La vera storia di “Streets of London”

Ma anche del suo autore, e soprattutto delle circostanze che resero possibili certi avvenimenti.

Massimo Giuliani
RadioTarantula

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Prologo: “Tempi duri se porti i capelli lunghi”

Non che John Sleep, di ritorno dopo la fine dell’università, si aspettasse di ritrovare un ambiente particolarmente favorevole. C’era qualche ragione se Wizz Jones, uno dei folksinger più noti in quell’angolo di Cornovaglia, cantava “Tempi duri a Newquay, se porti i capelli lunghi…”.
Basti sapere che il District Council aveva ufficialmente intimato ai commercianti e ai gestori di bar della zona di non servire più quel manipolo di beatnik con la chitarra che guastavano il panorama ai turisti nell’area fra Newquay e Mitchell. E aveva aggiunto che sarebbe stato apprezzato che nessuno di quei degenerati trovasse ancora lavoro come lavapiatti negli hotel.

Decisamente non correva buon sangue tra la gente del luogo — o almeno le autorità — e la nuova cultura che si faceva strada in quegli anni; ma intanto erano nati qua e là dei locali e nell’area si era costituito un giro di artisti colto e vivace. E John Sleep, sebbene si sentisse sollevato per aver terminato gli studi, anche una volta iniziato a lavorare come insegnante di chimica proprio non intendeva smettere di suonare e studiare le canzoni tradizionali che aveva scoperto negli anni in cui era stato lontano.
A Botallack, un villaggio di minatori a poco più di trenta miglia, sulla punta estrema della penisola, c’era il Count House Folk Club. Cominciò a frequentarlo tutte le volte che poteva.

In poco tempo aveva trovato un ingaggio stabile sul palco del locale insieme a John Hayday. Nel corso di una delle serate al locale conobbero John Langford, un cantante del posto che tutti conoscevano come “ John The Fish”, per via del suo passato di pescatore.
Tutti e tre si ritrovarono una sera in un casolare di un certo Willoughby Gulachson, amico di John The Fish. Parlavano del fatto che Sleep e Hayday cominciavano ad averne abbastanza di tutto quel tempo passato a guidare da Newquay e Botallack dopo una giornata di lavoro.
Willoughby sembrava pensoso: “Vi va di vedere una cosa?”
Lo seguirono. Alcuni passi e arrivarono al vecchio edificio che era servito a lungo da alloggio per gli operai della fattoria. Spinse energicamente la porta e fece strada. Da molto tempo lì non entrava nessuno, e al buio si fecero largo fra utensili rotti, oggetti accumulati negli anni e ragnatele.
“Per quanto mi riguarda possiamo usarlo”, annunciò Willoughby mentre tutti si guardavano intorno.
Il posto era in uno stato di abbandono, ma ci si poteva lavorare, e per i tre John questo era l’ultimo dei problemi. Quello che entusiasmava soprattutto Sleep e Hayday, poi, è che era a due passi da Newquay!

Da kernowbeat.co.uk

Passarono il resto della notte ad abbozzare il progetto. Immaginavano quel posto illuminato da una luce tenue, ripulito e popolato di gente che suonava, parlava di musica e beveva tè o birra.
Il piano terra sembrava fatto apposta per diventare un bar; al piano di sopra riuscivano a vedere la sala per la musica dal vivo. C’era bisogno di una scala per arrivarci, ma John Sleep aveva una certa pratica e non ci pensò un attimo per offrirsi di costruirla.
John Hayday, accendendo un fiammifero dopo l’altro, misurava coi passi le dimensioni dell’ambiente: calcolò che, con un palco non grandissimo, potevano starci anche un centinaio di spettatori. Davvero un bel po’ di gente da mettere lì dentro: così una scala esterna avrebbe garantito che nessuno fosse in pericolo. Bisognava essere abbastanza avveduti da non offrire al Council un pretesto per mettersi di traverso.
Il gabinetto avrebbe trovato posto appena fuori, e in qualche modo l’avrebbero dotato di un canale di evacuazione. Non proprio una cosa di lusso, ma era tutto quello di cui c’era bisogno.

Nel 1963 il Folk Cottage era pronto ad ospitare due session ogni venerdì sera, per cominciare. Il palco aveva alle spalle una parete su cui era dipinto un profilo di donna. Sugli altri lati era circondato a dalle sedie per il pubblico, che si faceva più numeroso alla session della tarda sera, quando arrivavano gli operai di Newquay che staccavano dalla fabbrica per il week end.

Un busker che amava il blues

Ralph May e Nanna Stein vivevano in un caravan.
Ralph aveva realizzato nel 1962 il sogno di partire dal Kent con la chitarra e girare l’Europa. Ci aveva provato anche prima a seguire il richiamo del viaggio: a quindici anni aveva lasciato la scuola per unirsi al Battaglione giovanile del Reggimento del Surrey; era tornato a casa qualche mese dopo, scegliendo gli studi ma soprattutto la chitarra, la musica di Robert Johnson, Reverend Gary Davis e Blind Blake. La passione per il blues gli veniva dal nonno, da cui aveva avuto in regalo anni prima un’armonica. Poco più di un giocattolo, ma da allora aveva imparato l’ukulele e ora si stava dedicando alla chitarra. Cosa c’entravano il battaglione, il reggimento e tutto il resto?

Wizz Jones, 1964

Nanna era norvegese e aveva studiato a Parigi. Lì si erano conosciuti nel 1966 e si erano piaciuti subito, tanto che ben presto erano partiti per la Cornovaglia con l’intenzione di sposarsi quanto prima. Ralph suonava nei club ed era diventato molto amico di Wizz Jones, col quale si esibiva nel circuito folk della regione. Fu Wizz a portarlo a suonare al Cottage.
“Solo, c’è un problema”, gli aveva detto Wizz. “Ti ci vuole un cognome vero.”
“Come vero? Cos’ha May che non va?”
“Non è un cognome da bluesman. Immaginalo sulle locandine. Chi vuoi che prenda sul serio uno che suona Jesse Fuller con quel cognome?”.
“Uhm… un cognome da bluesman? Vuoi dire una cosa come Robert Johnson? Tipo Ralph Johnson?”
“Come no, o magari Reverend Ralph Davis… No, senti qua piuttosto: Mc Tell! Come Blind Willie McTell. Senti come suona bene?”
“Uhm… McTell. Ralph McTell… Ralph McTell… ‘Salve, come ti chiami?’ ‘Ralph McTell, piacere’. Devo pensarci.”

Ralph ebbe presto un ingaggio fisso al Cottage. Si parlava di lui come di un promettente inteprete del blues tradizionale. Onorava ogni sera quel cognome con una grande padronanza dello strumento e con uno stile che maturava nel tempo.
Di lui si parlava anche come dell’autore di un pugno di canzoni di buona fattura, fra cui una sugli emarginati della grande città. L’aveva scritta durante la permanenza in Francia e l’aveva chiamata Streets of Paris.
“Ti piace?” aveva domandato una volta a John The Fish.
“Non è male”, aveva risposto lui.
“Beh, se ti va di suonarla mi fa piacere. Puoi farlo se vuoi”.
“Oh, beh, grazie…” The Fish era sembrato imbarazzato. “Ma è che… bella è bella, sì, ma è un po’…”
“…un po’…?”
“…un po’ triste. Non trovi che sia un po’ troppo malinconica? Ma poi… come ti è saltato in mente di scrivere una canzone su Parigi?”
Ci avevano riso su. Ralph aveva celato il proprio disappunto, ma la verità era che The Fish l’aveva ferito.
La canzone era ancora migliorabile, era anche piuttosto corta e in cuor suo Ralph non ne era ancora proprio soddisfatto. Ma c’era un altro cantante, non giovanissimo, che si era fatto notare al Folk Festival di Cambridge nel 1965, che aveva mostrato di apprezzarla. Si chiamava Derek Brimstone e veniva da Londra.
Ralph gliel’aveva scritta su un pacchetto di sigarette. Lo ritrovò qualche tempo dopo.
“Ralph”, gli disse Derek. “Ti ho cercato più volte per dirtelo. Non ho mai visto la gente emozionarsi tanto per una canzone. Cantala, Ralph. Bisogna proprio che te la riprenda e che la porti in giro tu”.

Ralph Mctell, Mick Bennet, Wizz Jones, Pete Stanley e John Sleep (1967).
Dal sito di Wizz Jones, wizzjones.com

Ralph si riprende la propria canzone

L’effetto combinato del rifiuto di The Fish e dell’incoraggiamento di Derek fu quello di una specie di illuminazione. Ralph cominciò a pensare a quella canzone come a una creatura di cui essere orgoglioso, ma che aveva ancora bisogno di tante cure per crescere. Aveva come l’impressione che l’incitazione di Derek a “riprendersi” la sua canzone potesse avere un senso molto più profondo di quanto non sembrasse.
Cominciò a vedere che in quei versi qualcosa restava indefinito, sfumato. Più accennato che mostrato, come se fosse inquadrato da lontano.
Come mai aveva cantato di Parigi, quando avrebbe potuto raccontare la realtà che conosceva bene? Eppure quando pensava a quella canzone aveva in mente la solitudine che incontrava ogni giorno, la povertà che lo interpellava direttamente ogni volta che la incrociava. Realizzò che i poveri che aveva in mente quando cantava quelle strofe erano gli homeless inglesi, quelli che conosceva da vicino perché li sfiorava agli angoli delle strade.
Cambiò il titolo. Ci lavorò tutta la notte, ma sentiva che aveva rotto lo schermo che gli aveva impedito di vedere il cuore della questione: ora poteva — doveva — spingersi oltre. Stava raccontando una storia che conosceva bene, e doveva farlo da testimone partecipe, senza troppe cautele.
Aggiunse anche una strofa su un vecchio soldato della Marina che fa la coda alla porta della Seamen Mission, un uomo dai ricordi più consumati dei nastri delle medaglie che ha in petto.
Ora era perfetta, era finalmente come doveva essere. Ora sì, se ne era davvero riappropriato.

Il 1967, anno di nascita di Sam, il primo figlio di Ralph e Nanna, fu anche l’anno del primo album del cantautore, Eight Frames a Second. Usciva per l’etichetta indipendente Transatlantic, una compagnia di primo piano nel folk inglese. Ma no, Streets of London su quell’album non ci sarebbe stata. Il produttore Gus Dudgeon era stato piuttosto perentorio, probabilmente preoccupato per l’equilibrio fragile di un album di debutto che alternava canzoni nostalgiche (fra cui una, molto tenera, che Ralph aveva scritto per Nanna) a dei blues nello stile di Gary Davis e Blind Blake. Facevano da contrappeso due brani dal testo puttosto surreale. Una canzone dal tema così universale avrebbe spostato l’asse di un album sostanzialmente intimistico, oltre a calcare definitivamente la mano sui toni cupi.

Ma per fortuna il primo album vendette abbastanza da rendere possibile il secondo. Nel 1969 vide la luce “Spiral Staircase”, e con esso finalmente Streets of London, che anzi ne è il brano d’apertura.
Anche questo secondo disco è figlio di quella stagione in Cornovaglia, in cui la scrittura di McTell — per usare le sue stesse parole — aveva già imboccato le due strade che sarebbero divenute abituali: da una parte l’esplorazione del blues e della musica delle ; dall’altra la contemplazione nostalgica dei ricordi del passato e dell’infanzia.

Dalla copertina di “Spiral Staircase”

Quando l’album fu pubblicato, Streets of London aveva appena avuto il suo battesimo radiofonico alla BBC nello show Country meets Folk.
Su “Spiral Staircase” uscì in una versione davvero notevole. Cominciava come una specie di ragtime, suonato con un complicato ma lento stile clawhammer — come spiega lo stesso McTell in occasione della pubblicazione della prima trascrizione per chitarra, da lui curata e approvata nel 1984. Un arpeggio irregolare e solo apparentemente casuale, che coglie le note giuste per far emergere una linea melodica che assomiglia da vicino a quella del cantato. Un piccolo gioiello di arrangiamento fingerpicking.
La canzone, inoltre, ricalcava — e chissà se l’autore ne era consapevole — uno schema armonico antico e sedimentato nella memoria di tutti: la progressione degli accordi è quella che, da quando Pachelbel compose il Canone in Re maggiore nel 1680, è la base di innumerevoli composizioni — e, nel Novecento, di innumerevoli canzoni folk, rock e pop.
Tutti questi pezzi di memoria erano rielaborati e amalgamati in Streets of London con grande maestria e originalità.

Oltre le aspettative

Nel 1974 la Warner chiese a McTell di reincidere la canzone per un singolo. Ora che quella “canzone triste” si era tolta qualche soddifazione, i tizi ai piani alti di una major vedevano in essa la possibilità di un vero successo commerciale. Ci avevano preso, e forse la scommessa non era poi nemmeno così difficile. La nuova versione, un po’ più arrangiata e forse un po’ meno affascinante dell’originale, sarebbe arrivata a vendere 90.000 copie al giorno per parecchie settimane e, oltre a conquistare l’”Ivor Novello Songwriting Award”, avrebbe fatto di Ralph McTell un volto popolare per il pubblico della televisione.
Ancora oggi, se siete a Londra, può capitarvi di ascoltare la sua canzone in qualche angolo della metropolitana, rifatta da qualche chitarrista di passaggio.

Probabilmente ogni canzone che ha un successo del genere diventa per il suo artefice una presenza benedetta e ingombrante insieme. In questo caso l’autore ha sempre mostrato di conviverci con un affetto mai logorato, ma c’è una gag irresistibile da uno show della BBC in cui un esausto Ralph McTell — interpretato dal comico Kevin Eldon — finisce per cedere a un pubblico che non vuole ascoltare altro che l’ennesima interpretazione di quel brano.

Ovviamente non si contano le cover di artisti folk come Liam Clancy e di cantanti pop che però a quel giro non sono completamente estranei, come Sinead O’ Connor. Ma anche di interpreti quanto mai distanti dal mondo di McTell, che infatti restituiscono una canzone travisata. Blackmore’s Night ne fa una versione dolciastra, sognante e del tutto priva di dolore. Meglio allora la versione punk che ne fecero gli Anti-Nowhere League per l’album di debutto.
Tocca segnalare poi, almeno per la curiosità che rappresenta, Rappers against Racism, in un EP con cinque versioni della canzone a uso delle radio e dei dj.

Oggi McTell ha più di cinquant’anni di carriera — e altrettanti di matrimonio, con quattro figli e dodici nipoti, alcuni musicisti e altri no. Ha un repertorio di quasi trenta album in studio che va dal folk alla canzone al blues tradizionale e almeno una canzone che lo ha proiettato fra le star.
Nel 2017 torna a reincidere Streets of London in una versione un po’ più pop con il Crisis Choir e Annie Lennox, per una iniziativa benefica a favore dei senzatetto di Londra. Ma la sua attività preferita da un po’ di anni è fare dischi e tournée con Wizz Jones, l’amico di allora e di sempre. Che peraltro in età matura, dopo una bella carriera, ha raccolto qualche supplemento inatteso di gloria. Prima Keith Richards, nella propria autobiografia, parla di lui come un modello e un vero precursore dal quale addirittura avrebbe imparato Cocaine. Poi Bruce Springsteen apre un concerto all’Olympiastadion di Berlino con un omaggio a Wizz: rifà When I Leave Berlin e la rende gioiosa e trascinante come sa fare lui. Qualche giorno dopo il video della cover è su Youtube, sul canale ufficiale del Boss.
Un paio di riconoscimenti del genere, direttamente dalla cima dell’Olimpo, bastano perché centinaia di migliaia di fan potenziali un attimo dopo parlino di te e si scambino notizie trovate in rete sulla tua esistenza e sui dischi che hai pubblicato.

Non sarà come gli anni dell’innocenza in Cornovaglia, e forse avere una hit in classifica o fra i video più cliccati è una sicurezza che, quando si è un po’ più grandi, è saggio non sottovalutare. Ma usare quella sicurezza per andarsene per club a cantare Woody Guthrie cinquant’anni dopo, forse è davvero la versione adulta di quel sogno di libertà.

Per i fatti storici ho consultato: www.ralphmctell.co.uk, kernowbeat.co.uk, bettyloumusic.com, www.bbc.co.uk, ma segnalo soprattutto www.weatherthestorm.it, un sito molto ricco di un appassionato italiano; e infine il libro “The Guitar and Songs of Ralph McTell”, Misty River Music ltd, 1984.
Dialoghi, motivazioni e moti del cuore, invece, sono mie ipotesi.
Grazie ad Alice per il supporto nella traduzione di alcune fonti.
Grazie a Maura Tomei e a Ronnie Bonomelli, banjoisti, per le chiacchierate sullo stile clawhammer.

Originally published at http://www.radiotarantula.net on September 7, 2018.

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Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.