“Per chi bestemmia le parole”: a sorpresa, un nuovo Gianmaria Testa

Massimo Giuliani
RadioTarantula
Published in
4 min readJan 23, 2019

Fra i generi musicali la canzone d’autore (che cacchio di etichetta, già: esistono canzoni che non abbiano un autore, anche ignoto, anche molteplice?) è una categoria dai confini sfumati, che se chiedi di definirla non è possibile, ma se non lo chiedi uno sa molto bene dove trovarla. Quando pensi di aver identificato delle coordinate, scopri che qualcuno resta fuori (la chitarra, gli americani, i francesi, magari i brasiliani… sì, eccola! Uhm: e allora Dalla, per esempio?) e devi ricominciare tutto da capo. Tutto questo per dire che non spenderò una parola per spiegare di cosa stiamo parlando. Do per scontato che ci capiamo.

Ecco, con un — diciamo — rappresentante di quella canzone d’autore mi sono trovato più volte, ultimamente, a parlare di come il mercato musicale oggi abbia espulso quella piccola e antica forma di artigianato che consiste nell’intrecciare parole e chitarre in una creazione che non si presti a essere consumata in fretta e che non si imponga al pubblico per ragioni extramusicali. Sembra non ci sia più bisogno di quelle chitarre e di quei pianoforti, di quelle voci, di quelle canzoni e di quel modo di stare sul palco.

Eppure gennaio ci porta, senza un’urgenza evidente dal momento che l’autore non è più fra noi, quest’album di Gianmaria Testa. Undici registrazioni praticamente casalinghe che la moglie Paola Farinetti ha reso pubbliche dopo aver deciso che andavano consegnate al pubblico così: scarne, acustiche, persino un po’ grezze a volte, ripulite quanto basta per renderle adatte all’ascolto (un lavoro complicato dell’ingegnere del suono Roberto Barillari: immaginate delle tracce uniche, voce e strumenti, registrate con uno aggeggio che la curatrice definisce “poco più che un iPhone”). Niente sovraincisioni, nessun intervento che mutasse la sostanza contenuta in quei file.

Praticamente il dilemma davanti al quale si è trovata Paola Farinetti (che racconta qui tutta la storia) era quello fra due tradimenti: rendere pubblico del materiale che non era stato pensato per essere pubblicato, o dare a quelle canzoni un abito migliore, che però non sarebbe stato quello scelto dall’autore?
Molte ragioni fanno dire che ha fatto la scelta giusta.

Ci prende in controtempo, “Prezioso”, noi che da tre anni facevamo i conti con l’assenza di Gianmaria Testa. Ci prende in controtempo pensare che in questi tempi ingrati per le canzoni un cantautore sia ancora così necessario da farsi ascoltare persino oltre la sua esistenza in questo mondo.

È peraltro plausibile che l’incomprensione fra i cantautori e questo periodo storico sia reciproca. C’è un capitolo in quest’album, che è Postmoderno rock, che secondo me è l’unico che non brilla: una dichiarazione di sfiducia verso la modernità, che non riesce ad elevarsi al di sopra della caricatura — gustosa, eh — dove quella modernità è una serie di gramellinici luoghi comuni su algoritmi, feisbùc, selfie e photoshop.
E però, al di sopra di tutto, c’è la dolente Povero tempo nostro, che invoca il vento e la tempesta contro chi “bestemmia le parole” e che non per caso viene messa in apertura della raccolta. E c’è Merica Merica (l’aveva cantata anche Caetano Veloso), con la chitarra resofonica e l’armonica che accompagna i versi cantati da Testa e la voce di Giuseppe Battiston che legge senza retorica le parole di migranti italiani indirizzate alle famiglie lontane. Storie di un passato distante che tornano a parlare dell’oggi. E c’è un pugno di canzoni che stupiscono per la cura e l’affetto con cui sono trattate le parole (un gioiellino è la divertente Sotto le stelle il mare).

Le parole, appunto, sono al centro di tutto, grazie anche a quella scelta di essenzialità con cui è stata affrontata la parte strumentale. Le parole, unica forma di resistenza possibile: è questa cognizione che fa di questo cd un lavoro di cui c’è bisogno, anche se nessuno andrà a spiegarlo ai discografici e agli scopritori di talenti da serra (e se glielo spiegassero non se ne farebbero un granché).

È questa urgenza di prendersi cura delle parole e di qualunque forma di bellezza, a reclamare nel 2019 la necessità di un disco che contiene Jacques Brel, Giovanni Pascoli e Paolo Rossi (c’è una sequenza di canzoni che Testa aveva scritto per lui); è l’attenzione che l’autore ha riservato a materiale che tutto sommato pensava privato: tutto l’album è suonato benissimo, la chitarra è semplice ma perfettamente al servizio delle canzoni; la cantante Bia Krieger porta il Brasile in un vecchio classico del cantautore piemontese, La tua voce; e un pugno di musicisti amici impreziosiscono coi loro interventi alcune delle tracce.

Dicevo del dilemma che la curatrice ha dovuto affrontare. Ovviamente c’era la terza possibilità: lasciare quelle registrazioni nel cassetto nel quale abitavano da anni. Ma il pensiero che oggi non avremmo Alichino o X Agosto ci fa essere grati che qualcuno si sia assunto la responsabilità di quella scelta.

Originally published at http://www.radiotarantula.net on January 23, 2019.

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Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.