“Zornant” l’album di Alvise Nodale in attesa del giorno (intervista)

Con Alvise ho parlato dell’ultimo lavoro, ma anche di musica tradizionale e di piattaforme streaming, la spina nel fianco dei musicisti. Anche se…

Massimo Giuliani
RadioTarantula
15 min readJul 4, 2021

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“Zornant” si può ascoltare e scaricare su Bandcamp

Avevo conosciuto Alvise vedendolo suonare all’Acoustic Guitar Village di Cremona nel 2019, nel trio con cui Lino Straulino aveva realizzato “VIllandorme” (completava la formazione la cantante Alessia Valle). Così avevo cercato sue notizie e avevo scoperto questo giovane chitarrista carnico con un’attività prolifica fra musica tradizionale e canzone d’autore.
Da pochi mesi è uscito sulle piattaforme
“Zornant”, il suo quarto album, tutto realizzato in casa, guardacaso a non molta distanza da “A la brigata nobile e cortese”, l’ultimo cd del suo “mentore” (di cui parlavo qui).
Questa è la trascrizione di una lunga chiacchierata che ho fatto con Alvise sul suo nuovo lavoro e su altro…

Max Giuliani: Alvise, come sta andando “Zornant”?

Alvise Nodale: Non mi sono molto aggiornato ultimamente, devo andare a vedere le statistiche. Ma comunque è ancora ascoltato.

MG: Come “ancora”? È pubblicato su Bandcamp, giusto?

AN: È pubblicato su un po’ tutte le piattaforme streaming… Da me personalmente ovviamente solo su Bandcamp e il mio canale Youtube. Poi dai siti di distribuzione va in automatico sulle varie piattaforma, come Spotify o Apple Music, non so nemmeno quante siano…

MG: …ecco, ma quando dici “ancora ascoltato” intendi che una volta caricato l’aspettativa è che il primo periodo sia quello di maggiore ascolto?

AN: Eh sì, anche perché essendo un cantautore non così conosciuto — giro soprattutto qui in zona — gli ascolti li faccio quando esco a suonare. Sulla comunicazione via social sono un po’ un disastro — è una cosa che devo migliorare — e quindi, se non fai tanta pubblicità, almeno quando suoni in giro dici due parole, “ho fatto uscire questo lavoro, ascoltatelo”, e allora gli ascolti arrivano. Ma senza suonare, per uno come me che col telefono ha un pessimo rapporto…

MG: Però l’attività dal vivo sta ripartendo…?

AN: Sì, per fortuna sì. Un po’ le cose si muovono. È ancora tutto ancora molto incerto, tanti non si muovono ancora col piede pesante, ci vanno con prudenza, quindi ci dicono “venite, vi diamo la data, ma stiamo attenti”, ovviamente come è giusto che sia. Però si sta muovendo qualcosa pian piano.

MG: Quest’album l’hai registrato nellockdown, o comunque nel periodo del distanziamento. Hai fatto tutto da solo, hai suonato tutti gli strumenti…

Alvise nel suo home studio

AN: Sì, è partito come un esperimento, non dovevano essere nove brani ma solo due o tre, da caricare su Youtube per far vedere che non ero sparito dalla circolazione, per dire ci sono ancora, sto lavorando. E così durante il lockdown ho messo su un piccolo home studio qui in camera mia, c’è la scheda audio, le casse, i microfoni. Siccome mi ha sempre affascinato molto quel mondo, la registrazione, capire come far suonare una cosa, perché quello strumento suona in una certa maniera, le frequenze, i compressori, quella roba mi ha sempre affascinato, allora ho detto bah, proviamo. Se non ci si può muovere, proviamo ad arrangiarci e vediamo cosa ne esce. Poi, dopo la terza canzone ho visto che mi stavo divertendo tanto, allora ho pensato perché non provare a farci un disco? Ho mandato le registrazioni a qualcuno, anche per farmi dare due dritte sul mixaggio — è la prima cosa fatta da me, avevo bisogno di qualche parere esterno — e tutti mi han detto sì, va bene, aggiusta un po’ qui, aggiusta un po’ lì, ma di base va bene. Così sono andato avanti ed è venuto fuori tutto un album.

MG: Ho visto in giro una tua intervista dove ti hanno fatto tutte le domande che volevo farti io (ridiamo) però volevo tornare su una cosa che hai detto lì, a proposito del titolo dell’album. Se ho capito fa riferimento al canto degli uccelli all’inizio della giornata, della zornade. Pensando alle condizioni in cui è nato l’album m domandavo se è una specie di auspicio, l’attesa di rivedere la luce…

AN: Anche, sì. Infatti penso di aver scelto inconsapevolmente i brani, per i quali mi sono basato sull’esperienza che ho avuto, sono semplicemente i brani che ho suonato di più. Sono tradizionali, ce n’è una marea di brani così, ma questi sono quelli che conosco meglio e che ho suonato di più, quindi ho deciso di andare sul sicuro. Poi, solo una volta messi in ordine mi sono reso conto che potevano rispecchiare lo stato d’animo delle persone. Il titolo, appunto, era come dire speriamo che questa roba passi e che si possa tornare alla speranza.
Zornant è una parola che non si usa più, l’ho sentita solo in una canzone di Lino, e tra l’altro non è un testo suo ma è una poesia di Nardini, quindi un friulano più antico del nostro. Zornâ è proprio un verbo che sta a indicare il canto degli uccelli alla mattina. Un verbo che non si usa più, come le canzoni popolari. Anche se adesso questo giro del folk è un po’ in ripresa…

MG: Vi vidi suonare insieme col trio Villandorme nel 2019, e in quella occasione ho avuto una lunga conversazione con Lino, da cui ho ricavato un’impressione che si è rinnovata tutte le volte che ho incontrato qualcuno che veniva dalle parti vostre: nel rapporto che in Friuli, e nella Carnia in particolare, avete con i vostri luoghi e le vostre tradizioni mi pare che ci sia un sentimento che è diverso dall’esperienza di chiunque altro…

AN: Sono molto radicate, sì… È qualcosa di molto viscerale, a volte non lo capisco nemmeno io, a dire il vero.
La prima canzone dell’album, “Fasìn un Cjant” (“Cantiamo una canzone”), me la insegnò proprio Lino a scuola, avevo tipo otto anni, e la prima volta che l’ascoltai pensai che non la conoscevo, eppure era come se l’avessi già sentita da qualche parte! È proprio come averla nel sangue, non lo so…

MG: Già, Lino era il tuo insegnante…

AN: Alle elementari, era il mio maestro di musica.

MG: Quali sono gli argomenti dei brani del disco? Di che parla? Te lo domando per chi non conosce la vostra lingua…

AN: Puoi trovare testi e traduzioni su Bandcamp. Accanto a ciascun titolo trovi “lyrics”, oppure puoi cliccare per entrare nella pagina del singolo brano…

MG: Ah, buono a sapersi…

AN: Sono in gran parte canti femminili, i canti che le signore facevano durante la giornata nei campi, per farsi coraggio e passare la giornata, magari avevano un figlio o un marito in guerra. Così cantavano queste cose per farsi coraggio. Il tema è quello, la lontananza, come “Aghe Aghe Benedete” (“Acqua acqua benedetta”), “Fasìn un Cjant”, “La Biele Stele” (“La bella stella”), son tutti canti di consolazione, diciamo. Il tema è quello di passare la giornata e farsi forza. Poi ce ne sono altri come “Done Mari” (“Madre”) che è una storia di una madre che parla alla figlia che non vuole andare a sposarsi e quindi sceglie di, come dice la canzone, tenersi l’onore bianco come il latte. Io penso — non è detto che sia così, ma da quello che ho intuito di quel contesto, invece che andare a maritarsi va a farsi suora, per mantenere l’onore “bianco come il latte”.

MG: Molto bella, ha un’apertura di chitarra che mi ha fatto pensare proprio a Nick Drake, e poi un bel crescendo…

AN: …poi c’è “Nine Nane” che appunto è una ninna nanna, c’è “Nou us din la Buinesere” (“Vi auguriamo la buonasera”) che è un canto goliardico dei musicisti quando finivano la serata che fanno agli spettatori, “vi diamo la buonanotte e torneremo domani sera e canteremo come piace a voi, scusateci se non abbiamo saputo cantare”, dice, ma “abbiamo cantato a forza di acqua” e quindi è andata un po’ così… è un canto simpatico che si usava, o si usa, per chiudere le serate.

MG: Ma quanto popolare è questa musica nella tua terra? Quanto è vissuta? Chi viene ad ascoltarti conosce queste canzoni tradizionali? O le conosce da te?

AN: Quelli di una certa età le conoscono. Magari gliela cantava un nonno, o qualcun altro, e poi la cantavano loro stessi. Le generazioni un po’ più giovani non le conoscono tanto. Alcuni le conoscono da me, o da Lino, o sennò a molti forse nemmeno interessano. Però è sempre bello poter condividere queste canzoni perché secondo me meritano. Sono bellissime canzoni…

MG: …tanto che, pensavo, sebbene ti abbia apprezzato molto come chitarrista quel giorno, e poi dal disco in trio, e sebbene tu abbia uno stile — mi viene da dire “maturo”, per via che sei così giovane… ecco, nonostante questo mi sembra che in questo album tu abbia deciso di mettere in primo piano le canzoni. Volendo, avevi tutti i mezzi per mettere la tua chitarra sotto il riflettore…

AN: Sì, meritavano molto di più le canzoni. Ho dato più risalto al testo che al giro di chitarra, che tante volte fa la melodia della voce, magari con qualche basso o qualche armonia che non c’era. Perché erano propriamente canti, non avevano un accompagnamento musicale. Si cantava e basta, una due o tre voci, ma l’accompagnamento musicale, l’arrangiamento, gli accordi, non c’erano. Sono tutti inventati, quindi il messaggio è che possono esserci o non esserci, l’importante sono la melodia e le parole.

MG: Come lavori per inventarti una progressione di accordi che non c’è, un’armonia che non esiste?

AN: Su questi canti popolari è molto semplice, si basano tutti sulla pentatonica. Hai cinque note, e difficilmente esci dalla tonalità. Ce n’è qualcuno che magari gira un po’ da un’altra parte, però di base puoi metterci praticamente tutti gli accordi di una tonalità e stanno bene. È solo da provare, dico qui al posto di un minore ci metto un maggiore che ha un altro effetto… e quindi è un po’ un gioco, ti diverti a metterci su, a provare, a cambiare, a mettere quella nota… poi tanti arrangiamenti non sono del tutto miei ma li ho presi da qualche versione di Lino, dei Fûrclap, della Sedon Salvadie, comunque del folk revival degli anni ‘80 o ‘90, che qui in Friuli avevano fatto molto bene in quegli anni…

MG: Proprio vero!

AN: Sì, avevano un bellissimo giro… quindi qualcosa ho preso da lì, qualcosa ho modificato, qualcosa ho fatto di mio, ma sempre in quello spirito di sperimentazione. Provare, senza temere. Anche perché queste potresti suonarle tutte col bordone. Una nota e avanti così! Però adesso l’ascolto diventerebbe abbastanza difficile, siamo abitati a sentire canzoni con ottomila armonizzazioni… quindi ho pensato che dovevo modernizzarle un po’, diciamo.

MG: A proposito di questo, parlavo in questi giorni di te con qualcuno che non ti conosce, e per spiegare quello che fai dicevo che la matrice è quella del folk revival britannico, dicevo “sai, c’è questo giovane chitarrista sul solco degli inglesi”, cose così. Per te è una definizione che ci sta, o è riduttiva?

AN: Riduttiva assolutamente no! Ci sta eccome, pensa che nei periodi di reclusione totale praticamente ascoltavo solo Bert Jansch, o Nick Drake, direi che quella è la matrice, quello è lo stampo. Ovviamente sono arrivato a quei chitarristi prendendo come esempio Lino e studiando (anzi, diciamo piuttosto rubandogli) il modo di suonare. E poi mi confrontavo anche con lui, che mi diceva io suono così perché c’è John Renbourn che fa questo, c’è Bert Jansch che fa quest’altro, c’è Nick Drake con le accordature… e quindi poi da lì mi si è aperto un mondo, sono andato a cercarmi quel folk lì, i Pentangle, tutta quella gente, John Martyn

MG: Allora parlami un po’ di accordature e di strumenti… dopo Cremona mi avevi accennato alla chitarra che avevi quel giorno. Che strumenti suoni e come ti muovi in mezzo alle accordature?

AN: Principalmente suono la chitarra acustica. Poi più o meno mi arrangio con gli strumenti a corda. Chitarra acustica e bouzouki sono le due cose che suono meglio. Poi c’è il mandolino, l’ukulele… tutti quegli strumenti a corda pizzicata. Con violini e flauti non mi imbarco, so che non ne uscirei più. Però strumenti a pizzico sì. Ho un liuto che suonicchio ogni tanto, così per passare il tempo e provarci. Mi diverto così. Poi un po’ di chitarra elettrica, ma non grandi cose. Non mi reputo un chitarrista elettrico, proprio no. E a proposito della chitarra acustica…

MG: …ecco, a proposito dell’acustica mi dicevi di un amico liutaio…

AN: Sì, Luca Zerilli. All’Acoustic Guitar Village a Cremona ho suonato una delle sue chitarre. Lui era alla fiera il giorno prima per acquistare dei legni credo, e quando siamo venuti a suonare mi ha chiesto se volevo far vedere la sua chitarra, suonarla sul palco. Io ho detto molto volentieri, perché sono strumenti fatti molto bene. Lui fa prevalentemente violini, ma da un po’ si è messo a fare chitarre che sono davvero delle chicche. Una in particolare l’ha spedita in America e mi ricordo che prima me la fece provare. Volevo rubargliela! Non ho mai avuto l’impulso di rubare niente a nessuno, ma quella volta sì…

MG: Ah, dunque era la tua chitarra solo per l’occasione…

AN: Sì sì, non era mia. È di Luca, l’ha fatta per sé, sta in esposizione nel suo negozio. La tiene per farla provare.

MG: E invece normalmente che chitarra suoni?

AN: Normalmente ho una Martin 000 X1AE, di quelle messicane, dove hanno cominciato a fare la Serie X. La mia dovrebbe avere cinque o sei anni. Sono quelle chitarre che hanno solo il top in abete, fondo, fasce e manico sono fatti con legname di recupero tenuto insieme dall’ebano, in questo caso. Si chiama HPL, il laminato ad alta pressione. È uno strumento di fascia bassa per una Martin, la paghi 7 o 800 euro, in confronto ai tremila che paghi per una 000–28, ma ora che sono passati cinque anni e il legno si è mosso, si è seccato un po’, ha davvero il suono che piace a me.

MG: La tua dunque è una triplo zero?

AN: Sì, mi piace perché è più comoda per il fingerpicking, non è troppo grande, non devi cercare modi strani per imbracciarla. Ha il manico corto e ti muovi agilmente.

MG: E delle accordature che mi dici?

AN: Dipende, lì mi piace veramente tanto sperimentare. Ho trovato una cosa che è stata l’inizio della mia fine! Ho cercato in internet qualcosa come “accordature per chitarra” ed è venuta una tabella di trenta o quaranta elementi, tutte le accordature con i nomi e lì è stata proprio la fine. Ho cominciato a provare e ce n’è alcune che sono proprio imbarazzanti da suonare, posizioni molto scomode, per fare un Mi devi mettere le dita in modi impensabili. Però altre sono veramente spettacolari. Quella che ho usato di più nel disco è quella in Do aperto, cioè CGCGCE a partire dalla sesta.

MG: Oltre a lavorare sulla musica tradizionale sei anche un cantautore. Che relazione c’è fra queste due anime? Le tue canzoni cosa devono alla musica popolare?

AN: Oh, vanno molto di pari passo. In molti momenti si vede che sono presi dal mondo tradizionale e messi in un contesto un po’ più moderno. Comunque il mio genere resta il folk, quindi anche nelle mie canzoni è tutto molto acustico. Nel secondo disco provai a fare qualcosa di diverso, ma credo si si sentisse che non era il mio campo, chitarre elettriche e cose così. Il mio mondo è molto acustico, violini, chitarre, qualche percussione, qualche strumento come mandolino o comunque strumenti acustici. Pochissima elettricità, quello che mi piace e quello che voglio fare è questo.

MG: Quando dici che vanno di pari passo intendi anche che le tue canzoni si nutrono di forme e modi della musica tradizionale?

AN: Certamente. Infatti una volta su una canzone mi hanno domandato se fosse popolare, perché effettivamente ha le misure e il ritmo e i fraseggi di una canzone tradizionale. Non è ancora uscita, non so quando uscirà il terzo disco di inediti, ma quella volta mi hanno proprio fatto questa domanda. Mi ha fatto molto piacere, vuol dire che qualcosa ho capito, che non sono andato avanti suonando e basta, a caso. Bisogna anche capire perché quelle canzoni funzionano così.

MG: In che cosa assomigliava?

AN: La melodia. Principalmente quella, scritta sullo stampo delle melodie popolari. Di solito la prima voce parte dalla terza nota dell’accordo e poi evolve chiudendo sulla fondamentale. Sempre girando sulla pentatonica. È quello che ho fatto. Non è una regola fissa, ma tante volte funziona così. Poi in questa canzone ho usato il tre quarti, che è il tempo della metà delle canzoni popolari, sono partito dalla terza e ho chiuso sulla tonica e il risultato è una canzone che somiglia a una canzone popolare.

MG: E come autore di canzoni i tuoi modelli e punti di riferimento, o gli autori preferiti, chi sono?

AN: Sempre quelli che vengono dall’Inghilterra. Il più grande punto di riferimento penso resterà sempre Nick Drake, a meno che non arrivi qualcuno molto più figo. Ma è difficile che arrivi qualcuno di più figo (risate). Però la musica bisogna cercarla, quello che ti propinano non è mai uno spettacolo, magari è superprodotta, fatta benissimo, senza una nota fuori posto, ma a un certo punto dici anche “che palle!”. L’Inghilterra invece continua a darci molti spunti, cerco spesso la musica che mi piace in quelle zone, Irlanda, inghilterra. Quelli che fanno il lavoro che sto facendo io, prendere il popolare per fare qualcosa di moderno. Ci sono tre o quattro nomi veramente interessanti, fra cui John Smith che, poveraccio!, ha il nome più comune del mondo — se scrivi John Smith nel motore di ricerca viene fuori di tutto…

MG: Oh sì, l’ho presente e ho pensato la stessa cosa… il suo “Live in Chester” l’ho segnalato fra i dischi più interessanti del 2020…

AN: È veramente bravo, è uno di quelli che fanno il lavoro che vorrei fare io. Prende tanto dalla musica popolare e poi anche in lui si sente il modello di Renbourn, Jansch e John Martyn e di lì fa evolvere le cose e scrive anche bellissime canzoni. Poi ci sono gli Ye Vagabonds, non so se li conosci…

MG: Uhm… Ye Vagabonds?

AN: Sono due fratelli irlandesi, fanno musica irlandese però non quella da festa, quella che si sente di più come quella dei Dubliners o anche quella dei Planxty a dire il vero, sono ancora più di nicchia, vanno a cercare le cose più sconosciute. Girano il mondo, sono diventati più noti da quando hanno aperto il tour di Glen Hansard sei o sette anni fa. Sono giovani, davvero bravi. Cantano benissimo e suonano bouzouki, mandolino, chitarra, violino… molto bravi!

MG: Dicevi che la musica bisogna un po’ andarsela a cercare. Tu ti stai ambientando bene su Bandcamp, hai l’impressione che piattaforme come quella possano essere un’opportunità per scoprire cose che non si conoscono?

AN: Sono sicuramente un’opportunità per scoprire tante cose, John Smith l’ho scoperto su Spotify. Poi si può discutere che strapaghino artisti che hanno miliardi di ascolti, o che la musica sia gratis a disposizione, ma d’altra parte può essere la radio dell’epoca attuale…

MG: …però Bandcamp è diversa…

AN: …sì, è diversa perché te la gestisci tu. È meno utilizzata rispetto a piattaforme come Spotify perché non ci sono i grandi nomi come la Pausini. Ci sono artisti emergenti, ma comunque cose belle si trovano. Lì ho scoperto Ye Vagabonds…

MG: Io ci sono entrato per il tuo album, ho guardato un po’ in giro e già ho una playlist di nomi che non immaginavo…

AN: Ah, certo. Poi fra tutte le piattaforme Bandcamp è la migliore, la gestisci tu. Può diventare il tuo sito, hai un guadagno effettivo. Decidi tu se far ascoltare tutta la canzone o solo un estratto (o fai pagare dopo il terzo ascolto), e hai effettivamente un guadagno. Se qualcuno scarica la canzone tu metti il prezzo e i soldi arrivano a te! Non tutti i soldi, Bandcamp ovviamente trattiene una percentuale, ma certo…

MG: …ma certo nessun confronto con Spotify!

AN: Per niente! Per dirti, un po’ più di un anno fa avevamo fatto uscire in piena pandemia “L’unico segno del tempo”, lavorando da casa con un gruppo di Cividale che si chiama Cinque uomini sulla cassa del morto, e in un anno abbiamo fatto un euro! (risate) In un anno solare un euro su Spotify e le altre piattaforme. In due settimane con “Zornant” ne ho fatti molti di più, non scendo nei dettagli ma certo non uno o due euro!

Così terminiamo la conversazione sghignazzando. Grazie ad Alvise Nodale, ricordo a tutti che qui su Bandcamp potete ascoltare l’album e acquistarlo decidendo voi il prezzo.

Foto di Nicola Silverio

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Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.