Il zen outside: intervista con Folco Orselli e Claudio Sanfilippo

Massimo Giuliani
RadioTarantula
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30 min readAug 9, 2016
Folco Orselli (al piano elettrico) e Claudio Sanfilippo (alla chitarra) in un momento dell’avvicendamento sul palco. Foto di Serena.

La scorsa settimana sul palco di AlParco di Verolanuova (BS), nello splendido Parco Nocivelli, avevo ascoltato Claudio Sanfilippo. Questa domenica ero pronto per il concerto di Folco Orselli e poco prima di partire sono venuto a sapere che ci sarebbe stato anche Claudio. Il concerto è stato ancora più emozionante seguito vicino a Claudio — che di Folco è amico da sempre — ascoltandolo commentare con emozione le canzoni del collega. Il quale gli ha anche lasciato il palco per il tempo di tre canzoni, per il piacere di chi, fra il pubblico, è riuscito a cogliere il valore di quello che stava accadendo.
Trovarli entrambi mi ha dato l’occasione di poter registrare, alla fine, questa lunga chiacchierata per il blog, seduti fino ben oltre la mezzanotte con qualche birra e l’odore del sigaro di Claudio.
Complimenti a Elena Panzera per il gran lavoro che fa per portare nella bassa ogni estate una grande quantità di eventi come questi. Grazie a Serena per la registrazione e per le foto.
E grazie a Claudio e a Folco per l’enorme regalo di questo tempo passato insieme a parlare di faccende che ci stanno a cuore. Sono due tra i musicisti che, per quanto mi riguarda, hanno fatto le cose più preziose di questi ultimi anni nella canzone d’autore italiana: poter condividere questo tempo con loro è stato un grande onore. Un altro motivo di gratitudine è nel fatto che questa conversazione mi ha chiarito ancora meglio alcune delle ragioni per cui la loro Milano, orami da parecchi anni, è una delle città in cui mi sento a casa.

Massimo Giuliani: Allora, eccomi con due terzi della “Scuola milanese”… intanto ricordateci cosa fu “Scuola milanese”, le serate e tutto il resto…

Claudio Sanfilippo: Allora, succede che tre anni fa Carlo Fava — che è il terzo che stasera non c’è, un nostro amico e collega cantautore milanese, bravissimo — una sera ci chiama e ci invita a cena, me e Folco. E quando siamo da lui, ci dice che ha avuto questa idea, di provare a mettere insieme i nostri tre mondi e provare a fare qualcosa, in accordo con la Salumeria della Musica, un locale che sta a via Pasinetti.
In realtà non avevamo ben chiaro cosa avremmo fatto. Tutto è nato in modo molto veloce e tutto è nato in virtù di una cosa bella che ancora oggi ci lega. Cioè una grande stima e una grande simpatia reciproca e il fatto di stare molto bene insieme. Io con Folco e con Carlo sto bene, e succede anche a loro nei confronti degli altri due! E così abbiamo cominciato puntando molto in alto, cercando di chiamare dei nomi importanti a raccontare storie, insieme alle nostre canzoni. E la cosa bellissima è che noi abbiamo puntato in alto pensando che fosse difficile portare sul palco con noi dei personaggi importanti. E invece più si sparava alto e più, paradossalmente, era semplice riuscire a portarli con noi. Per cui abbiamo ospitato più di cento persone in venticinque serate alla Salumeria. Fra di loro, nomi davvero meravigliosi: da Gualtiero Marchesi a Gillo Dorfles, al sindaco Pisapia — che adesso non è più sindaco…

Folco Orselli: …a don Gino Rigoldi, al calciatore Lodetti, che poi è milanista, ma vabbè, però è un grande raccontatore di storie… a Gherardo Colombo…

Claudio: …Giorgio Terruzzi, Gianni Mura, Nanni Svampa, Fabio Concato… la Vanoni! Poi me li sto dimenticando perché sono tanti, più di cento! E tutto con una super band. Insomma, abbiamo cominciato pensando di fare una cosa bella, perché ci piaceva di farla. Pensavamo che avesse un significato profondo, sostanzialmente una fiammata di rinascimento di Milano — prima dell’Expo, un paio di anni prima — che mettesse insieme la musica e le storie. La musica la facevamo noi, le storie le facevamo noi insieme ai nostri ospiti, che raccontavano le loro esperienze. Questo, in due parole, è quello che fu “Scuola Milanese” per due stagioni…

Massimo: …che poi “milanese” non è soltanto un dato geografico, immagino… cos’è che accomuna quelli che fanno canzoni a Milano, e che cosa li differenzia da altre “scuole”?

Folco: La milanesità, che è un concetto strano e, come dire… psichedelico? È un senso che accomuna molto, abbiamo capito che avevamo tanta voglia di affermarlo. Milano è un contenitore, ha inventato, proposto, ha creato tendenze, ha fatto scuola. Pensiamo alla vena surreale della comicità milanese, applicata al jazz, ai cantautori, insomma è stata — e lo è ancora, secondo me — un esperimento umano di racconti e di modo di raccontare. È un modo, ecco. È un modo di stare sul palco, di essere autoironici forse, di raccontare le storie da punto di vista terzo, che significa non soltanto la storia in sé, ma quello che succede intorno. Penso a Iannacci, ai Gufi, a Nanni Svampa, a tutto quel bagaglio culturale ma anche di fantasia, quel modo di esercitare la canzone, il racconto, la poesia… abbiamo fatto un appello per capire chi c’era ancora, ed erano tanti.

Massimo: A proposito di bagaglio culturale, dicevo a Claudio che non è così comune spaziare come fa lui dalla musica americana al Brasile, con tutto quello che c’è in mezzo. Di te, Folco, nell’ultimo disco mi ha colpito quante anime ci siano stipate dentro, e stasera ho trovato formidabile come, solo con voce e chitarra, sei riuscito a tirare fuori dai brani tutte quelle anime. Ecco, trovo che una caratteristica di questa scuola sia, oltre a un grande amore per certe tradizioni, una cultura che guarda in varie direzioni…

Folco: Certamente. Forse la nostra città, essendo Mediolanum, storicamente terra di passaggio, città di commercio, ha attirato tanta gente diversa, compratori, venditori… è come un porto senza mare. Milano è questo, un grande porto. E le storie si trovano, si raccontano, ci si scambia tanto. Ed è così ancora oggi. Non è un caso che in questo momento a Milano viva un nuovo rinascimento, è una città che si mette sempre in gioco. Anche architettonicamente, si sta rifacendo il trucco, sta rinascendo un’altra volta. E secondo me è un grande luogo in cui raccogliere storie, che è poi quello che facciamo, raccontare. Ed è una cifra milanese, raccontare la storia in un modo, come dire… ecco, mi viene in mente che Claudio una volta mi ha detto: tu racconti le storie in un modo che le rende epiche. Perché nel piccolo, in quello che facciamo noi, c’è un’epica. C’è un’epica nei personaggi, nel vagabondo, in quelle figure… forse succede anche altrove, eh, però questa è la cifra di Milano.

Claudio: Poi Milano è una città che non ha paura di cambiare. Quando si apre, lo fa per davvero. Ma nel bene e nel male, peché non cambia sempre in meglio. Però è un luogo che non ha mai avuto timore ad aprirsi a possibilità nuove. Io, che sono milanese e che non vivo in città da tempo ma che la vedo quasi quotidianamente, mi stupisco di quanto Milano continui a cambiare e di quanto riesca comunque a rimanere aggrappata a se stessa. È un luogo strano, peculiare. Riesce ad attirare l’attenzione su cose importanti, ecco: Milano è una città di cose importanti. A Milano è successo tutto. Dal punto di vista storico, da quello culturale. È una città che forse in Italia ha visto nascere tutto. A Milano è nato il socialismo, è nato il fascismo. C’è stata la Liberazione… e poi Milano è la città della moda, del design, della grande arte…

Massimo: mi ritrovo in quello che dite e, nel mio piccolo, pur essendo di formazione inizialmente romana, oggi a Milano faccio un mestiere dentro una strada segnata, anche lì, da una “scuola milanese”, che è nota in gran parte del mondo per la sua forza innovativa. Quando dici che “a Milano è successo tutto”, capisco cosa intendi…

Claudio: …ed è così, non lo dico per svalutare altre realtà. E per queste ragioni, Milano è anche la città in cui c’è un grande eclettismo. Il milanese è aperto a capire, a trasformarsi, a sperimentare. La mentalità è “perché no?”. Lo è ancora oggi, perché è una città abituata a metabolizzare tante suggestioni che vengono da fuori. E quest’attitudine è diventata parte della sua natura.

Massimo: “Perché no?” significa anche sperimentare connessioni fra mondi diversi, come avete fatto in quei due anni…

Claudio: Sì. Ecco, se tu hai una proposta, un’idea, a Milano — magari non è sempre così, perché poi l’Italia è un paese molto complicato e molto burocratizzato, e molto poco incline a incoraggiare la novità — però puoi avere la speranza che qualcuno la tua idea la accolga e la capisca. Ecco, in questo senso e per questo motivo forse è anche la città più internazionale che abbiamo, l’unica veramente internazionale. Che in qualche modo, magicamente, riesce a mantenere una propria identità che in questi anni si pensava ormai persa, invece ho la sensazione che sia ancora abbastanza forte.

Massimo: Si parlava del raccontare storie. Il tuo ultimo disco, Claudio, si chiama Ilzendelswing, è in milanese ma perfettamente apprezzabile anche da chi il milanese lo mastica poco. Peraltro ho provato a farmelo tradurre durante il primo ascolto, ma il milanese anche per un altro lombardo non è che sia proprio immediato! Ecco, a proposito di storie, sembra quasi che un certo registro musicale — lo swing, il country western, porti facilmente con sé un certo tipo di immagini e di storie. La pubblicità in bianco e nero, gli anni Sessanta, la signorina della Kores e l’omino Brill, e così via. Sembra quasi inevitabile…

Claudio: Lo è. Nel mio caso, io comincio a scrivere canzoni negli anni 70. Allora non avevo dimestichezza né col mondo del jazz né con quello della bossanova. E dunque i miei riferimenti erano più legati alla canzone italiana, ai primi cantautori che ascoltavo, ma soprattutto alla musica che veniva dagli Stati Uniti o dall’Inghilterra. Praticamente un mondo legato ai territori sonori dello swing, e genericamente del country. Quindi, nel mio caso, o forse per come l’ho interpretato io, in un certo periodo della mia vita l’imprinting è stato quello lì. Poi in questo disco ho voluto raccontare delle storie che riguardano il passato, ma senza passatismo, e spero di esserci riuscito. Perché secondo me in quel mondo c’è del buono, e mi piacerebbe che quel buono venisse riconosciuto e rimanesse. Quelle atmosfere che viveva la città, che in buona parte mi ricordo, ma in buona parte anche no, perché parlo anche di cose che accadevano prima che io fossi attivo, anche prima che io nascessi, come il caso del barcòn, per esempio [si riferisce a una canzone dell’ultimo album che parla della Milano di prima della cementificazione dei navigli] che restano nella parte emozionale del mio rapporto con la città, e che si legano inevitabilmente con un genere musicale come lo swing, un genere che negli anni 30, 40 e 50 ha vissuto il periodo più importante della sua storia. Anche in Italia, con personaggi come Natalino Otto e Gorni Kramer, per dire i primi due che mi vengono in mente, che fanno parte di quella storia. Io ricordo i miei genitori che mi parlavano di quello che loro amavano, e in quel mondo c’era il Trio Lescano…

Massimo: …il Quartetto Cetra…

Claudio: …il Quartetto Cetra, meraviglioso, che peraltro era attivo proprio a Milano. Quel mondo musicale richiama un’epoca, e per questo mi sono aggrappato a quel mondo lì. Non ci ho pensato, mi è venuto naturale.

Massimo: Folco, nel mio post sul tuo Outside is my Side ti ho attribuito influenze non so quanto azzeccate… ma quella di Tom Waits si sente ancora di più dal vivo…

Folco: Sì, beh, Waits è un mio grande maestro, ma io ho anche come maestri i maestri di Waits, perché Waits è uno di quelli che hanno ricreato un mondo da quello del blues, e si rifà a quello che veniva anche prima, tipo Howlin’ Wolf, quel modo di usare la voce, Louis Armstrong, ma anche Professor Longhair e tutto quel mondo pianistico di New Orleans, Dr. John e così via. Insomma, mi piace andare alla radice, poi siccome per la proprietà transitiva A è uguale a B e B è uguale a C e C uguale ad A, per carità, funziona, poi però è sempre meglio andare a cercarsi le cose. Waits per me è sempre stato un grande lume, mi ha insegnato tanto, anche nel modo di scrivere i testi e di raccontare certe immagini. Poi da lì sono andato a cercare, e ne ho trovati tanti altri. Ho una cultura musicale molto disordinata, in realtà, passo da Neil Youg a Waits a Dylan, per tornare a Dalla… Ho avuto due fratelli più grandi che mi hanno massacrato di musica, hanno dieci e dodici anni più di me e quindi sono stato bombardato dal blues, Clapton, ma anche tutto il prog, i Genesis, i Pink Floyd…

Massimo: Peraltro il prog spunta fuori all’improvviso dalla prima traccia del disco!

Folco: Sì! È stata una scelta fatta con Vincenzo Messina che è il mio pard artistico — negli ultimi dischi ho lavorato sempre con lui — che mi ha proposto questo arrangiamento, e io l’ho abbracciato, mi piaceva l’idea. Poi mi piace mettermi in gioco, mi piace la ricerca.

Folco Orselli (foto di Serena)

Massimo: Devo dirti che la canzone di Iannacci “Quello che canta onliù”, è come se l’avessi scoperta quando l’ho sentita da te, nel senso che davvero ne hai tirato fuori tutto il dramma… io lo consideravo uno Iannacci minore, invece nella tua versione l’ho sentita di più. Forse questo ha a che fare con la tua cultura musicale, ne hai esaltato i languori latini…

Folco: Quel pezzo ha una storia per me. Era contenuto in un disco degli anni 80, mi pare, Ci vuole orecchio

Massimo: Sì, inizio anni 80…

Folco: Io avevo ascoltato questo pezzo da mio padre, che aveva una cassetta arancione — c’erano ancora le audiocassette, le ascoltavo in macchina. Andavamo a fare le gite fuori porta, io avevo dieci anni e mi ricordo questo pezzo… tutto il disco, in verità, ma questo pezzo mi colpiva perché percepivo una malinconia, un dramma che a dieci anni percepivo e basta, perché a quell’età non puoi capire di cosa si tratta. Però mio padre era sempre in giro — lavorava nel commercio — e quando sentivo la sua lontananza, non so perché, immaginavo che quella canzone trattasse di una persona che è lontana dai suoi affetti, per lavoro, e vive questo distacco. Ma questo era quello che pensavo nella mia astrazione, infatti Iannacci ha questa grande capacità, con me l’ha avuta. Mi ha scavato delle stanze vuote, mi apriva dei mondi che io tenevo aperti, ma non riuscivo a riempire di quella malinconia, perché ero troppo giovane per capire, per darle un senso importante. Poi negli anni ho capito che quelle stanze erano aperte per metterci la mia, di malinconia. Quelle storie e quei drammi li ho capiti dopo, ma già c’era qualcosa che me li indicava. È un’arte da stregoni, secondo me, eh. Iannacci ha questa capacità, a un bambino ha fatto questo. Ha aperto dei mondi che questo bambino non capiva, ma poi ho capito cosa mi aveva dato. Quindi ho voluto restituirla, le ho dato un altro arrangiamento, più tex-mex. diciamo, con quelle chitarre un po’ così, e ho sentito che il pezzo reggeva…

Massimo: …e secondo me gli hai fatto un grande servizio, perché porti in superficie tutto quello che era sottotraccia. Ecco, quello che colpisce in entrambi i vostri dischi recenti è uno sforzo produttivo formidabile, sul piano dell’arrangiamento, della produzione. Roba che oggi uno se la sogna anche nei dischi che vanno nei circuiti più commerciali. Ci vuole un sacco di amore per fare tutto quel lavoro…

Folco: Per forza, perché noi facciamo la corsa da outsider, mi permetto di attribuire questa qualifica anche a Claudio…

Claudio: Ma è vero, è così…

Folco: …dobbiamo sempre dimostrare, al di là di tutto, che le nostre produzioni sono all’altezza di tutte le altre produzioni che hanno molti più mezzi. E quindi noi giochiamo quel campionato lì, noi siamo il, come si chiama…

Claudio: Il Leicester, quello di Ranieri…

Folco: Ecco, siamo la squadra che vuole vincere il campionato con meno mezzi degli altri. Quindi ogni volta che facciamo una cosa la facciamo al massimo.D’altra parte amiamo tutt’e due la musica, e la musica vuole rispetto.Poi, sai, i dischi sono la cosa che rimane di te, e quindi bisogna dargli il giusto senso.

Claudio: È così come dice Folco. Poi, ogni volta è una cosa diversa, il mio disco è nato con una impronta molto live e l’abbiamo registrato in quattro giorni. Quattro pomeriggi, anzi. Ogni disco ha la sua storia: due dischi prima ho fatto un disco iperprodotto, fatto ragionando in maniera chirurgica sulle piste, sui dettagli. L’importante è fare qualcosa che abbia un senso. Quello che dicevi è vero: alla base di tutto questo c’è l’amore per quello che fai, che ti porta a fare le cose che sai fare. Se c’è una cosa che mi infastidisce molto, negli ultimi anni, è che vedo molti esperimenti musicali di gente che secondo me non è in grado di fare certe cose e le fa comunque, perché in quel momento ha un senso per il mercato. Invece secondo me, se uno chef è bravo a cucinare il pesce, cazzo, che faccia il pesce! (perde la pazienza 🙂 ) Non venite a raccontarmi… io, per esempio, molto difficilmente riuscirò nella mia vita a fare un disco rock. Perché non ce l’ho dentro. Lo capisco, lo sento, lo posso fare, ma non è quello che, per esempio, Folco invece ha. Ho delle altre cose, e quello che è importante è che ciascun musicista deve sapere cosa può dare. Io quel mondo lì del mio ultimo disco, credo di averlo assorbito molto negli anni. Soprattutto nei primi anni della mia avventura musicale. Per cui è stato un ritorno alle origini. Nel frattempo mi ero innamorato di altre cose, del jazz, della bossanova…

Massimo: Ecco, tu sei partito con gli americani, poi sei arrivato alla bossa e mi pare di capire che il passaggio intermedio sia stato James Taylor, con quegli accordi un po’ più complessi…

Claudio Sanfilippo (foto di Serena)

Claudio: Sì, sì. James Taylor, per un chitarrista come me, che si accompagna, dunque per un chitarrista che non ha mai pensato di fare il solista, ma di scrivere come si deve le proprie canzoni, è un riferimento enorme. Forse il più bravo che ho incontrato nella mia avventura, in quel mondo, diciamo quello della canzone angloamericana. Chitarristicamente è molto interessante, mette insieme mondi molto diversi, in uno stile molto personale. E quando ho scoperto Taylor, ho allargato la visuale. Da Taylor sono passato a Joni Mitchell, da Joni Mitchell a John Martyn e insomma, poi alla fine sono approdato al jazz e da lì a Jobim…

Massimo: …e alle corde di nylon.

Claudio: …e alle corde di nylon. Per cui io sono un po’ bipolare, dal punto di vista musicale. Alterno la chitarra acustica con le corde di metallo a quella classica.

Massimo: Ecco, vi va di parlare un po’ delle vostre chitarre? Gli strumenti che avete, quelli che portate con voi…

Folco: Allora, io ho avuto un trauma nella mia vita…

Claudio: Ecco, questa è bellissima! Un trauma tremendo, però è bella. [ridiamo]

Folco: Ho avuto un trauma per cui quando si parla di chitarre purtroppo devo parlare di questo. Quando avevo ventisei anni mi ero comprato una Fender Stratocaster Red Fiesta del ’57, originale americana. Avevo dedicato la mia vita a quella chitarra che avevo adocchiato… scusa, non ci penso mai, ma quando ci penso si rinnova il trauma!
Beh, un giorno venivo da un concerto, sono andato in un club, avevo messo la chitarra in macchina, che al tempo era una 500, ma era chiusa, quindi non si vedeva! Avevo un amplificatorino e la chitarra dentro. Sono andato a bermi una birra al Nidaba Theater, un locale che cito spesso, ho parcheggiato la macchina e… quando sono uscito la macchina non c’era più! Quella chitarra l’avevo comprata facendo il venditore porta a porta per due anni! Poi ritrovai la macchina, ma non c’era più la chitarra dentro. Girai come un pazzo tutti i negozi di strumenti musicali, sai, magari un tossico ti ruba la macchina, ci trova la chitarra e se la vuole rivendere… Poi è vero che dagli oggetti bisogna anche imparare a distaccarsi, però quello è stato un trauma. Quindi da quel momento le chitarre, boh, suono quelle che ho, ne compro alcune, ma… adesso fra l’altro Claudio mi ha fatto riinnamorare di una Fender! Anzi, mi sta vendendo una sua chitarra! [ridono]

Claudio: … che oramai è tua, perché ce l’hai da due anni… Questa è una bella storia. Una sera, durante “Scuola Milanese”, Folco aveva voglia di suonare la chitarra elettrica. Avevamo anche la super band con Danilo Minotti, chitarrista bravissimo, che aveva tante chitarre elettriche. Io però avevo questa Fender Stratocaster americana, e gli ho detto: ma no, Folco, dai, la chitarra te la porto io…

Folco: …e non gliel’ho più ridata! (risate)

Claudio: No, io gli ho detto: Folco, sai che stai veramente bene con quella chitarra lì? Se vuoi, dai, tienila per un po’ (risate)… Sono due anni e mezzo che ce l’ha! Allora a questo punto abbiamo deciso che rateizzando… me la compra. Io comunque me l’ero comprata perché mi piacciono le chitarre elettriche, però Folco con quella chitarra lì è un tutt’uno…

Massimo: …perché immagino che quel trauma originario sia una di quelle storie dopo le quali decidi che non ti legherai mai più…

Folco: Sì, e ormai ho deciso che suono quello che ho. Ho tante chitarre, ma è come un amore che ti è stato portato via senza ragione, e quindi… cerco di legarmi il meno possibile…

Alla chitarra di Folco è partita la quinta corda: Claudio accorda la Mantra per correre in soccorso…

Massimo: L’acustica che hai stasera, che purtroppo non abbiamo ascoltato a lungo, che chitarra è?

Folco: È una Norman…

Claudio: …australiana, vero?

Folco: …è un marchio della Godin, praticamente. È una jumbo con un pick-up Fishman, che mi permette di avere una bella resa. Il Fishman è molto potente come piezo. È una chitarra da battaglia, ma a lei mi sono un po’ affezionato, devo dire, perché mi sta portando molto in giro. Io ultimamente faccio spettacoli da solo continuamente. Devo dire che con lei riesco a trovare quello che voglio anche nelle situazioni più difficili, poi ho un amico che me la mette a posto, e poi è una chitarra che pompa… non ha un gran suono, però funziona.

Massimo: Prima del concerto parlavo con Claudio degli anni in cui esplose l’uso delle intavolature per chitarra, e tutti si cercava la trascrizione più vicina all’originale, per rifarlo perfetto… prima ancora si tiravano i pezzi giù dai dischi, a orecchio… tu come hai imparato?

Folco: Io sono un assoluto autodidatta. Mio fratello più grande suonava tutta la musica della West Coast, Neil Young eccetera, e aveva delle chitarre a casa, come una bellissima Ibanez a dodici corde, che peraltro ho ereditato io ma non la suono mai, perché è uno strumento particolare, e ho imparato da solo. Poi ho studiato, ma in realtà la mia scuola è stata mettermi lì e suonare, suonare, suonare. Ricordo che mi ero subito innamorato del blues, anche perché in realtà quando impari a gestire il Mi maggiore, il La e il Si, quando cominci a giocare con questi tre accordi, in qualche modo riesci a portarti a casa dei blues. Il problema è che quando avevo quindici anni e suonavo i miei primi blues sulla spiaggia, la gente mi guardava e faceva [imita]: ma non la sai “Roma capoccia”? Sì, so anche Roma capoccia, ma io te la metto in blues! E quindi mi guardavano tutti un po’ strano. Fra l’altro cantavo questa canzone che avevo imparato da mio fratello, in inglese, che era The Needle and the Damage Done di Neil Young. Avevo imparato a suonarla [la mima, Claudio l’accenna sulla sua chitarra], però non conoscevo il testo. La riproducevo ma non sapevo di cosa parlasse. Parlava di cose terribili, eroina, aghi, uno che si buca e muore, e io facevo “ehi, senti questa!” [fa il quindicenne con la chitarra e biascica suoni senza senso, risate]

Massimo: All’epoca si guardava Neil Young come quello che faceva cose molli… [ridiamo ancora] Tu, Claudio, sei legato ad alcune chitarre…

Claudio: Sì. Io, guarda, non ho l’animo del collezionista per nessuna cosa. Ma se avessi la disponibilità economica che non ho, l’unica cosa che potrei collezionare sono le chitarre. Io per le chitarre ho una passione, soprattutto per le acustiche. Anche per qualche classica, anche se c’è meno varietà. Insomma, ne ho qualcuna buona…

Folco: La Gibson…

Claudio: Beh, Gibson mi dà ogni tanto qualche chitarra da usare…

Max: Ricordo infatti delle tue foto con una Gibson…

Claudio: Sì, con la Gibson è venuto fuori questo accordo, per cui sono una specie di endorser. Sì sì, ogni tanto mi danno delle chitarre e io le porto in giro. In questo momento per esempio ho una Epiphone Hummingbird. Però ho avuto anche una Gibson L-00, molto bella. Ma soprattutto una bellissima 12 corde, che poi ho dovuto dare a Bennato. Lui suona la 12 corde, io la suono poco… Io però, in realtà sono un martiniano. Ho una bellissima Martin D18 del ’71, che è una chitarra fantastica, che è proprio la mia chitarra. Poi ho questa che ho portato stasera, che ha suonato anche Folco, che è una chitarra che tu ben conosci perché ne hai una anche tu, di Sandro Bonora, una Mantra, che è una OM, una Orchestral Model dell’89. Una chitarra molto bella anche lei, soprattutto per il fingerpicking. Poi ho una chitarra classica modello Schneider Kasha di Enrico Bottelli, che è un grande liutaio. Poi ho due chitarre baritono. Una è un’acustica costruita da un liutaio che si chiama Valerio Gorla, che mi ha fatto anche un dulcimer e un irish bouzouki: è un liutaio che costruisce soprattutto questo genere di strumenti, e ogni tanto fa anche delle chitarre. Una sera sono passato nel suo laboratorio che stava finendo di costruire questa baritono acustica, e l’ho comprata, perché era meravigliosa. L’altra baritono è una classica, uno strumento fantastico, costruita da un altro grande liutaio che si chiama Fabio Zontini, che è diventata uno strumento per me fondamentale. Infatti il prossimo disco sarà un disco di chitarre e voce, e lì suonerò le mie chitarre acustiche e questa chitarra baritono classica di Zontini. Insomma, a me fino ad ora le chitarre non me le hanno fregate, quindi non avendo il trauma… [risate]

Folco: Io te ne ho pagate due…

Claudio: È vero, Folco ha anche una mia vecchia classica, una vecchia Takamine che suona molto bene…

Folco: L’ho ritirata come nuova!

Claudio: Una Takamine dei primi anno 80 che suona benissimo! Comunque io con le chitarre ho questo rapporto molto felice, diciamo. Mi piacciono molto. Purtroppo non riesco a comprare alcune chitarre che, se non avessi avuto scarsa disponibilità negli ultimi anni, avrei continuato a comprare. Però chi può dirlo…

Massimo: Come ti capisco… ma dicevi qualcosa del prossimo disco: si può parlare di quello che state preparando? Del tuo, Folco, ho letto qualcosa in giro: Blues in MI, dove “MI” sta anche per Milano…

Folco: Sì, sto facendo il mio sesto disco. Dopo due dischi come Generi di conforto, che è un disco con un’orchestra d’archi, superprodotto, e dopo Outside is my Side, che pure quello è un disco molto prodotto, volevo tornare alla mia origine, che è il blues. E così sto scrivendo, questa estate ho già scritto un po’ di cose, e sarà un disco su quel mondo lì. Vorrei fare un disco in presa diretta, con solo qualche sovraincisione, vorrei tornare al linguaggio del blues, ecco. Blues in MI perché mi piaceva quest’idea di MI come Milano, ma anche mi e ti, in milanese, no? Cioè il blues dentro di me, che anche in inglese si dice “me”, cambia la grafia ma in inglese e in milanese il suono è lo stesso. È poi il Mi è un accordo che nel blues si usa molto. Sono molto contento, anche perché è il primo disco che sto scrivendo e registrerò: io ho sempre scritto tanto e poi tenuto lì il materiale, e in base ai dischi che volevo fare andavo a ripescare certe storie, certe canzoni, componevo mondi. Delle canzoni che ho messo in Outside is my Side, alcune erano scritte ultimamente, poche; le altre avevano dieci, quindici anni, le ho prese e gli ho dato un vestito. Anche per Generi di conforto, avevo scritto negli anni delle canzoni che mi sarebbe piaciuto sentire registrate con una orchestra. Quindi le mettevo via per quando ne avessi avuta la possibilità. Questo disco, invece, è quello che sono adesso. Il mio modo di vedere adesso le cose, le storie, e ne sono contento perché mi sta stimolando molto. E sarà Blues in Mi volume I, perché mi sono reso conto che fare un disco così è troppo poco. Ne voglio fare due, dunque il volume primo e il volume secondo. E così per i prossimi tre anni so cosa fare!

Massimo: Per te andare in giro voce-e-chitarra è abituale oppure suoni anche con altre formazioni?

Folco: Tutti noi abbiamo fatto di necessità virtù. Io in passato sono sempre stato in giro con la band. Dal settetto coi fiati al quintetto con l’Hammond, al quartetto con me alla chitarra, al trio. Ultimamente si riesce a suonare da solo e non è facile in certe situazioni, perché avere una ritmica a volte ti aiuta ad essere più penetrante almeno come quantità di suono che viene dal palco… però mi piace. Mi manca un po’ il gruppo, adesso sono un paio d’anni che suono da solo ma anche dopo un po’ che suoni con la band hai voglia di tornare alla canzone che ti gestisci tutta tu, come uscire con una donna, no? Lì sei tu e lei, non sei tu, lei e tutta la compagnia intorno. È un po’ la stessa cosa…

Massimo: Sai, stasera ascoltavo Claudio fare dei pezzi che la settimana scorsa ha fatto col quartetto, e prima nel disco con una formazione ancora diversa. E pensavo al fatto che lavorare con quello che c’è è un limite, ma insieme pensavo a che opportunità creativa sia il fatto che una canzone diventi tante versioni possibili di un mondo, che stanno tutte lì dentro e che di volta in volta si ri-creano secondo il contesto…

Claudio: Se una canzone è buona, sta in piedi con poco. Sta in piedi come l’hai scritta. Io ho una storia abbastanza simile a quella di Folco, ho girato con tanti gruppi, con tanti musicisti, tu mi hai visto con una band, ma in percentuale, su dieci serate che faccio, in sette sono da solo. Negli ultimi dieci anni suonare da solo è diventato quasi la regola. Perché ci sono meno soldi in giro, e poi al di là che i cachet si sono abbassati, c’è da dire che nel mio caso io ho avuto sempre un rapporto molto carnale con la chitarra. Per me la canzone è . Mi diverto molto a suonare con altri musicisti, ho avuto — e ho — la fortuna e il privilegio di suonare con artisti molto bravi dai quali ho ricevuto tanto e ho imparato tanto. Però è vero che quando scrivi, scrivi da solo. E scrivi sul tuo strumento. È difficile far passare questa idea, perché fino agli anni 70 e 80 c’era un’attenzione molto forte nei confronti di chi si proponeva in maniera così cruda, ma oggi è molto più difficile. Però, insomma, come dicono gli americani, questo è the name of the game. E questa è la ragione dell’album che ho registrato nel frattempo, che non so quando uscirà, forse all’inizio dell’anno prossimo ma vediamo, perché Ilzendelswing è appena uscito…

Massimo: …l’hai già registrato?

Claudio: Sì, è già registrato. È andato in coda perché stavo registrando questo album appena uscito, ma avevo in mente di fare questo progetto di chitarra e voce, allora sono andato in studio e ho registrato in diretta dodici canzoni che sono andato a ripescare. Sono canzoni scritte dal 1981 al 2015. Dodici canzoni che attraversano trent’anni, dunque.

Massimo: Sono canzoni che conosciamo?

Claudio: No, no, sono canzoni che non ho quasi mai cantato dal vivo. Cose che avevo nel cassetto che stavano per entrare negli altri dischi e poi non sono entrate, quelle cosa che poi restano lì. E allora ho fatto quest’album per chitarra e voce ma con un’attenzione massima nei confronti del suono. È un disco che suonerà molto bene, considerata la sua nuda testimonianza, che è quella di una voce e una chitarra.

Max: Stavo pensando ad alcuni commenti irresistibili di Folco a proposito dei talent show. Mi domandavo: dal vostro punto di osservazione, cosa si vede? I cantautori più giovani esistono, vanno nei locali, o si rivolgono solo ai talent?

Claudio: Esistono. C’è sempre tanto di buono anche se viviamo in un momento storico in cui quel buono è sempre difficile da scoprire e da ascoltare. L’altra settimana ero qui a suonare e c’era un trentenne di… credo Riva del Garda, si chiama Matteo Abatti, mi è capitato di ascoltare dei suoi pezzi… bellissimi. È bravissimo. Bravissimo ma poi, come mi dicono persone che collaborano con lui, fa una fatica boia a farsi ascoltare. [A Folco] A Milano ci sono? Ci sono, no?

Folco: Sì, adesso la mia sensazione è che i cantautori si siano spostati sulla moda del momento. Adesso i cantautori sembra che siano gli hip-hopper, no? Poi ci sono questi fenomeni un po’ semplicistici, secondo me, nuovi cantautori tipo questo Calcutta, questi personaggi… le ho sentite queste cose, molto semplici, tutte giocate sul testo giovanilistico, sulla vita dei loro tempi…

Claudio: Sì, è vero questo. C’è un’attenzione sempre maggiore nei confronti del testo, e meno nei confronti della musica.

Folco: …della musica chi se ne frega, del canto chi se ne frega, come la cantiamo non importa…

Claudio: Musicalmente un po’ sedativa, magari con delle idee del testo interessanti. Però, insomma, la canzone è un evento musicale.

Folco: Poi, oh, magari ce ne sono tanti che non conosciamo che sono lì che si stanno allenando come Rocky…

Claudio: Ma secondo me ci sono, c’è sempre qualcosa di buono. Ci sono i momenti in cui il buono emerge più facilmente, e altri in cui fa più fatica. Questo è un momento in cui il buono fa fatica.

Folco: Poi noi siamo dei giovani cantautori…

Claudio: Giovanissimi…

Folco: Non ci caga nessuno, quindi siamo sempre giovani! [Risate]

Massimo: Sempre delle promesse!

Claudio: Le nostre canzoni son sempre nuove… Una cosa bellissima, ieri sera sono andato ad ascoltare un vecchio caro amico, che è Luigi “Grechi” De Gregori.

Massimo: Oh, lo conosco bene! Fra l’altro abbiamo organizzato tanti anni fa, ai tempi della cassetta Azzardo, dei suoi concerti qui nella bassa bresciana, prima in una piazza, con Ricky Mantoan e poi, l’anno dopo, da solo in un locale…

Claudio: Ecco, io l’ho conosciuto alla fine degli anni 70. Poi lui mi ha portato a suonare al Folkstudio, e la cosa bella è che lui negli anni 70 mi portò a fare delle serate in una delle prime televisioni private, e poi ogni tanto mi invitava nei suoi concerti, e mi presentava come “il cantautore degli anni 80”. E bella ‘sta cosa qua, l’ha detta anche ieri sera, mi ha chiamato a cantare qualche canzone sul palco, come ospite del suo concerto. E poi è successo che gli anni 80 sono finiti, e lui ha cominciato a presentarmi come “il cantautore degli anni 90” [ridiamo].

Folco: Upgraded, meno male!

Claudio : Poi ci siamo un po’ persi di vista. Adesso ci stiamo rivedendo con frequenza perché lui è tornato a vivere a Milano, e ieri sera mi diceva: ti ho chiamato cantautore degli anni 80, dei 90, adesso come cazzo ti chiamo? Degli anni zero, degli anni dieci? Chissà… l’importante è andare avanti e fare le cose per bene.

Folco: Dicevi dei talent, che sono un format televisivo che funziona benissimo, ma quelli sono casting. Ma poi il belcanto, basta, chi se ne frega del belcanto? I grandi cantautori non hanno mai cantato bene, piuttosto mi devi raccontare una storia, mi devi scrivere una storia. Invece lì non si scrive niente, ci sono questi che cantano, non so se avete visto i provini, senza nemmeno gli strumenti, [fa il verso] ma è vergognoso. La musica è un’arte, bisogna rispettarla. A me non piace questo modo che poi genera anche l’aspettativa che basti andar lì e cantare bene, senza saper scrivere, senza avere nulla da dire…

Massimo: È sparita la scrittura, c’è solo l’interprete…

Folco: E questo per me è deleterio, poi vediamo chi sono quelli che hanno successo, ormai sono dieci anni, ma chi abbiamo trovato? Mengoni? Va bene, canta bene, è un bravo ragazzo, anche simpatico, ma di cosa stiamo parlando? I Pino Daniele, i De Gregori, i Dalla, hanno fatto la fortuna delle discografie. Se non vai a cercare quelli — e di certo non li trovi lì — credo che il futuro sia difficile anche per la discografia. Gli artisti sono quelli che fidelizzano davvero il pubblico, che si innamora di loro e poi piano piano compra anche quell’altro disco e quell’altro ancora, com’è sempre stato. Invece pare che questa regola adesso non valga più, e secondo me è un errore marchiano… stanno sbagliando davvero. Quando moriranno tutti, a chi cazzo diamo il pallino? La musica, la ballata, le storie, queste cose qui, chi ce le ha? Emma?

Claudio: Poi oggi non c’è più il prodotto intorno al quale gira tutto, non c’è il disco…

Folco: Sì, però le canzoni ci sono…

Claudio: Sì, ma noi abbiamo vissuto l’apice del prodotto disco come icona, proprio. E come evento culturale che conta. Adesso quel prodotto non c’è più. Tu, Folco, hai detto una cosa bellissima tempo fa, quando hai fatto Generi di conforto. Mi ricordo che hai detto: il disco sta diventando un sottobicchiere. Però è vero anche che il disco rappresenta, per uno che fa canzoni, soprattutto per uno che fa canzone d’autore, un riferimento essenziale, perché altrimenti non sa dove andare. Come uno scrittore che pubblica il suo romanzo…

Massimo: Sì, perché è un progetto, è una tappa che scandisce un tempo…

Claudio: È un progetto! Una cosa che senti e che fai, e in cui racconti quel tuo momento musicale. Ora è diventato una cosa che riguarda il live, perché fai i concerti e ti vendi il tuo disco, ma di fatto non esistono più negozi di dischi, o quasi. Il prodotto è scomparso. I libri invece ci sono ancora, ma il disco sta attraversando una fase complicata, liquida…

Folco: Però le canzoni, dico, i dischi come storia narrata… viviamo in un’epoca di velocità assurda, le canzoni durano due minuti, il grande hit di Rihanna due minuti e venti in cui tutti cantano e non c’è più musica…

Claudio: Sai Folco, cosa c’è? Che anche per la grande possibilità che ti dà la rete, sta diventando più importante l’idea del contenuto. Cioè, se io avessi scritto “Yesterday” e la portassi da un discografico, questo mi guarderebbe e mi direbbe “che cazzo mi hai portato?”. Perché il pezzo è relativo: quello che conta di più è l’idea che sta dietro al pezzo. Per cui tu hai un’idea forte, un video forte, una spinta sul personaggio, e tutto è marketing…

Folco: Ma l’essere umano ne soffre…

Claudio: Molto! Infatti io sono convinto che prima o poi da qualche parte si debba tornare…

Massimo: Anche la politica funziona così, una buona “narrazione” e una buona confezione…

Claudio: Uguale! Io spero che questa sia una coda. Non ne sono tanto sicuro, però lo spero. Ne parlavamo prima, il fatto che il pubblico faccia fatica a stare concentrato su una cosa per più di un tempo molto limitato, capisci che il mio prossimo disco di chitarra e voce, che dura quarantadue minuti, è una sfida pazzesca per il tempo, è quasi un manifesto, una dichiarazione di guerra… Perché se scrivi una cosa di venti righe è troppo lunga, perché la rete ne richiede cinque. Io sono capace di scrivere abbastanza bene sintetizzando, perché scrivo canzoni. Un po’ come un racconto in confronto a un romanzo, serve una capacità di stringere. Però, cazzo, non è possibile arrivare a un punto per cui la soglia dell’attenzione sta a quindici secondi, e oltre sei fottuto. Ma dove siamo finiti? È uno scollamento bestiale fra la vita e quella che è la percezione della vita, che è la rete, i social… esplodono contraddizioni spaventose. Poi tu sei uno psicologo, insomma, quindi…

Massimo: Guarda, non ci crederai ma io sono uno psicologo che ama i social e ne parla bene!

Claudio: Ma anch’io ne parlo bene! È una risorsa… ma quello che non mi piace è che l’approfondimento e l’attenzione a una cosa che non duri pochi secondi sia diventato un sinonimo di pesantezza.

Massimo: Certo… la rete ti permette di simulare competenze che non hai, anche senza il bisogno di approfondire. Tutti si sentono esperti di qualche cosa.

Claudio: …e la musica soffre di questo!

Folco: Mi viene in mente 2001 Odissea nello Spazio, la scimmia che gioca… noi ci facciamo quelli che hanno capito Internet, sappiamo come utilizzarla, ma è un fenomeno che avrà cosa, vent’anni? Come fenomeno di massa anche meno… Ma se ci fosse un Kubrick che racconta internet, l’immagine della scimmia che impara non sarebbe lontana dalla realtà. Prima o poi smetteremo di usarlo come psichiatria di massa, in cui ciascuno diventa quello che non è, con quella scollatura fra le persone che in Internet scrivono delle cose coraggiose e quelle che poi incontri, che cambiano completamente, non sanno che dire…

Claudio: Io, se posto cinque fotografie di me che passeggio col cane in campagna faccio 250 laic… se pubblico il video di una canzone nuova che ho scritto, ne faccio 28! Allora: chi se ne frega, va bene così. Però è questo, e forse anche le nostre attese rispetto a un certo modo di ragionare sulla musica anche nella rete sono sbagliate…

Massimo: Certo, scrivere in rete comporta conoscere certi meccanismi per farsi seguire e per trattenere l’attenzione delle persone. Ma questo vale per chi scrive un post [non questo, nota del blogger] : se scrivi canzoni non puoi scendere a patti con queste strategie. Puoi pubblicare la foto col cane, per giocare con le regole del mezzo, ma poi la canzone è la canzone…

Claudio: Guarda com’è cambiata la cosa: un cantautore, nel 1975, aveva il problema di fare un disco fatto bene — con una copertina grossa, quando c’era il vinile. Il disco usciva nei negozi di dischi, poi lui faceva i suoi concerti, vendeva i suoi dischi e la radio li trasmetteva. Cioè, era un percorso delineato e visibile. Oggi, boh? Che cazzo fai? Sì, cerchi di entrare in relazione con questo mondo. però poi cos’è che interessa a me, di far vedere che vado in giro col cane? No! A me piacerebbe fare queste cose, essere apprezzato — per quelli che mi apprezzano, poi a chi non gliene frega un cazzo benissimo, anch’io ho cose che non mi piacciono. Però il senso oggi riguarda molto spesso cose che non c’entrano con quello che fai. Allora, tu vai e dici: senti questa canzone, che bella; sì, vabbè, ma però dobbiamo fare un video, qual è l’idea? Ma l’idea, cazzo, è la canzone! Ecco, non c’è più. È finito. Una volta Guccini mi ha detto — era il 1985, la prima volta che andavo al Tenco [imita benissimo Guccini]: “Bravo Sanfilippo, bravo. Vai avanti, perché se io andassi in giro adesso con le mie canzoni per le case discografiche, non mi cagherebbe nessuno.” [risate] Che è la verità! Cioè, ha avuto il coraggio di dirmi una cosa vera! Se De Gregori andasse oggi con “Viva l’Italia”… ho detto una canzone che non mi piace, scegliamone una che mi piace…

Folco: “La donna cannone”…

Claudio: “La donna cannone” probabilmente si perderebbe nel casino che c’è.

Massimo: La canzone deve piacere al primo ascolto, perché difficilmente ce ne sarà un secondo…

Folco: No, i primi venti secondi, direi. Perché già arrivare in fondo…

Claudio: Io compravo un disco, me lo portavo a casa, me lo ascoltavo una, due, tre volte…

Folco: Ma ci sono ancora quelli che fanno così…

Claudio: Sì, che ci sono ancora. Ci sono ancora e ci saranno sempre…

Originally published at massimogiuliani.wordpress.com on August 9, 2016.

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Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.