Cinquecento catenelle

Massimo Giuliani
RadioTarantula
Published in
6 min readSep 5, 2011

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Ieri sera sono stato a un concerto. Non ricordo quanto tempo sia passato dall’ultima volta che sono uscito la sera per ascoltare della musica dal vivo, è che il più delle volte all’ora in cui cominciano i concerti io sto arrivando alla stazione da chissà dove, oppure sto rientrando a casa disfatto e non ci sono proprio le condizioni per uscire.

Ma non è proprio di questo che volevo parlarti, questa è solo la premessa.
Dicevo, sono stato a un concerto, e il concerto era di Riccardo Tesi e Maurizio Geri. Il primo lo avevo ascoltato quasi venti anni fa in una formazione completamente diversa e anche dopo ho seguito con una certa curiosità il suo lavoro sull’organetto diatonico nelle musiche tradizionali di mezzo mondo. Maurizio Geri è un chitarrista che credo si sia formato sulla musica di Django Reinhardt e sul jazz tradizionale, ma ha lavorato anche parecchio sulla canzone popolare italiana. Proprio un bel duo, mamma mia che classe: ma non è questo l’argomento di questo post, questo è ancora il cappello, come si dice.
Comunque Tesi e Geri sono usciti l’anno scorso con un disco dedicato a Caterina Bueno, un’interprete toscana che ci ha lasciato quattro anni fa. Interprete ma soprattutto ricercatrice dell’oralità popolare, con la quale entrambi hanno suonato. Per decenni Caterina Bueno lavorò per far emergere e per divulgare tanta musica popolare toscana: attraverso le registrazioni sul campo e poi attraverso un’attività concertistica e discografica in cui riproponeva le canzoni che scovava nelle sue ricerche.

Il cd doppio che Tesi e Geri hanno realizzato si chiama “Sopra i tetti di Firenze” (ti ricorda niente?) ed è suonato da dio e arrangiato con grande cura. È di una bellezza imbarazzante, e se non lo conosci ti sei perso qualcosa. Dentro non ci sono solo loro, c’è un ensemble straordinario e ci sono ospiti di lusso, addirittura popstar e artisti toscani che si sono messi al servizio di un disco così singolare e così poco fighetto. Nada, per dirne una, o la Nannini. O Carlo Monni, o Riondino, o Piero Pelù persino, che incredibilmente rinuncia a gigioneggiare come ti aspetteresti e lascia a casa il suo irritante birignao per fare la persona seria e mettersi al servizio di Caterina. Roba che se non leggi le note di copertina non lo riconosci nemmeno. Poi, una volta che lo sai, capisci che a un verso come “le tue galline facciano tanta merda” quel sibilo luciferino poteva darglielo solo lui. Davvero, ascoltatelo.
Caterina Bueno fu un personaggio cruciale fra quelli che bazzicavano il Folkstudio di Roma, il locale dal quale nacque più di una generazione di musicisti interessati alla musica popolare americana, ma anche a quelle regionali italiane e a quelle britanniche e irlandesi. Tanti di loro si ispiravano a Bob Dylan (ci suonò anche, Dylan, e nessuno se ne accorse: era il 1962) e ai cantautori contemporanei che scrivevano canzoni con un’attitudune folk. Quando negli anni Novanta il Folkstudio cominciò a passarsela male, la Bueno fu tra gli artisti che più si impegnarono per permettergli di non morire. Non ce la fecero, purtroppo.
Non volevo parlarti del Folkstudio però, anche perché non potrei: fra i rimpianti della mia vita c’è quello di non aver fatto in tempo a vederlo. Era così vicina Roma, eppure nemmeno negli anni in cui la frequentai assiduamente per studio ebbi mai (o mai me la cercai) l’occasione per andare una sera al Folkstudio, e oggi me ne pento amaramente. Che cosa mi sono perso.
Tanti di quei musicisti poi li ho incontrati, qualcuno l’ho anche frequentato per un certo periodo, ma il Folkstudio non l’ho mai visto, mannaggia a me e alla pigrizia.
Potrei non vedere mai Bombay, o la Statua della Libertà, e me ne farei una ragione: ma se c’è una cosa che rimpiango, è di essermi perso per sempre il Folkstudio.
Conobbi anche Mimmo Locasciulli, una sera che andai a intervistarlo dopo un concerto per la radio con cui collaboravo all’epoca. Mi ero preparato delle domande molto serie e intelligenti, sapevo che se andavi a parlare con un cantautore toccava studiare e dire cose acute, ma lui per tutto il tempo mi trattò male e mi rispose con molta sufficienza, mentre prendeva molto sul serio due tizi di una radio ggiovane che gli facevano domande del tipo “che cos’è per te l’amore?” e si divertiva parecchio. Giuro. Tanto che per un po’ mi convinsi che i cantautori dovevano essere proprio delle brutte persone. Poi Roberto, che lo conosceva, bene mi disse “strano, di solito è gentile”. Mi bastò. L’avevo incontrato in una serata sbagliata, tutto qua. Suonava per una festa parrocchiale e forse gli giravano le palle.
Di cosa stavo parlando? Ah.

Caterina Bueno tra Francesco De Gregori e Antonio De Rose. Foto di Anonimo, Pubblico dominio

Intorno al 1970 Caterina Bueno ingaggiò come chitarrista Francesco De Gregori, anche lui della grande famiglia del Folkstudio (e anche lui lo conobbi una sera per ragioni analoghe a quelle di Locasciulli, solo che con lui mi andò meglio; però in gran parte fu fortuna: c’era una collega yuppina di un’altra radio che non conoscevo che non aveva capito niente del testo di “Dottor Doberman” e gli disse qualcosa che lo offese molto; così io feci la figura di quello con cui invece si poteva parlare, e per sfruttare la situazione lanciavo ogni tanto alla yuppina delle occhiate di sufficienza scuotendo gravemente il capo; poi io e Francesco parlammo di un suo arrangiamento fingerstyle della “Donna cannone” e lui ne fu molto gratificato).
Ecco, per chi ancora non lo sapesse, la canzone “Caterina” che De Gregori incise su “Titanic” nel 1982 è dedicata proprio a lei. Uno pensa a un amore inventato per scriverci una canzone (anche se lui la presentava spesso come una canzone che “parla di una donna che amo”), o a una fiamma dei tempi della scuola, di quelle che non si spengono più, e invece quei versi ispirati da sconfinato affetto sono rivolti proprio a Caterina Bueno.
L’hanno rifatta anche Maurizio Geri e Riccardo Tesi nel cd, e forse è una delle più belle canzoni della musica italiana, e se vi sembra un’esagerazione probabilmente siete fra quelli che nella torrida estate recente si sono accapigliati per decidere se fare santo patrono Vasco Rossi o Ligabue.
“La chitarra veramente la suonavi molto male, però quando cantavi mi sembrava carnevale” è uno di quei versi che se li canti a chiunque altro, ti risponde “ma ti sei visto? È arrivato Segovia, è arrivato”. Ma una persona che ami davvero, il senso lo capisce.
In fondo anche Springsteen cantava “You ain’t a beauty but hey, you’re alright”, no?, e uno lo sapeva che in fondo in fondo era un complimento. Tanto che per parecchio tempo ho pensato che fra i due l’assegnazione del mio personale Premio Speciale “Verso Apparentemente Da Gradasso Ma In Realtà Pieno di Tenerezza Struggente” era roba da fotofinish.
Un altro verso bellissimo di “Caterina” era quello delle “cinquecento catenelle che si spezzano in un secondo, e non ti bastano per piangere le lacrime di tutto il mondo”: le catenelle in questione erano quelle (d’oro!) che Caterina Bueno aveva cantato in un’altra canzone, che nell’80 avrebbe ripreso anche Vecchioni.
Allora, questa storia del concerto, insieme al fatto di passare parte della notte successiva a cercare informazioni su Caterina Bueno, mi ha fatto venire in mente un episodio (ecco, era qui che volevo arrivare).
Ci sono stati anni che De Gregori l’ho ascoltato in giro tutte le volte che potevo. L’ho visto una volta anche a Roma, e lo dico con legittimo orgoglio perché ascoltare De Gregori al Teatro Olimpico è un po’ come mangiare la fiorentina a due passi da Ponte Vecchio, anche se il paragone non mi convince fino in fondo, ma non me ne viene uno meglio. Diciamo come vedere Pelè al Maracanà.
Ecco, in una delle innumerevoli serate in cui l’ho ascoltato mi ricordo che prese il verso “Caterina, questa tua canzone la vorrei veder volare sopra i tetti di Firenze per poterti conquistare” (eccoli, i tetti del titolo del cd di Tesi e Geri) e ne cambiò una parola: “sopra i tetti di Firenze per poterti consolare”.
Cantò proprio così, “consolare”.
E io pensai che diventava un’altra canzone, e che fra un universo e un altro ci passano due sillabe. E così pensai che certe volte le parole sono una figata.
Ecco, questo è quello che mi è tornato in mente.

Originally published at massimogiuliani.wordpress.com on September 5, 2011.

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Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.