Intervista a Claudio Sanfilippo (1): “Boxe”, un sogno a mani nude

Massimo Giuliani
RadioTarantula
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19 min readOct 19, 2019

So che sto per fare una dichiarazione molto impegnativa, che potrà sembrare una cosa detta così, d’impulso. Ma, al contrario, ho maturato quest’idea in oltre due anni, da che ho cominciato ad ascoltare di Claudio Sanfilippo, che alla fine del mese sarà finalmente in vendita in cd (e che il 27 ottobre sarà presentato a Spazio Musica di Pavia). Ecco dunque quello che ho da dire, e che posso dire in piena tranquillità: per chi d’ora in poi scriverà una storia dei cantautori italiani (intendo compresi quelli storici, della generazione che precede di poco quella di Sanfilippo) quest’album sarà uno di quelli da cui è obbligatorio passare.
Cosa faccia di “Boxe” un disco così prezioso credo si capirà da questa intervista che abbiamo realizzato in un pomeriggio di settembre 2019.
Per semplificare la lettura è divisa in due parti.
Qui la seconda.

Radio Tarantula: Claudio, nelle note del CD Gian Paolo Serino dice: “Questo non è un disco: è un corpo a corpo con la vita. Claudio Sanfilippo riesce a trasformare in parole e musica su quel ring quotidiano che chiamiamo vita, raccontando di vincitori e vinti che anche quando sembrano definitivamente al tappeto continuano a credere nei loro ‘sogni a mani nude’.”
Mi incuriosisce la metafora della “nobile arte”, nobile e antica come scrivere canzoni per voce e chitarra…

Claudio Sanfilippo: mi piaceva restituire il senso artigianale che c’è nella scrittura di una canzone, che mette insieme parole, melodia, armonia, ritmo, voce, interpretazione, a pensarci bene è un sacco di roba. In Boxe cerco di andare lì con gli ingredienti di base, la voce e la chitarra. La metafora della “nobile arte” è legata al nostro tempo, e un album del genere suona un po’ anacronistico, ma il senso del combattimento è questo. Ci sono posti che sembrano non esistere più, ma non è vero, solo che viviamo nel baccano, c’è un gran rumore di fondo, e tutti facciamo più fatica. È un disco che si chiama fuori, a modo suo. Per questo non sarà disponibile, almeno per un paio d’anni, sulle piattaforme digitali, questo non cambierà alcun destino, ma provo a sparigliare…

RT: C’è una cosa che mi incuriosisce da quando ascolto l’album, l’aver messo in apertura “Boxe” che è in un certo senso, di tutti quanti i pezzi, quello che mi sembra, come si può dire?, più ermetico…

Foto di Renzo Chiesa

CS: “Boxe” è la canzone che ho registrato per ultima e che poi ha dato il titolo al disco. L’ho scritta pensando a mio padre, che era appena mancato, è una versione un po’ azzardata, certo non “canonica”, costruita per immagini immediate…

RT: La canzone è del 2016…

CS: Sì, il disco era già registrato e mixato, chiuso, ma nel frattempo avevo scritto altre due canzoni, che poi sono diventate l’apertura e la chiusura: “Boxe” appunto, che poi ha dato il titolo all’album, e “Piscinin”, che è l’ultima traccia… “Boxe” ha un testo fatto di atmosfere legate alla memoria familiare, ed è l’unico brano che è stato registrato in una chiave diversa rispetto a tutto il resto dell’album, che è tutto per chitarre e voce. Ha una dimensione diversa, c’è una chitarra elettrica trattata in maniera molto particolare. L’ho suonata cercando di ripensarla insieme al suono che usciva dalla chitarra durante le regolazioni di effetti e riverberi. La registrazione che è finita nel disco in realtà è la prova dei volumi che avevo in cuffia, in quel momento non mi passava per la testa di cantarla e suonarla in maniera definitiva…

Rinaldo Donati (da rinaldodonati.com)

È una cosa strana, mi era già capitato in passato di fare esperimenti di questo tipo, mai cercati, sempre estemporanei… Rinaldo Donati, dopo che ho suonato e cantato tutto il brano, mi ha detto “guarda che secondo me ce l’abbiamo, l’hai fatta!”. Io l’ho guardato strabuzzando gli occhi… onestamente non me l’aspettavo; l’altra possibilità era di suonarla in maniera, diciamo, un po’ più tradizionale. Non so se “tradizionale” sia l’aggettivo giusto, diciamo senza quella dimensione sonora peculiare, che è stata un’intuizione di Rinaldo. È una canzone che mette insieme immagini che rimandano a certi sfondi famigliari. C’è quella storia dell’aringa, di cui mio padre era ghiottissimo: nel frigorifero di casa nostra non è mai mancato un vaso che metteva sott’olio preventivamente, prima che uno finisse ce n’era già un altro pronto, conservato in frigorifero. È una canzone legata al “lessico famigliare”.

RT: Il secondo pezzo è “Grandi comici” del 1982.

CS: È una delle prime canzoni che ho scritto e che mi hanno fatto pensare che forse stavo iniziando a scrivere cose migliori. Avevo 22 anni e avevo già un discreto pugno di canzoni. All’inizio è inevitabile che si sentano i tuoi maestri, i tuoi riferimenti. Io ho sempre cercato di trovare una mia dimensione originale, è una di quelle che rappresentano un salto, un passaggio, quando iniziavo ad esprimermi in uno stile sempre più mio.

RT: La suoni con una chitarra speciale…

“Sanfi-Low”. Foto di Lorenzo De Simone

CS: È registrata con la chitarra baritono costruita da Fabio Zontini nel 2012. L’album nasce proprio dall’incontro con Fabio, un liutaio milanese che da vent’anni costruisce i suoi strumenti nell’entroterra ligure di Ponente, a Olle. Quando gli ho proposto di costruire una baritono si è entusiasmato. Fabio non disdegna di sperimentare, anzi, pensa che a Max Manfredi nello stesso periodo ha costruito una chitarra “di cartone”, o “chitarra romantica”. La tavola della baritono è di abete della Val di Fiemme, bellissimo, la botta estetica sono le fasce e il fondo di amaranto. È uno strumento finissimo, così ci è venuta l’idea di testarne la resa in studio, proprio da Rinaldo Donati, e insieme abbiamo deciso di organizzare un concerto in studio, al Maxine. Ho suonato la baritono (ribattezzata “Sanfi-Low”) e altre chitarre (mie, di Rinaldo e un’altra classica sempre di Fabio), in una dimensione di ascolto ideale, per me e per il pubblico che era fatto di una ventina di amici. Poi il giorno dopo ci siamo detti: perché non proviamo a fare più o meno quelle canzoni con la medesima intenzione, ma questa volta senza pubblico, per farne un album solo per chitarre e voce. Boxe è nato così, nel giro di ventiquattro ore, da una bella serata nata intorno all’idea di testare una chitarra.

RT: Incredibile…

CS: Sì, e nell’album la chitarra classica baritono la fa un po’ da protagonista, la suono in sei brani su quattordici.

RT: Canzoni non nate necessariamente su quella chitarra…

CS: Infatti. La chitarra ce l’avevo da tre anni e la stavo suonando tanto, ci avevo scritto già qualche canzone, ma “Grandi comici”, il secondo pezzo dell’album, è di un altro secolo, dei primi anni Ottanta. Però con la chitarra baritono, accordata una quarta sotto, la canto in modo naturale per la mia voce di oggi, che si è molto abbassata e anche un po’ irrochita. Dunque, mentre “Boxe” è uno smarcamento, “Grandi comici” riprende le corde più “tradizionali”.

RT: Ecco, una cosa interessante lungo tutte e quattordici le canzoni è il rapporto, a volte il contrasto, che c’è fra le chitarre e la tua voce. La tua voce è un elemento decisivo di quest’album, nel senso che mi pare canti meglio di quanto tu abbia mai fatto in qualunque altro momento.

CS: Se torno con la mente a quei due pomeriggi in cui ho registrato tutti questi brani, ripenso alla reazione che ho visto negli occhi di Rinaldo, lo conosco bene, non mi direbbe mai cose che non pensa, non ti regala niente, per fortuna. I miei dischi sono quasi tutti registrati lì, ci conosciamo bene. Dopo i primi tre brani, tra cui c’era “Grandi comici”, mi ha detto “vai avanti così, sei in una bolla, non perdere quel feeling “. Mi sono fidato, ormai con Rinaldo c’è un rapporto che non contempla menate, se una cosa si dice, se esce un’idea, si cerca di fare attenzione. In effetti quando mi riascolto credo di aver messo lì una cosa significativa, per me, innanzitutto. Da qui in poi, insomma, dovrò dare dimostrazione di fare almeno bene come in questo album… e non è scontato!

RT: È bellissimo come in certi momenti la tua voce si sposi con la chitarra baritono e in certi momenti contrasti con le Martin che sono più, come dire, squillanti. È uno degli aspetti più belli di tutto quanto.

Foto di Lorenzo De Simone

RT: Sai, si sente che c’è qualcosa di veramente irripetibile in questa registrazione.

CS: Grazie, io sono molto contento di questo disco… in qualche modo anche i pochi amici e musicisti che l’hanno ascoltato mi hanno detto tutti la stessa cosa, e cioè che al di là delle canzoni (de gustibus…) in Boxe è uscito il mio modo di cantare e di suonare. Sono cose che ti danno coraggio, ecco.

RT: E comunque le canzoni ci sono. Non ci dimentichiamo che, insomma, è un disco che non nasce come si fa di solito, da canzoni scritte in un certo periodo finché non arriva il momento di registrarle; nasce da una selezione che tu hai fatto tra le tue canzoni di qualche decennio. Vuol dire che il livello dell’album è sempre altissimo in qualunque momento.

CS: Guarda, sono quattordici canzoni che non sono entrate nei miei dischi precedenti ma che avrebbero potuto farlo, e più di una volta! Alcune di queste le avevo anche abbozzate e provato a registrarle e poi, siccome nel cassetto ne ho un bel po’, alla fine la scelta è stata anche un po’ casuale. Si vede che anche loro aspettavano il momento giusto… Per ogni album mi è capitato diverse volte di dire in corsa “vabbè, facciamo questa” e quell’altra che invece era prevista, restava fuori.

RT: Sono più di trent’anni di canzoni!

CS: Boxe va dal 1981 al 2017, la canzone più vecchia l’ho scritta quando suonavo da quattro/cinque anni, ero un adolescente. Sono 40 anni di strada, milioni di cose sono successe in tutto questo tempo, forse in questo disco ho fatto qualcosa di autobiografico, inconsciamente.

RT: A proposito di altri che hanno cantato le tue canzoni, tornando alla scaletta, la numero tre è “Nuvola rosa” di cui ho scoperto di recente una versione brasiliana, e qui c’entra Rinaldo Donati…

CS: Ci sono due versioni di quella canzone. Ce n’è una di Paola Atzeni, una cantante molto brava che ha fatto un album, intitolato “Dentro”, con sette mie canzoni, arrangiato nel linguaggio del jazz. E poi c’è una versione arrangiata e adattata in portoghese da Rinaldo Donati per un suo disco intitolato “Vagalume”. “Nuvola rosa” è diventata “Bossa na hora”, è una dimensione ancora diversa e molto bella. Le mie invece sono fedeli al momento in cui le ho scritte.

RT: Come mai questa scelta?

CS: Mah, perché sono canzoni che, a parte le più recenti, non suonavo da un po’, e poi perché il senso del disco è proprio quello di andare un po’ alla radice, anche se dopo tanti anni è inevitabile cantarle e suonarle nel mio modo di oggi.

Foto di Renzo Chiesa

RT: “Nuvola rosa” è del 2005.

CS: Eh sì, ha quattordici anni!

RT: Poi c’è “Prigioniero” che è un po’ più recente.

CS: Sì, “Prigioniero” ha quattro o cinque anni. È una di quelle canzoni che mi piace tanto suonare. L’ho registrata con la mia Martin D18, la mia vecchia compagna del ‘71.

RT: Si sente la tua pratica di fingerpicking e poi, è vero, ci sono degli slanci che si allontanano dagli stili più tradizionali.

RT: Hai fatto riferimento al testo; ecco, quello che stavo pensando è che una delle ragioni per cui questo disco si può ascoltare per tanto tempo e sentirlo sempre diverso, è che, come dire, c’è qualcosa nei testi che ti permette ogni volta di metterci qualcosa dentro. Cioè mi pare che i tuoi testi, e quelli raccolti qui in particolare, abbiano qualcosa di onirico e un grado di indefinitezza che lascia un margine di libertà amplissimo a chi ascolta.

CS: Mi fa piacere sentirtelo dire perché la mia intenzione è quella, io non ho mai scritto una canzone pensando a un tema preciso, a un messaggio. So da dove parto e non so dove finisco. Mi piacciono le immagini che lasciano la libertà di volarci dentro, in maniera inconsapevole applico quella cosa lì. In effetti questo disco è pieno di immagini di quel genere. Per capirci, io cerco di portarti in un posto e poi ti dico: beh, adesso però il giro te lo fai tu, per conto tuo, io me lo sono fatto quando l’ho scritto (ridiamo) e adesso se ti piace e ti lasci andare magari ci puoi trovare gli spazi e le storie tue, come capita a me quando ascolto una cosa che mi tira dentro.

RT: Questo mi pare un elemento che ti caratterizza nell’ambito del cantautorato diciamo classico, il fatto che tu spingi molto il pedale sugli aspetti più metaforici di quel linguaggio che viene da Dylan in poi.

CS: Sì, forse hai ragione.

RT: Metafore, immagini, appunto.

RT: Sì, pensavo proprio a De Gregori quando dicevo che tu hai calcato la mano in maniera ancora più decisa in quella direzione. Mi pare che quello sia rimasto il tuo modo di scrivere, mentre poi De Gregori, come dire, ha cercato di essere anche più aderente alla realtà…

RT: Quello che dici mi sembra riguardare da vicino anche la canzone successiva. Devo dirti che è la prima che mi ha veramente preso, è “Il falco”

CS: …”Il falco” l’ho scritta in Sardegna nel 1997 pensando a Sergio Atzeni (nessuna parentela con Paola), un autore che ha scritto pochi libri e che è scomparso nel 1995 a soli 43 anni. Sergio Atzeni annegò in una zona scogliera dalle parti di Carloforte. Avevo letto qualche mese prima “L’apologo del giudice bandito”, pubblicato da Sellerio, molto bello. Casualmente mi ero ritrovato proprio davanti a quel posto, tra l’altro meraviglioso, e la sera, sotto il portico all’aperto della casa che avevamo affittato, ho scritto questo tango.

RT: è una canzone incredibile, è veramente molto ispirata. Anche questa mai uscita prima…

CS: Esatto. È una delle preferite di mia moglie Roberta.

Foto di Max Fortuna

RT: Anch’io la considero una delle tue più belle, davvero.

CS: Ti ringrazio.

RT: E poi Paola Atzeni ha cantato anche la numero 6, che è “Memoria”: qui in una versione molto differente dalla sua.

CS: Sì, la mia è una versione fedele a come l’ho scritta, che ho deciso di suonare con una chitarra elettrica, una Fender Stratocaster pazzesca… C’è un suono bellissimo in quel pezzo.

RT: Anche come tema secondo me è una canzone molto peculiare.

CS: Pensa che io ho un amico che ascoltando quella canzone aveva addirittura pensato che fosse dedicata alla Shoah!

RT: Ah, per via della memoria…

CS: Sì, ma onestamente non ho minimamente pensato a quello quando l’ho scritta. Ora si parla molto delle tecnologie che riguardano la “realtà aumentata”, e va bene. Ma la realtà aumentata è nella natura di qualsiasi espressione artistica, nasce insieme all’arte, non c’è realtà aumentata più ricca di quella che sviluppiamo quando entriamo in sintonia con un quadro, una poesia, una canzone, una fotografia. Nessuna tecnologia può competere con l’immaginazione. Infatti…

RT: Io l’ho sentita come una canzone appunto sulla memoria, sul ricordare e su come noi ci costruiamo nel ricordare…

CS: È così, è una canzone in cui ho cercato di dire quello che sentivo sul mio rapporto con la memoria e con la scrittura, alla fine…

RT: In questo senso ti dicevo che come tema è peculiare, l’ho trovata quasi filosofica, diciamo… Ha a che fare col modo in cui gli artisti colgono certi aspetti della vita prima e meglio delle discipline che li studiano…

CS: Di sicuro riflette un mio modo di vedere le cose. Qualcuno aveva detto che l’artista risponde a delle domande non dette, quindi ogni volta si inventa una risposta evocando una domanda: ecco, questa è una canzone di quel tipo.

RT: Visto che hai citato la Fender: io ho ascoltato per la prima volta queste canzoni dopo che una sera mi hai fatto l’elenco di tutte le chitarre che possiedi e che hai posseduto…

CS: La chitarra che ho suonato in “Memoria” purtroppo non è mia, è di Rinaldo… io ho una bella semiacustica hollowbody che mi ero portato in studio, una Gretsch replica del ’58, ma alla fine abbiamo scelto il suono di questa Strato del 2013, replica di una Melon Candy del ’56. Io non sono un chitarrista elettrico, ma è un mondo che mi attira sempre di più, e tante mie canzoni si sposano bene con il suono dell’elettrica. Infatti per i concerti di Boxe vorrei portare sul palco la classica baritono, l’acustica e l’elettrica.

RT: Peraltro anche in una nostra conversazione precedente avevamo parlato a lungo di chitarre e una delle cose che ho pensato ascoltando questi brani è che questo disco poi, al di là di tutto, oltre ad essere una summa delle tue cose eccetera, è una grandissima dichiarazione d’amore per la chitarra.

CS: È proprio come dici. Io poi amo la chitarra tout court, non ho una particolare predilezione per un genere. Mi piacciono le classiche, mi piacciono le elettriche, mi piacciono le acustiche, mi piacciono le varianti meno conosciute, come la baritono. Poi vabbè, nelle acustiche c’è modo di sbizzarrirsi di più, il mondo della chitarra classica è un mondo più statico. Nelle chitarre acustiche si gode di più per via del fatto che ci sono tante forme, tipi di corde, legni, le chitarre classiche sono più codificate, ma anche lì trovi comunque differenze decisive… e si, questo è un disco dedicato proprio alla chitarra. Aspetta, c’era quella cosa di Vinicus de Moraes che chiudeva dicendo che “la chitarra è l’unico strumento in grado di capire la Luna”…

RT: Bellissimo! Andiamo avanti. Poi c’è “Gli occhi degli animali”, anche questa piena di immagini bellissime.

CS: Anche questa è più recente, del 2011, è dedicata alla Robi, perché lei da sempre ha questa cosa, soprattutto nelle sere d’estate, di giocare con le luci notturne, i puntini accesi di case sulla collina, le lampare, per trovarci dentro le sagome degli animali. È un gioco che poi ho fatto anch’io, se alleni lo sguardo ci trovi il muso di un leone o di un uccello. Infatti dice “gli occhi degli animali sono luci nella montagna” … è una canzone d’amore che nasce da questa piccola cosa.

RT: È uno dei momenti del disco più vicini alla chitarra americana fingerpicking.

CS: È proprio fingerpicking classico, sì, un mondo che mi ha conquistato fin da quando ero ragazzo… ho sempre usato poco il plettro, non lo uso quasi più, anche nello strumming faccio tutto con le dita.

RT: Ma cos’è che succede quando scrivi, cioè, c’è un testo e ad un certo punto senti che risponde in maniera particolare a una delle tue due anime, diciamo quella americana e quella brasiliana? Com’è che…

CS: Mah, succede che io ho le mie chitarre qua, ne prendo in mano una perché in quel momento va così, magari mi gira dentro qualcosa, capisco che quel mondo sonoro si adatta a quello che sta nascendo e vado avanti. Può anche capitare di iniziare a scrivere sulla chitarra classica per poi andare verso le corde di metallo, e allora magari si cambia in corsa. Oppure se sono in un momento in cui non posso fare rumore, magari è notte, allora prendo la chitarra elettrica non amplificata e scrivo con quella, a volumi sussurrati. Dipende dal momento, magari prendi in mano la chitarra più vicina perché non hai voglia di alzarti…

RT: Cioè è un processo che ha molto a che fare con la casualità e, come si dice, con la serendipity

CS: Ah certo, è proprio quella cosa lì. Domani parto per una decina di giorni di vacanza all’isola d’Elba, con una chitarra acustica. Se poi mi viene una cosa da chitarra classica chi se ne frega, la scrivo sulla chitarra acustica, ma so già che per l’esecuzione finale finirò tra le corde di nylon. Quello di avere tante chitarre, alcune molto belle, è un privilegio, ma per scrivere servono sempre sei corde, se c’è l’ispirazione qualsiasi chitarra va bene, anche la più sgrausa.

RT: Tra l’altro ti ho visto in serate in cui avevi soltanto la Martin 00028 e rispondeva benissimo a tutte le esigenze…

Foto di Lorenzo De Simone

CS: Eh, quella è una chitarra molto versatile, ideale per il fingerpicking, ma con quella posso anche suonare in chiave più brasiliana, da chitarra classica. Meglio di quanto non faccia la Martin D18, anche perché il manico della 00028 è simile a quello di una classica.

RT: Dicevamo di “Gli occhi degli animali”…

CS: Ecco, anche questa è inedita ma dal vivo l’ho cantata parecchie volte. Di tutto questo disco è forse, insieme a “Piscinin” quella che più rimanda alle corde di metallo, alla chitarra acustica…

RT: …e poi c’è “Come una storia vera” e si ritorna invece in quell’altro mondo…

CS: “Come una storia vera”, come “Grandi comici”, è una canzone di quel periodo primi anni Ottanta, quel momento di passaggio. Quando l’ho scritta ho pensato: vuoi vedere che sono diventato più bravo? Parlo soprattutto della parte armonica … L’ho lasciata nel cassetto per più di 30 anni, l’ho ripresa così come l’avevo lasciata, però anche questa l’ho suonata con la baritono.

RT: Come mai era rimasta da parte per tanto tempo?

RT: È molto ricca e complessa.

CS: C’è un Brasile che non è proprio quello della bossanova. Pensa a Milton Nascimento, Ivan Lins, Guinga o Egberto Gismonti. Fanno cose diversissime tra loro, eppure c’è quello sfondo che li accomuna.

RT: Chi sono i tuoi riferimenti in quella direzione?

CS: Beh, sono soprattutto tre. Dal punto di vista compositivo Jobim, che per me è come Mozart. Dal punto di vista della scrittura dei testi Vinicius De Moraes, un gigante. Per l’esecuzione Joao Gilberto, che dà la sensazione di essere lì vicino a te, nella stessa stanza. E c’è questo dettaglio, che è il leggero ritardo con cui canta ogni strofa. Al contrario nella musica angloamericana, soprattutto nel bluegrass, la voce ha un leggero anticipo. Sono cose impercettibili ma che danno senso al groove…

RT: Questo è fantastico, ci farò caso di più adesso. Ma che mi dici della tua formazione come chitarrista? Ti ho sentito dire che il tuo insegnante fu Marco Ferradini…

CS: Certo, il mio primissimo, quello con cui ho iniziato, è stato Marco Ferradini, che allora non era ancora noto come cantante. Io avevo sedici anni, lui ventitré o ventiquattro, forse venticinque. Scriveva già alcune canzoni, ricordo che me le fece sentire alla fine di una lezione. Cantava benissimo, suonava molto bene.

RT: Anche lui viene dagli americani…

RT: E invece per la chitarra brasiliana?

CS: Quella viene dopo. All’inizio i miei riferimenti c’entravano poco col Brasile, anzi nulla. Erano alcuni cantautori italiani, in particolare De André ma anche il primo De Gregori. E poi c’erano Dylan e Cohen su tutti, e C.S.N.Y. Parliamo proprio dei miei inizi, quando imparavo cercando di trascrivere le canzoni dai dischi, a volte semplificando, provando a suonarci sopra. La bossa è arrivata dopo, quando mi sono avvicinato al jazz, intorno ai 18 anni.

RT: Quali furono i primi passi?

CS: Mi ricordo Meus caros amigos di Chico Buarque dove c’è “O que serà” che è proprio della fine degli anni ’70, un disco bellissimo. Ma anche La voglia, la pazzia… della Vanoni con Vinicius e Toquinho, Terra Brasilis di Jobim, dove ho scoperto Claus Ogerman e quel modo di arrangiare gli archi. lì. Un mix di tante cose. Da ragazzo mi capitava di andare a sentire Charlie Mingus e David Bromberg nella stessa settimana al Palalido… Sono stato sempre un onnivoro, non sono mai stato uno specialista io…

RT: Sto cercando di ricordare qual era quel pezzo di questo disco di cui in un Natale recente hai pubblicato un frammento strumentale in video su Facebook…

CS: “L’angelo”.

RT: Ecco, pensavo che anche senza parole era un pezzo di chitarra fantastico, che secondo me dava la polvere alla metà dei chitarristi acustici che vanno forte adesso…

CS: Troppo buono…

RT: No, davvero. E ti volevo domandare se hai mai pensato a fare come Bruce Cockburn per esempio, è un grande cantautore che si concede dei momenti strumentali come chitarrista…

CS: Ci ho pensato, però devo ancora lavorarci. Alcuni di questi sono brani non facilissimi da eseguire, il caso di questa canzone è diverso, perché l’ho cantata e suonata milioni di volte, ce l’ho fra le dita. Lì ritorna un certo mondo di fingerpicking in accordatura aperta, se ricordo bene in tonalità di Re. Sì, chitarristicamente può esserci qualcosa d’interessante, è possibile.

RT: Stavo pensando a un nostro comune amico che dice che un pezzo prima di uscire dal vivo ha bisogno di alcuni anni di lavoro…

CS: Credo che il comune amico, a parte lo solite eccezioni, abbia ragione, e per me vale ancora di più per i pezzi strumentali… Io sono diventato bravino con la chitarra negli anni, suonando tanto, sono sempre stato decoroso. Ma le mie capacità chitarristiche continuo a misurarle per le canzoni, è la cosa che mi interessa di più, non ho il sogno di andare in concerto solo con brani strumentali.

Foto di Lorenzo De Simone

RT: Ci sono i cantanti che con la chitarra si accompagnano e quelli che la suonano, con vari gradi di competenza…

CS: Esatto, e io ho sempre avuto l’idea di suonarla proprio, di migliorare. Però dall’essere bravo ad accompagnarti ad essere bravo a suonare pezzi solo strumentali la strada è lunga, ci vuole molta confidenza…

RT: Adesso tocca a “Il capitano”

CS: “Il capitano” è ancora di quel periodo, primi Ottanta, per venire a quello che si diceva prima su “Grandi comici” e “Come una storia vera”, stavo facendo quel salto di qualità. Tra l’81-’82 e l’84-’85 ho iniziato a scrivere canzoni più mature, con uno stile più preciso e più mio, e “Il capitano” è una di queste. In quegli anni andavo spesso a vela sulla barca del mio amico Marco e questa è dedicata a quella storia, con dentro tante cose autobiografiche.

RT: Mi domandavo se non ci fossero anche riferimenti letterari, pensavo ai grandi romanzi di mare…

CS: Non precisi, però era un periodo in cui leggevo anche cose di marineria tradizionale. Mi ricordo un libro che mi aveva suggerito proprio Marco, edito da Mursia, “Sulle rotte della Serenissima”. In quel periodo andavamo spesso sulle coste dalmate (parliamo della ex Jugoslavia, ai tempi di Tito), insomma tutte quelle zone lì, e quel libro era pieno di riferimenti letterari e simbolici, qualcosa deve essermi rimasto impigliato…

[Grazie a Marisa per la trascrizione. Qui la seconda parte dell’intervista]

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Massimo Giuliani
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La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.