“Sentiamoci vivi e divertiamoci”. Il blues di Roberto Menabò

È uscito “The Mountain Sessions”, un album vitale e poetico. Arriva a molti anni dal cd precedente, ma il chitarrista non ha mai smesso di raccontare le sue storie blues.

Massimo Giuliani
RadioTarantula
8 min readFeb 7, 2021

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Roberto Menabò, chitarrista piemontese che vive da tempo nella campagna emiliana, quando imbraccia la chitarra racconta delle storie, non meno di quando scrive i suoi libri sulle “vite affogate nel blues” (discografia e bibliografia in fondo all’articolo, con le istruzione per entrarne in possesso). Non per niente gli ho fatto qualche domanda sul nuovo cd e siamo finiti a parlare di blues e della musica che gira intorno…

Radio Tarantula: Roberto, possiamo dire che i tuoi due amori musicali sono il blues acustico e l’American Primitive Guitar…

Roberto Menabò: Certo, sono le due passioni giovanili che durano tuttora. Il blues rurale, quello degli anni venti/trenta è stato un compagno di viaggio continuo. Un amore quasi segreto ed esclusivo, solitario e incestuoso. C’è da dire che ero molto giovane e abitavo in un piccolo paese vicino ad Ivrea a due passi dalle montagne dove non potevo condividere quella passione con gli amici. Che d’altra parte non comprendevano perché spendessi tutti i miei pochi soldi — guadagnati con lavori stagionali o nei ristoranti durante i week end — in lp Yazoo fatti arrivare per posta dagli USA o in viaggi a Torino a cercare dischi e dischi.
Non sono però mai stato uno sciovinista e non ho mai pensato che tutto il blues sia bello. Ci sono dei cantanti che non sopporto, delle esecuzioni insopportabili e non credo nello stereotipo “ci ho i bluessss, ci ho il messaggio, ho i blues, suono male ma ho i bluesssss”.

RT: Ahah! Capisco… E fino a quando è rimasto una passione segreta?

Disegno di Ermanno Marco Mari, da una foto di Antonio Boschi.

RM: Beh, considera che quando poi ho conosciuto altri appassionati, mi guardavano storto perché mi piace l’old time, la musica popular e Johnny Cash. Ma soprattutto non ho pregiudizi sul colore della pelle e non credo nella negritudine.
La chitarra acustica era lo sbocco e non so come ascoltai John Fahey e fu come Saul sulla via di Damasco o John Belushi in chiesa: ho visto la luce! Quella era la chitarra che mi piaceva, dove non c’è gara per il fraseggio più ardito (ma inutile), dove non bisogna stupire guardando cosa fanno le dita, ma emozionare con della bella musica. Il pezzo non è un esercizio di bravura ma calore e stile dove è più importante, come nella musica classica, l’interpretazione del brano e le emozioni che suscita. John Fahey è stato il viatico, scoperto pian piano attraverso i suoi lp Takoma.

RT: Infatti “Mountain Sessions” sembra proprio correre su due binari. Uno è il blues, l’altro i tuoi pezzi originali, che hanno titoli in italiano e hanno un sapore che viene dall’American Primitive, da John Fahey e Leo Kottke. Sembra che quando componi ti venga naturale attingere a quella storia e a quello spirito…

RM: Sì, il cd viaggia su due orizzonti, sulle mie due passioni e indubbiamente i brani strumentali vanno a parare su quei maestri che detto tra noi sono ormai considerati obsoleti in un mondo di guitar music sempre più prolifico e livellato su uno stile che produce altri suoni e ritmi più tersi e tranquillizzanti. Nella metà degli anni settanta, quando mi colpirono la Primitive Guitar ela musica popolare inglese (Dick Gaughan e Martin Carthy sono gli eroi al di qua dell’Oceano), i dischi di sola chitarra acustica erano veramente pochi. Adesso invece ve ne sono una quantità indescrivibile.

RT: E in mezzo a tante chitarre linde, “The Mountain Sessions”, che hai pubblicato un sacco di tempo dopo “Il profumo del vinile”, ha un suono bellissimo sebbene più scarno di quello. Registrare con sola voce e chitarra (sovraincisa occasionalmente) è stato una scelta o una conseguenza del periodo di distanziamento da virus?

RM: No, direi che è proprio una scelta, soprattutto quello di incidere con un suono il più possibile in diretta. Mi piacciono i dischi che sembrano degli house concert. Credo che il suono poco costruito e immediato dia più calore, ma è ovviamente una piccola opinione.

RT: Mi viene in mente un grande cultore di Fahey come Maurizio Angeletti, che una volta mi disse che davanti alla musica di Michael Hedges gli veniva da pensare che “non si sentono più antecedenti, connessioni, ma sola pura individualità”. Tu sei costantemente connesso con quegli “antecedenti”, la tua musica sta dentro una storia che si riconosce dalle prime note. Come la vedi? Quelli che chiami “suoni tranquillizzanti” mi pare che c’entrino un po’ con quella “musica senza antecedenti”…

Foto di Gaetano Marvelli.

RM: D’accordo con Angeletti, che ricordo sempre con stima, che mi diceva anche che questi (i chitarristi new age dell’epoca) sono delle signorine della chitarra per il modo poco carnale di colpire la chitarra. Sì, penso che la musica debba avere una storia riconoscibile. Si può renderla un po’ diversa colorandola, arrangiandola, ma deve avere, come dici tu, un “antecedente” anche perché è su quello che puoi innovare. Altrimenti non c’è storia, non c’è tradizione da “spalmare”, c’è soltanto un’individualità senza vissuto né carattere.

RT: Ecco, la tradizione. Penso a Michele Dal Lago che contrasta con argomenti robusti il falso storico (nato dalla cultura rock, dice) del musicista blues sempre nero, maschio e disperato. A me pare che la storia che fa derivare tutto da Robert Johnson (sempre sia lodato, eh) generi l’errore di prospettiva da cui deriva quella mitologia un po’ etnocentrica (anzi, biancocentrica) del bluesman primitivo e demoniaco. Ma quando Robert Johnson comincia a incidere le sue 29 tracce siamo già alla fine del 1936! Tre anni prima era morto (per dirne uno) Eddie Lang, e la sua famiglia veniva da Isernia! Memphis Minnie, per fare il nome di una donna, era sulla quarantina ed era da un pezzo con la Columbia…

RM: Guarda, provo a risponderti ma ci potremmo scrivere un saggio, perché la questione scopre una polveriera di idee…
Penso che il blues sia un linguaggio con delle strutture e regole come altri o come nella poesia per esempio il sonetto, per cui ripetibili da chiunque, Non è che il sonetto lo potevano solo scrivere i fiorentini! Allora a Milton, inglese, era vietato? Così per la forma sonata e qualsiasi forma artistica: l’importante è come si usano le regole.
Posso conoscere tutte le caratteristiche metriche del sonetto ma essere un pessimo poeta; così, per suonare il blues devo conoscere a fondo la struttura. Che poi sia nero, bianco, celeste o azzurrino cosa importa? Ognuno lo interpreta con un mood diverso, ma è sempre blues. Ma si obbietta: solo i neri lo possono sentire, i campi di cotone, la tristezza e bla bla quaquaraquà (per dirla con Sciascia) e per suonarlo devi “sentire” i blues… per cui se sei uno zoticone e suoni male ma sei triste e oppresso va bene, suoni il blues, e di conseguenza ancora adesso a scimmiottare i cantanti degli anni trenta o di Chicago con una pletora di pezzi uno uguale all’altro e confezionati come le merendine kinder.

RT: Secondo te dove nasce l’equivoco?

RM: Penso che questo concetto che solo il nero possa avere il blues sia nato con i democratici americani subito dopo la guerra, l’operazione di Lomax con Leadbelly è emblematica. Quasi volessero lavarsi di un senso di colpa verso il razzismo, per cui il cantante è dolente e così via. Dimenticando che quasi tutto il blues è musica per ballare, è pieno di doppi sensi erotici, i testi sono presi uno dall’altro con stanze ripetute e non c’è mai stato — almeno all’inizio — un risvolto sociale, topical, come dicono gli americani.
Di conseguenza gli altri non possono avere i blues, meno che mai i bianchi. Il paradosso è che da noi sembra che il blues sia una musica che va a parare a sinistra, mentre quello genericamente country è retrivo e di destra (se ha ancora un senso dire queste cose)…

RT: …mamma mia, l’antico pregiudizio del country reazionario…!

RM: Eppure quelli più politicizzati, quelli che partecipavano agli scioperi, quelli che lavoravano nelle miniere, erano i cantanti bianchi...
Insomma, io credo a fare la differenza nel suonare il blues sia la competenza, un grande studio, cultura e soprattutto non crederci troppo, sorriderci su e non entrare nella parte di chi vuol dare un messaggio profondo, imbastito poi di luoghi comuni…

RT: …il che mi riporta a quello che dicevo presentandoti, cioè il tuo approccio da narratore, sia quando suoni dal vivo che quando scrivi libri. Anche l’alternanza di stili nel tuo cd gli conferisce quasi una struttura, diciamo, narrativa. Da dove ti viene questa attitudine da storyteller?

RM: Hai ragione, mi piace raccontare in modo semplice e ironico. L’ho imparato dopo che per quasi quarant’anni ho raccontato di letteratura a giovani maturandi. Allora dovevo trovare il modo di attirare quei giovani poco propensi (ho sempre voluto insegnare negli Istituti Tecnici) allo studio e alla lettura. Allora ho imparato a scendere dalla cattedra e spiegare Dante anche ridendo ma facendo sentire l’enorme valore: così li facevo studiare senza che se ne accorgessero, insomma anche lì prendendosi poco sul serio. In questo modo io e loro ci divertivamo. Devo dire che ho fatto dei bei lavori ed è stata una bella esperienza comunicativa. Penso di avere lo stesso atteggiamento con i dischi e con i concerti: stiamo suonando, teniamo i piedi per terra e sentiamoci vivi e divertiamoci, alla fine si sta facendo spettacolo.

RT: Roberto, che conclusione fantastica per la nostra chiacchierata…

RM: Ti ringrazio di aver sopportato le mie parole di getto, forse a vanvera, ma mi sono divertito e anche per questo te ne sono grato. Buona serata!

Segue un elenco dei cd e dei libri di Roberto Menabò (che possono essere richiesti a lui: info@robertomenabo.it).
Ha inciso:

  • “A bordo del Conte Biancamano” (1985, ripubblicato con bonus track nel 2016)
  • “Laughing the Blues” (1995)
  • “Il profumo del vinile” (2001)
  • “Mountain Sessions” (2020)

Ha scritto:

  • “Rollin’ and Tumblin’. Vite affogate nel blues” (Arcana, 2015, anche nelle librerie, comprese quelle online)
  • “Mesdames a 78 giri. Storie di donne che hanno cantato il blues” (La Collinetta, 2018)
  • “Il blues ha una mamma bianca. Storie di chitarristi e banjoisti nell’America degli anni Venti e Trenta” (La Collinetta, 2019)

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Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.