[Swinging Sixties!] Il soffitto viola

di Luca Giudici

Massimo Giuliani
RadioTarantula
7 min readMar 13, 2022

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Eppure, la musica, in quel 1962, non era pensata solo per generare movimenti difficilmente prevedibili delle ginocchia, oppure per essere la voce di una generazione uscita dalla Seconda guerra mondiale e concentrata nella sua scalata sociale. Tutto ciò lo abbiamo accennato nelle precedenti puntate, ma non era abbastanza, vi era dell’altro. A macchia di leopardo, in tutta Italia, giovani musicisti percepivano l’alba di un mondo nuovo, e iniziarono a rendersi autonomi e a sfruttare ispirazioni altre rispetto a quelle che arrivavano dal mondo anglosassone, e che già sembravano essere una nuova ortodossia, un nuovo canone.

Questo accadeva a Milano, a Roma, a Napoli, a Genova. Oggi le chiamiamo pomposamente scuole, la scuola genovese, quella milanese, e così via, ma in realtà si trattava di poco più di Quattro amici al bar, per citare una ben nota canzone di Gino Paoli che si richiama proprio al baretto che frequentava in quegli anni con i suoi compagni di cordata.

A questo proposito, Bruno Lauzi disse ironicamente in un’intervista: «tutti voi che scrivete della scuola genovese, magari prima informatevi: io sono nato ad Asmara, Gino è di Monfalcone, Luigi è di Alessandria. Solo Bindi e De André sono nati a Genova: Umberto, che era del ’32, e Fabrizio del ’40, erano i nostri antipodi e in mezzo c’eravamo noi, Gino del ’34, Luigi del ’38 e io del ‘37». Lauzi e Tenco difatti erano al liceo insieme, mentre Tenco e Paoli si litigavano la fidanzata Stefania Sandrelli, molti di questi personaggi iniziano a frequentarsi suonando dove capitava, tra bar e cantine, e suonando soprattutto insieme, e soprattutto jazz, o crooner americani e francesi. Inoltre bisogna dire che la scuola genovese (ma lo stesso vale per quanto succedeva a Milano negli stessi anni con Jannacci, Gaber, Celentano, Gianco e altri) nacque e si sviluppò non solamente per il valore dei musicisti che vi appartenevano, ma anche (e forse soprattutto) per una serie di figure che sono state capaci di coglierne la centralità e la prospettiva che incarnavano. In primis il ruolo di Nanni Ricordi, rampollo della dinastia omonima e importante produttore, e poi Luis Bacalov, i fratelli Gian Piero e Gian Franco Reverberi, Ennio Morricone, Mogol (e prima di lui suo padre, Mariano Rapetti, figura centrale della storia della musica italiana, e anch’egli paroliere con lo pseudonimo di Calibi).

Questi nomi nei decenni seguenti sono stati incisi nei vinili, portando la musica italiana al successo in tutto il mondo. La presenza di questi personaggi permise alla canzone d’autore di fare un salto di qualità e di entrare in un olimpo anche culturale, dove con diritto tutt’ora risiede. Solo un paio di situazioni esemplificative, per dare la misura di quanto certi momenti furono determinanti: fu Mogol, nel 1960, a convincere Mina a cantare Il cielo in una stanza, firmata alla SIAE dallo stesso paroliere, perché Gino Paoli, allora sconosciuto, non vi era iscritto, rendendolo così uno dei brani più noti al mondo; mentre dietro al successo di Sapore di Sale, sempre di Gino Paoli ma del 1963, vi sono l’orchestrazione di Ennio Morricone e il sassofono di Gato Barbieri.

Alcuni anni dopo, nel 1967, Mina fu l’interprete di un altro notissimo brano di un autore genovese, e mi riferisco ovviamente a La canzone di Marinella di Fabrizio de Andrè, andando così a consolidare così il forte legame esistente tra la tigre di Cremona e il mare di Genova.

De Andrè aveva registrato il brano alcuni anni prima, proprio nel 1962. Non fu però l’unico pezzo scritto dal cantautore quell’anno, anzi. Un altro dei suoi titoli quell’anno fu La città vecchia. Ufficialmente la canzone è stata registrata nel 1966, ma nel 1997 fu Fabrizio stesso, durante la presentazione di un concerto, a retrodatarla di quattro anni.

La città vecchia è l’emblema della incredibile capacità di De Andrè di riempire di significato tutto ciò che gli capitava sotto mano, qualsiasi cosa fosse. Era come Re Mida, con il potere di restituire vita e attualità al materiale che utilizzava, e che sotto le sue mani cambiava forma, e valore, mentre creava collegamenti prima impensabili. La canzone musicalmente era scritta sulla falsariga di un brano di Georges Brassen, Le Bistrot, inciso due anni prima in Francia, mentre il testo si ispira platealmente alla ben nota e omonima poesia di Umberto Saba, con cui condivideva il trasporto verso emarginati e dimenticati, gli ultimi della società.

Anche il passaggio finale, uno dei versi più conosciuti di De Andrè, è in realtà una riscrittura di un pezzo di Jacques Prévert, Embrasse Moi, del 1946: “Il sole del buon Dio non brilla dalle nostre parti / ha già troppo da fare nel quartiere dei ricchi” (Le soleil du bon Dieu ne brill’pas de notre côté / Il a bien trop à faire dans les riches quartiers). Fabrizio lo trasformò in: “Nelle strade dove il sole del buon Dio / non dà i suoi raggi, / ha già troppi impegni per scaldar la gente / d’altri paraggi”. Un patchwork quindi, una coperta scozzese che De Andrè ha (tras)formato legando elementi separati e apparentemente senza alcuna relazione, ma che, dopo la sua terapia, si scoprivano tessere dello stesso mosaico.

Quello stesso anno, l’amico Lugi Tenco, per cui De Andrè aveva appena scritto La ballata dell’eroe, brano cantato da Tenco nella colonna sonora del film La cuccagna, di Luciano Salce, pubblica il suo primo album. Nel 33 giri erano contenuti molti dei pezzi che costruiranno la sua leggenda, ma quella radicale diversità dell’autore, quel suo slittamento, che azzardo a dire ricorda moltissimo la sensibilità di Chet Baker, emerge gigantesco in Mi sono innamorato di te.

Sopra questa melodia leggerissima Tenco parla, più che cantare, raccontando il suo distacco dalle cose del mondo, con un atteggiamento straniante con cui cerca (senza riuscirci) di dare solidità a un soggetto già disperso. È un’espressione molto legata a quell’esistenzialismo di stampo francese che negli anni seguenti dominerà l’estetica della rive gauche parigina, ma che, nel 1962, non era ancora quel fenomeno di costume che diventerà solo pochi anni dopo. La ricerca di autenticità, di un senso per le proprie azioni, di una compagnia che non sia solo l’ipocrisia borghese di un rapporto dovuto, tutto questo esplode nel giovane Tenco, e che purtroppo non ebbe il tempo di esplorare altri tragitti della sua arte. Sicuramente la sensibilità del giovane musicista era particolare, come ci ha mostrato il suo triste destino, ma non si trattava di un approccio solo personale. Il più anziano (se così si può dire) degli appartenenti alla scuola genovese era Umberto Bindi, che in quel 1962 compiva 30 anni.

Quello non fu per lui un anno particolare, dato che era ancora reduce dall’importante successo avuto due anni prima, quando aveva pubblicato Il nostro concerto, ben dieci settimane in testa alle classifiche, e che godeva di una introduzione musicale di 1’10”, incredibile per una canzone, allora come oggi. Bindi lavorava insieme a Giorgio Calabrese, che delle molte eminenze grigie che lavoravano dietro le quinte rispetto ai cantautori, è quello che più di tutti è rimasto nell’ombra, anche se la sua influenza non è stata certo inferiore, basti solo ricordare che Orietta Berti fu lanciata da lui.

Calabrese era un produttore, un talent scout e un paroliere, che per Bindi scrisse quasi tutti i testi più famosi, tra cui Arrivederci, dove il senso della finzione, quella perdita di realtà che conduce o alla solitudine o all’ipocrisia, sembra parallelo alla melanconia di Tenco.

Non è forse un caso che Chet Baker fece una versione affascinante del pezzo di Bindi. Calabrese era un poeta, e anche lui come Mogol, sfruttò ampiamente la moda italiana di riscrivere i testi ai brani stranieri, e nel suo curriculum si distinguono due brani importantissimi come Domani è un altro giorno, cantato da Ornella Vanoni, su musica di Jerry Chesnut (il brano originale si intitolava The wonder you perform e divenne famosa cantata da Tammy Wynette) e Le déserteur, scritta originariamente da Boris Vian, e ripresa da Ivano Fossati, Gianmaria Testa, Gino Paoli e molti altri.

Soprattutto Calabrese fu uno degli ispiratori della ricezione della Bossa Nova e del Samba in Italia. Nel 1965 Caterina Valente e Bruno Martino cantarono la sua versione di Garota de Ipanema, e alcuni anni dopo, nel 1968 Mina cantava Canto de Ossanha, di Baden Powell e nel 1973 sempre Mina intonava Aguas de Março. Ma non fu certo l’unico ad essere affascinato dalla musica carioca. Nel 1959, Arrivederci, di cui abbiamo parlato poco fa, fu incisa da un cantante istriano, che a quel tempo viveva a Venezia, tal Sergio Endrigo. Nanni Ricordi lo mise sotto contratto, e le prime canzoni che incise per lui portavano la firma di Calibi, che, come abbiamo visto, era lo pseudonimo di Mariano Repetti, il padre di Mogol. Endrigo però fu proprio nel nostro 1962 che incontrò il successo, con il brano, firmato da lui, Io che amo solo te, e che fu poi ripreso in un numero illimitato di cover. Endrigo sin dalle sue prime registrazioni dimostrò un respiro poetico particolare, mettendo in musica testi di Pier Paolo Pasolini e Josè Martì.

Il mondo brasiliano lo incontrò pochi anni dopo, insieme a un altro poeta, Vinicius de Moraes, e il chitarrista Toquinho. Nello stesso album Sergio Endrigo ha messo in musica anche alcune traduzioni di Giuseppe Ungaretti.

Ma ora è il momento di fermarsi. Abbiamo fatto molti passi troppo lunghi, e il discorso si è allontanato spesso da quel 1962 che ci fa da orizzonte. Inoltre, abbiamo lanciato rampini in molti luoghi, oltre che in tempi diversi. Vedremo presto cosa rimarrà impigliato nelle reti.

See you later, alligator!

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Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.