Elisa De Munari racconta le donne indomite e scandalose del blues

Studiosa e musicista vicentina, Elisa De Munari (Elli De Mon quando suona) pubblica con Arcana un saggio che racconta il blues da una prospettiva molto speciale. E una volta letto il libro, c’è il cd.

Massimo Giuliani
RadioTarantula
5 min readAug 30, 2021

--

Lo aveva spiegato bene Amiri Baraka: ha senso parlare di una “estetica del blues” a patto che questo non comporti una sua “depoliticizzazione”.
Raccontare questa musica come la musica popolare dei neri che nasce nel contesto della società borghese bianca americana è sensato, ma è parziale. E forse è complicato per il pubblico della world music e delle contaminazioni da laboratorio immaginare le implicazioni conflittuali di questa forma d’espressione. Conflittuali perché, certo, attraversa anche le vite di individui a cui era negato persino lo status di esseri umani; ma anche perché emerge da un processo di appropriazione e di risignificazione di strumenti, modi, forme, della cultura europea che lo “ospita”. Sembra ben più di una ipotesi, ad esempio, la possibilità che la progressione I — IV — V, tipica del giro di blues tradizionale, sia un furto perpetrato ai danni di forme musicali seicentesche in voga negli ambienti europei; ed è noto che la cultura afroamericana riutilizza gli strumenti che trova nei salotti dei borghesi violentandoli con quelle note “sbagliate” (quella diabolica terza minore, orrore!), ridefinendone la storia e la tecnica e qualche volta anche l’ingegneria.

Insomma, il blues nasce da una collisione fra culture. Il che, paradossalmente, da una parte ci impone di non dimenticarci della sua origine afroamericana; dall’altra ci ammonisce a non farne un limite: la stessa Elisa De Munari — da scrittrice e da musicista bianca ed europea — rivendica la legittimità e la necessità di cantare il blues, di godere della sua capacità di fiorire dove esistono collisioni e della sua attitudine a produrne a sua volta. Circoscriverlo dentro i confini di una musica folklorica non rende giustizia alla potenza generatrice che da subito ha avuto per musicisti di varie culture e di vari periodi.

“Countin’ the Blues — Donne indomite” parla della rilevanza “politica” di una musica che, pure, è in gran parte espressione di interiorità individuali — lo spiega bene: col blues la musica nera diventa anche espressione di un autore e di un interprete, dove ad esempio il gospel era musica collettiva, voce di una cultura e di una religiosità condivisa — , ma proprio nel raccontare sentimenti individuali, storie di sesso e alcol, proprio nel suo potere di resistenza e di elaborazione di un dolore personale, afferma la sua collocazione dentro una storia più grande.
De Munari lo dice chiaro già nelle prime pagine: ascoltare il blues implica prendere una posizione sul razzismo, sul sessismo e “su quel potere che impone la propria forza sul corpo delle persone”.

Il suo libro racconta quella musica da una prospettiva particolare, quella delle donne del blues. E in quella prospettiva si fa ancora più evidente quella attitudine. Perché quello che per i musicisti maschi rappresentava una forma di rivalsa e di resistenza — e magari generava redditizie mitologie rock — cioè cantare la sensualità, il piacere, la liberazione del corpo, fatto da una donna era ragione di stigma e di giudizio morale, soprattutto da parte della cultura dei bianchi se non anche della propria.

Il cuore del libro è costituito da undici capitoli, ciascuno dedicato a una delle signore del blues. Dalle più note ad altre che magari scoprirete qui, tutte raccontate con una partecipazione e un affetto speciale. Addentrarsi in queste storie è conoscere delle personalità straordinarie, delle storie dure e resilienti; è capire anche come il ruolo delle donne nella diffusione di questa musica sia stato spesso più determinante di quanto la storia non ci racconti.
E poi cantare il blues è anche cantare la vita in tanti suoi aspetti. Così Bessie Smith che “cura il blues col blues” (il dolore con la musica) diventa occasione per parlare di cura e di guarigione (anche attraverso il loro ruolo nelle tradizioni africane). La vita di Sippie Wallace è una storia sul senso del sacro e sulla religione, e sul loro rapporto con l’arte. Memphis Minnie che si muove gagliarda e intraprendente in un ambiente dominato dai maschi racconta una storia sulla determinazione di contrapporsi ai vincoli e all’oppressione. E così via.

Data l’incandescenza del materiale trattato, cercare di farne un’analisi “oggettiva” e scientificamente corretta, con lo sguardo distaccato dello studioso, può essere una opzione, ma forse non la più efficace. E l’autrice fauna scelta temeraria quanto felice: si espone in prima persona, non sparisce mai dietro le storie che ci racconta. Ci entra dentro, con la propria biografia e con la propria visione del mondo, persino con le proprie emozioni, i propri sentimenti, i propri blues. “Countin’ the Blues” è un libro che parla delle protagoniste di una grande tradizione musicale ma è scritto in prima persona.

In questo senso lo stile della scrittura è in stretta continuità col contenuto. È un racconto del blues che un po’ è blues di suo. Di più: la capacità di far emergere differenze, l’attitudine accogliente che De Munari attribuisce a questa musica diventano un principio guida nell’organizzazione del saggio. Ad ogni capitolo infatti si affiancano a quella dell’autrice voci di artiste e donne impegnate che parlano in prima persona di temi come la sessualità, il rapporto fra i generi, la fede, la cura, la musica, lo show business.

Ma l’autrice è soprattutto una blues woman: e sa che sebbene le parole possano essere all’altezza della musica che intendono raccontare, le une e l’altra sono due linguaggi complementari, non riducibili l’uno all’altro. Ma come diceva quello — può darsi che ricordi male? — di ciò di cui non si può parlare, si può sempre cantare. Allora il libro ha il suo completamento nell’album dallo stesso titolo, uscito poco dopo per Area Pirata. Elli suona dieci brani dalla storia delle “donne indomite” e restituisce lo spirito di Bessie Smith, Ma’ Rainey, Elizabeth Cotten, Lucille Bogan e le altre con lo stile che la caratterizza, col suo blues macchiato da pennellate punk che non disdegna ampli saturati e suoni da “dirty rock’n’roll”, come dice nella presentazione. D’altra parte il blues parla del presente, ed è qui per restarci: perché è ancora il suono giusto per raccontare nuove storie, nuovi dolori e nuove collisioni.
Il cd “Countin’the Blues — Queens of the 20's” Lo trovate su Bandcamp, dove potete ascoltarlo ma — meglio ancora — potete anche acquistarlo su supporto fisico o nell’immateriale splendore di file digitali di alta qualità.

--

--

Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.