Ascoltando “Letter to You”, il ventesimo album in studio

Bruce, figlio e (di nuovo) fratello

La musica di Springsteen è tante cose. È anche la storia di come gli occhi dell’altro possono distruggerti o salvarti.

Massimo Giuliani
RadioTarantula
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15 min readOct 23, 2020

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“Voglio trovare un viso che non mi scruti dentro”
(“Badlands”)

“Quando mi guardava, non era soddisfatto di ciò che vedeva”
(Da “Born to Run. L’autobiografia”)

1. “Dove sono gli occhi, gli occhi che vogliono vedere?”

Per quanto non potessero essere più diversi tra loro, la relativa contiguità temporale (un anno esatto di distanza) tra “Western Stars” e il Bob Dylan di “Rough and Rowdy Ways” mi colpiva particolarmente, perché li vedevo come due album che “collocano” nella storia della musica americana i rispettivi autori: Dylan che guarda negli occhi la generazione dei padri (della quale è legittimamente membro), Springsteen che anche in età matura si dichiara ancora una volta figlio con un’opera che rimanda esplicitamente e programmaticamente al pop californiano di cinquant’anni prima, a Glen Campbell, ai film western.

E in un certo senso l’essere figlio è un tema che attraversa tutta la sua musica. Non solo perché in “Independence Day” racconta il momento in cui ha parlato col padre, o perché ha cantato prima l’impossibilità di restare nel luogo natio, poi la desolazione del ritorno. Ma anche perché il riconoscersi figlio dà senso a tante delle sue scelte musicali. In venti album Bruce ha indossato numerosi abiti: ma non alla maniera folle e postmoderna di un Neil Young che sorprende con le sue imprevedibili esplorazioni; piuttosto nel modo in cui un figlio onora i propri legami, le proprie appartenenze, le proprie ascendenze. Il soul, il rock and roll, la folk song. Fino, appunto, ai generi celebrati nell’album orchestrale del 2019.

Soprattutto dopo il libro autobiografico e dopo Broadway è cresciuto l’interesse per una lettura complessa della musica del Boss, che la inquadri dentro la sua biografia di figlio. Un testo cruciale al riguardo è il libro di Luca Giudici, “Abbagliati dalla luce” (Zona, 2019) che, citando Steve van Zandt, afferma che la cifra di Springsteen è quel tormento che “rende la canzoni di Bruce un libro aperto agli occhi di uno psicoanalista”. Il libro porta abbondante acqua al mulino di una lettura che inquadra la musica del Boss nella storia di figlio, nel rispecchiamento in un padre (Douglas) che dal lavoro e da una serie disgraziatissima di vicende familiari era stato consegnato agli artigli della depressione. Un padre che “non riusciva a vedere in quel ragazzino quindicenne e capellone l’artista che poi è nato”, scrive Giudici. Ed è interessante che faccia riferimento allo sguardo del padre. Uno sguardo che lo attraversa, che non lo vede, così come lo stesso Douglas era diventato trasparente agli occhi dei genitori, dopo la tragedia della morte della sorellina Virginia. Questi stessi nonni, impazziti dal dolore, si sarebbero presi cura di Bruce ma al costo di fargli impersonare la bambina morta, anche nell’abbigliamento: che esempio terribile di come il dolore possa essere uno schermo o addiritttura una lente che deforma lo sguardo (la storia è ben raccontata da Peter Ames Carlin, 2012, e nell’autobiografia). Subito dopo Giudici cita le parole dirette di Bruce: “Le persone che emuliamo sono quelle di cui non siamo riusciti a conquistare l’amore”. Segue un lungo brano in cui Bruce racconta come guardava il padre, come ne imitava l’aspetto, fino a un sogno in cui parla con Douglas di come lo vede.

2. “Se gli occhi di papà erano le finestre su un mondo così funereo”

Avete presente quante volte ricorrono nei testi di Bruce parole come “occhi”, “vedere”, “guardare”? Non lo so nemmeno io, non le ho contate. Ma sono davvero tante.

In un libro che Luca Casadio ed io scrivemmo qualche anno fa a proposito del materno, volli dedicare un capitolo a Adele Zerilli, la madre di Bruce. Sostenevo che trascurare una significativa influenza del femminile su di lui genera degli equivoci: come quello che vuole Bruce come modello di un machismo un po’ coatto (luogo comune che nasce addirittura ai tempi di “Born in the USA”, da una reazione un po’ superficiale alla sua trasformazione fisica ed ai bicipiti oliati e in mostra). Scrivevo che anche i suoi concerti fiume, più che essere prove muscolari di resistenza fisica, hanno piuttosto a che fare con una forma di convivialità italiana (meridionale soprattutto) che è debordante o non è, e che per Bruce è una eredità materna. Più che la gagliardia virile, c’entra quel contratto di ospitalità in cui far sentire l’ospite importante, mostrargli riguardo (toh, la radice è ancora quella del verbo guardare), è anche una questione di quantità. Ti siedi a tavola e sai che ti alzerai solo quando ne avrai più che abbastanza, e forse nemmeno allora.

Quello che sappiamo è che la figura di Adele è stata così fondamentale per lui perché è riuscita a conservare al piccolo Bruce la certezza di essere visto. Fu lei a riconoscere la sua passione e il suo desiderio, tanto da condividere con lui l’ascolto delle canzoni alla radio e da comprargli la prima chitarra quando il padre vedeva come una perdita di tempo quella stupida musica. Anzi, la musica forse è proprio un portato femminile, in una famiglia dove il maschile era marginale e depresso e le donne partecipavano della gioia e dell’eccitazione di quegli anni Cinquanta.

In “The Wish” — non certo una delle sue canzoni migliori, ma tuttavia un tenero e anche doloroso omaggio alla madre — c’è la storia della depressione del padre e di come gli occhi dell’uomo, fissi sull’abisso, non riescano a vedere il figlio; e del figlio che guarda gli occhi del padre e attraverso quelli vede l’abisso. “Se gli occhi di papà erano le finestre su un mondo così funereo e vero, tu non potevi impedirmi di guardarlo, ma mi hai evitato di finirci dentro”. Un angoscioso gioco di specchi, dove per fortuna ce n’è uno che ti rimanda un’immagine bella e intera.
La musica di Springsteen è tante cose: fra quelle, è la storia di come gli occhi dell’altro possano distruggerti o salvarti.

Pensando alla rilevanza del tema dello sguardo nell’arte di Springsteen mi domando quanto questa c’entri con l’imponente natura visuale e cinematografica della sua musica (alla quale l’album “Born to Run” sacrificava persino la struttura tradizionale della canzone rock per preferirle la forma di un flusso narrativo). Difficile dirlo; ma probabilmente c’entra col fatto che, confrontati con tante produzioni internazionali di pari grandezza, i suoi spettacoli siano visivamente così essenziali: Bruce è nudo allo sguardo del pubblico, senza la seconda pelle di scenografie ed effetti speciali. Tutti gli occhi sono solo per lui. E sono ricambiati dello stesso amore: avete presente quella cosa che ci diciamo sempre, che ciascuno esce dallo stadio con l’impressione che quella sera Bruce abbia suonato solo per lui? Ecco, quella è proprio la cognizione di essere importante, di essere guardato.
È difficile da spiegare.

Ma c’è un’altra pelle, della quale Bruce si è coperto fino a sentirsela stretta, fino a dover strapparsela di dosso. È la E Street Band. È il gruppo dei fratelli, degli amici di sempre, la corazza che lo protegge ma al contempo un po’ lo copre allo sguardo.
Sembra paradossale, ma l’artista che più ha cantato il senso di comunità ha passato la vita a sfidare le proprie appartenenze più vere.
Nell’aprile del 1999 partì il lungo Reunion Tour dopo dieci anni di separazione tra il Boss e la band. Ma in un certo senso solo oggi, con “Letter to You” Bruce torna davvero uno di loro.

foto: Rodolfo Sassano, da Il Buscadero (2016)

3. “Così, dimmi cosa vedo quando guardo nei tuoi occhi”

È un sollievo leggere che anche Max Weinberg sostiene (nel bellissimo servizio di Brian Hiatt su Rolling Stone) che “Letter to You” è “il disco col sound più sfacciatamente E Street dai tempi di The River”. Fa giustizia per tutte le volte che ho pensato, e sostenuto, che le cose, dai primi ‘80, avessero preso un’altra piega. C’è un dettaglio da considerare: se la musica di Bruce doveva essere la più colossale confessione pubblica, la più smisurata autoanalisi della storia del rock, beh, non gli bastava essere la rockstar acclamata di “The River”. Non diventi una popstar planetaria con “Darkness on the Edge of Town”. Non riempi mille volte gli stadi di tutto il mondo con “The Wild, the Innocent”. Se vuoi addosso gli occhi dell’universo intero, ti ci vuole “Born in the USA”. E infatti, mentre noi nati con gli album fino a “The River” guardavamo basiti Bruce sulle copertine di (boh, cos’era? “Cioè”? “Dolly”??), cresceva una generazione di fan che sarebbe diventata numericamente preponderante. E che persino ci guardava dall’alto in basso quando sospiravamo che va bene tutto, ma quei suoni là…
Insomma, l’esigenza di arrivare a una platea sempre più sterminata, di avere gli occhi non di Freehold, non del New Jersey, non dell’America, ma del mondo e oltre (“poor man wanna be rich, rich man wanna be king”, eccetera eccetera, no?) richiedeva probabilmente di imboccare quella rotta. Questo ha reso progressivamente la sua musica — che continuava ad essere letterariamente potente e visualmente formidabile — musicalmente un po’ ruffiana.

Cito ancora Luca Giudici, che scrive cose importanti sul rapporto fra arte e successo, e sul difficile equilibrio fra i due. Come mantenere il rispetto per quello che si fa, pur venendo a patti col legittimo desiderio di soddisfare i propri bisogni, persino col desiderio di diventare ricco? Che se fosse solo per quello, Bruce avrebbe serenamente potuto dichiararsi soddisfatto parecchio tempo fa. Ma evidentemente c’è un elemento che ha molto meno a che fare col denaro che con la necessità di esistere attraverso lo sguardo altrui. E anche questo piano è illuminato nel lavoro di Giudici che approfondisce in modo attento la musica di Bruce in relazione alla sua depressione, il rapporto con lo swow business e il bisogno sincero di rappresentare i propri fantasmi. In un passaggio illuminante dice: “Se da un lato desiderava profondamente amare ed essere amato, trasformare i rapporti superficiali e occasionali in relazioni più profonde e durature, dall’altro era vittima di una spaventosa paura di non essere adeguato, di non saper abbandonare il nulla in cui stagnava la parte più profonda della sua psiche.”
Ecco: quella spaventosa paura, se ti va male, ti inghiotte. Se ti va bene, gli occhi di centomila persone a sera, che ridono, piangono, ti guardano, che sono testimoni privilegiati della tua battaglia vincente contro i mostri, possono restituirti qualcosa di cui hai bisogno, e che può essere meglio dei farmaci e persino dell’analisi.

Il bisogno di essere popolare mi è parso per un po’ una spiegazione convincente e più che sufficiente, ma “Letter to you” sembra raccontare che le cose erano un po’ più complesse. Il fatto è che tutte le volte che Bruce ha preferito sentirsi figlio unico, ha perso la bussola. Quando, invece, ha scelto di sentirsi fratello e di mescolarsi coi fratelli, è stato l’autore insuperabile che conosciamo, non solo di grandi storie, ma di grande musica.

Il problema non era “Born in the USA”. Il problema (lo dice bene l’articolo di Hiatt su Rolling Stone) era quel maledetto Tascam a quattro piste comprato dopo “The River”, sul quale prese l’abitudine di registrare delle demo con cui dare indicazioni alla band. Su quel registratore nacque “Nebraska”, che è un disco immenso e che genera un equivoco: cioè che Bruce Springsteen ora suoni la musica di Woody Guthrie, voce e chitarra. Ma sappiamo che in realtà l’album era costituito dalle registrazioni fatte in casa su cui poi la band avrebbe dovuto lavorare.
Di lì il suo lavoro diventa sempre più solitario, e persino con “The Rising” (l’album in cui i vecchi amici tornano insieme dopo una lunga separazione) la regola è che Bruce arrivi in studio con degli arrangiamenti già più che abbozzati a casa, e che su quelli la band si metta al lavoro.

3. Qualcosa che non assomigli a nient’altro.

Paradossalmente, più Bruce si proponeva come erede e prosecutore di un suono americano tradizionale, più se ne distaccava per cercare un marchio di fabbrica tutto suo.
Dopo “Wrecking Ball” domandai al mio amico Ettore “ma te lo immagini come sarebbe un disco di Springsteen se si decidesse ad affidarsi a, che ne so, Rick Rubin invece che a questi produttori poppettari?”. Mi risposte: “non sarebbe possibile. Lui vuole fare una cosa che non assomigli a nessun’altra”.
Aveva ragione. Cos’altro devono fare i figli, se non guardare i padri, raccogliere quello che hanno lasciato e poi mandarli a quel paese senza rimpianti? Sono io che pretendo troppo? Ma perché quella connessione che sempre lega Bruce a chi è venuto prima di lui, pur così tenace dal punto di vista letterario e tematico, musicalmente spesso si fa lasca o si riduce alla citazione più o meno smaccata?

In quel periodo Francesco De Gregori fu al centro di una faccenda piuttosto spiacevole. In qualche intervista aveva espresso delle critiche piuttosto aspre nei confronti di Springsteen. Lo aveva fatto con uno stile insolitamente urticante, ma fondamentalmente poneva una questione che aveva senso, e lo faceva da cultore di Dylan e da musicista nato e cresciuto col folk americano: disse in buona sostanza che quello di Springsteen è un suono educato e quanto mai lontano da un folk singer; insomma, una specie di falso storico.
Aveva ragione? Aveva torto? Aveva esagerato? Certo sarebbe stato interessante parlarne: d’altra parte stiamo parlando di un musicista che si picca di essere figlio di quella storia, si potrà discutere della sua credibilità di erede?
Invece molti fan di Springsteen preferirono ricoprire di dileggio il cantautore italiano, e i social funzionarono come funzionano in queste occasioni, cioè servirono per la triste staffetta delle accuse di essere invidioso e fallito. Detto fra noi, i fan di Springsteen son gente buona e cara, ma confrontarti con la frangia di ultras ti fa riscoprire la grazia e la flessibilità mentale dei leghisti con l’elmo cornuto.

“Born in the USA”, che inaugura quell’armamentario pop che riveste canzoni dalle strutture sempre più semplificate, conteneva gli ultimi residui di Creedence Clearwater Revival. E per quanto abbia amato i dischi del Bruce acustico, devo dire che la volta che ha davvero centrato il bersaglio della musica tradizionale americana è stata quando si è affidato (per le “Seeger Sessions”) a un cospicuo ed esperto ensemble di musica tradizionale. Rinunciando a una buona quota di springsteenitudine per perdersi in una esaltante festa collettiva, ma producendo un disco che resta uno dei suoi migliori e interpretando quel repertorio non solo in modo nuovo e personale, ma anche credibile.
Lo Springsteen presunto “folk singer”, quello dei concerti solitari, è un narratore ineguagliabile, ma non ci vuole un purista per dire che quella musica, come chitarrista, non ce l’ha nelle mani. E qualche ragione De Gregori ce l’aveva, dai.

Tutti questi pensieri mi hanno accompagnato negli anni: anni nei quali ho ascoltato intensivamente i suoi album e quando ho potuto ho assistito a suoi concerti, che restavano uno spettacolo che non si può raccontare, ma poi andavo a dissetarmi con Ry Cooder, con Dylan, con Van Morrison, con il blues, col folk inglese, insomma con tutta quella roba che avete capito anche voi. E, pur convinto che esista una continuità narrativa di ferro attraverso tutta la sua discografia, toccava accettare che quanto di più creativo aveva espresso musicalmente fosse finito nei primi anni 80, con quell’impasto di rock and roll e soul che pure rispuntava fuori occasionalmente, in una confezione plastificata. Insomma, tutto molto bello, lui restava un testimone impareggiabile del suo tempo, come interprete non si discuteva, come performer non aveva pari, ma la Musica stava da un’altra parte.

4. “Ti rivedrò nei miei sogni”

A nome di tutti quelli che sui dischi hanno speso gli anni migliori, vorrei fare un appello: non ci regge più il cuore. Questo stillicidio di singoli che precedono l’uscita dell’album non è una buona idea, soprattutto se il singolo è poi il brano più rassicurante e non necessariamente quello più rappresentativo della raccolta.
All’inizio di settembre arriva “Letter to you” e molti la salutano come il ritorno del suono della E Street Band. Ma più che altro si ritrova un’aria di famiglia nel fatto che sai perfettamente che lì entrerà quell’accordo in minore, e cosa farà la batteria nel prossimo passaggio, e come sarà, pressappoco, l’assolo di chitarra. E anche che voce avranno.
Di contro, se riesci a superare quella sensazione di prevedibilità, c’è che mai Bruce aveva chiamato per nome le proprie fragilità e mai le aveva offerte così generosamente e spudoratamente al nostro sguardo: “Ho scavato profondamente nella mia anima e ho firmato con il mio vero nome, e l’ho spedito nella mia lettera per te. Ho messo tutte le mie paure e dubbi nella mia lettera per te. Tutte le cose difficili che ho scoperto nella mia lettera per te”. E sappiamo a chi sta parlando: il destinatario della lettera è ciascuno di noi, da anni reso testimone e compagno di strada della sua rinascita umana, e ora interpellato in seconda persona e quasi guardato dritto negli occhi.
Ma come che sia, oggi quel singolo, insieme al successivo, “Ghost”, è parte di un album che è uscito in queste ore. E lì dentro, diciamolo, fa una figura assai migliore. Un album vive di salite, di discese, di tornanti e di rassicuranti rettilinei, e quella canzone sta esattamente dove deve stare.

Come racconta Hiatt nell’articolo già citato, Roy Bittan è riuscito lì dove Miami Steve aveva provato per anni. Lascia perdere il registratore, ha detto a Bruce. Facciamo come ai bei tempi: porta i pezzi in studio e ci lavoriamo.
È così che è nato “Letter to you”: quattro giorni passati a registrarlo, uno a riascoltarlo. Con Ron Aiello ancora alla regia, ma con una attidudine live che restituisce ai musicisti buona parte della responsabilità.
È stato detto ampiamente che questo album nasce pensando ai fratelli che non ci sono più. Certamente Clarence e Danny Federici, ma in particolare George Theiss, l’amico a cui Bruce contendeva il ruolo di cantante nei Castiles, il gruppo di Freehold nel quale entrò nel 1965. L’album nasce nel momento in cui, dopo la morte di Theiss, Bruce realizza di essere l’ultimo superstite di quell’esperienza adolescenziale.

“Letter to You” canta la morte e l’assenza. Parte con una ballata che è la sommessa presa d’atto che le cose se ne vanno: “un minuto ci sei, il minuto dopo te ne sei andato”. E di lì inizia la più commovente cavalcata elettrica della sua discografia da un sacco di tempo a questa parte. E ci ritrovi i suoni che lo hanno nutrito, finalmente caldi, veri (scommettiamo che piace anche a De Gregori?).
Oggi il mio amico Massimo, che è uno che ascolta musica classica e la suona, e ha un orecchio fino da mangiarsi a colazione cento rocker, mi ha detto che aveva ascoltato il primo singolo e ne aveva apprezzato il nitore del suono. Ecco, mi ha dato la parola. È un album di un nitore che ti lascia senza fiato, ma non è il nitore del prodotto ben confezionato: è quella brillantezza di una grande band che suona insieme da una vita e che riluce ancora di più nelle irregolarità e nelle increspature del suono live.

E allora davvero stavolta c’era davvero bisogno di circondarsi dei fratelli e di tornare uno di loro. Non poteva essere diversamente. “Letter to You” non si limita a piangere il passato: lo presentifica. Quel senso di comunità che passa attraverso le canzoni di Bruce qui non è solo cantato, è messo in scena in un album finalmente davvero collettivo. La presenza di tre brani storici non è un ripescaggio di canzoni che valeva la pena pubblicare prima o poi, è la traccia viva e presente di quella storia. I tre pezzi (“Janey Needs a Shooter”, “If I Was the Priest” e “Song for Orphans”) forse sono davvero la parte migliore del lavoro, ma proprio perché sono quelli che fissano l’asticella, il resto dell’album si assume la responsabilità di esserne all’altezza. Se vi devo dire quali sono i momenti che mi emozionano di più, in questo momento vi dico “Burnin’ Train”, “Rainmaker” (che no, non parla di Trump, non intenzionalmente almeno, perché risale a qualche anno fa), e una dylaniana e torrenziale “Song for Orphans”. Ma non ha senso scomporlo più di quanto abbia senso pensare a un film come una collezione di segmenti. “Letter to You” racconta tutto insieme una storia, anzi esso stesso è quella storia. Lo ascolteremo grati e ce lo terremo stretto nell’anno in cui non sarà possibile ascoltarlo dal vivo.
Grazie Bruce, e grazie alla pazienza dei tuoi fratelli di sangue, che hanno saputo attendere.

Riferimenti

  • Peter Ames Carlin (2012), Bruce. Touchstone. (Trad. Bruce. Mondadori).
  • Brian Hiatt (2020), “Bruce Springsteen. Nella casa dei fantasmi”. Rollingstone.com, 1 ottobre 2020.
  • Luca Giudici(2019), Bruce Springsteen. Abbagliati dalla luce. Editrice Zona.
  • Massimo Giuliani (2015), “Adele Zerilli Springsteen. Salvato dal rock and roll (e dalla mamma)”. In Luca Casadio e Massimo Giuliani, Madri: dal complesso di Edipo alle madri reali, Castelvecchi.
  • Bruce Springsteen (2016), Born to Run. Simon & Schuster (Trad. Born to Run. L’autobiografia. Mondadori).

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Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.