanta il traino più efficace per il mito del Boss. Non solo non ha mai messo a rischio nemmeno una copia delle vendite dei suoi dischi, ma è stata la migliore pubblicità allo spettacolo più intenso e coinvolgente della storia del rock.

Dove i concerti delle star delle grandi arene sono solitamente degli orologi svizzeri, meccanismi puntuali e programmati nei dettagli, lui si permette il lusso di far salire sul palco (è successo a Padova) un musicista locale arrivato allo stadio con la washboard appesa al collo, i cucchiai nello zainetto (un’attrezzatura ben nota nella musica tradizionale americana) e un cartello con scritto “Can I play Mary Don’t You Weep with you?”. Scambiano due parole, poi Caterino Riccardi (così è noto il musicista dei padovani Fireplaces) comincia a suonare i suoi strumenti con Bruce e tutti gli altri: non sarà “Mary don’t you Weep”, ma una indimenticabile “Pay Me My Money Down”, con tanto di marching band finale.

Dai, ditelo: era tutto preparato, mica si improvvisa da un momento all’altro una cosa così! Voi pensate quello che volete. Io, per togliermi il dubbio, il giorno dopo l’ho cercato in rete e l’ho contattato, Caterino, che tutto quello che desiderava era dormire mezz’ora. Mi ha raccontato come è andata, che ancora non ci credeva.

Così, la prima domanda che ti viene è: chi, fra tutti quelli che hanno imbracciato in vita loro uno strumento per suonare una canzone di Bruce, avrebbe mai immaginato una cosa simile nei propri desideri più sfrenati? E la seconda: quale altro musicista avrebbe corso il rischio di tirare sul palco uno sconosciuto e mettergli in mano uno dei pezzi di punta dello show?
Niente di nuovo, lo diceva anche Dave Marsh nella sua biografia di Springsteen “Nato per correre”: per raccontare la storia di Bruce bisognava raccontare anche la storia del rock e “di come la sua innocenza si sia trasformata in cinismo“. Semmai è incredibile che si possa dire ancora la stessa cosa dopo quarant’anni. In un music business che da decenni è andato oltre la funzione per la quale era stato inventato, e che crea esso stesso, e impone, gusti e modi di essere, Springsteen ha protetto il proprio mito facendo tutto quello che per la macchina è folle e insensato.

Stasera la festa si ripeterà a Milano, che è la sua città italiana del cuore da quando lo accolse (lo accogliemmo) in quella notte di giugno del 1985. Non avessi dovuto lavorare domani, stasera casa mia sarebbe lì. Buon concerto!

Originally published at massimogiuliani.wordpress.com on June 3, 2013.

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Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.