Esportazioni e competitività: quali i problemi dell’Italia

Raffaele Lillo
Homonovus: RL Blog
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3 min readFeb 23, 2005

La salute dei nostri conti con l’estero è patologica (nonostante la tenue ripresa della seconda metà del 2004): dal 1990 ad oggi il trend medio annuo della nostra bilancia commerciale è inesorabilmente peggiorato.

Tra i liet motif degli ultimi mesi, bilancia commerciale italiana rappresenta il tema sul quale si è detto di più (persino su Striscia la notizia!), ma si è fatto (e si sta facendo) poco o nulla. La salute dei nostri conti con l’estero è patologica (nonostante la tenue ripresa della seconda metà del 2004): dal 1990 ad oggi il trend medio annuo della nostra bilancia commerciale è inesorabilmente peggiorato.
Cito testualmente dal sito dell’ISTAT:
“Nel mese di novembre 2004, rispetto allo stesso mese del 2003, le esportazioni verso i paesi UE sono cresciute dell’8 per cento e le importazioni dell’8,7 per cento. Il saldo commerciale è risultato negativo per 409 milioni di euro, a fronte di un deficit di 294 milioni di euro registrato nello stesso mese del 2003. Rispetto a ottobre 2004 i dati destagionalizzati registrano in novembre un decremento del 2,6 per cento delle esportazioni e del 3,7 per cento delle importazioni. Nei primi undici mesi del 2004, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, le esportazioni sono cresciute del 2,9 per cento e le importazioni del 3,8 per cento. Nello stesso periodo il saldo è stato negativo per 146 milioni di euro, a fronte di un attivo di 1.100 milioni di euro nello stesso periodo del 2003.”
In una visione d’insieme, i fattori che fanno dell’Italia il fanalino di coda di Eurolandia per quanto concerne la competitività sono da rintracciarsi in caratteristiche strutturali, sicuramente non facili da risolvere, ma di certo che non devono essere lasciate nel dimenticatoio politico. Innanzitutto, il sistema capitalistico italiano è un sistema malato: siamo il sesto paese più industrializzato del mondo, ma le nostre più grandi imprese sono in mano allo stato (si veda l’ENI, l’ENEL, Finmeccanica). La maggior parte delle big hanno una struttura proprietaria a carattere familiare di tipo piramidale, in cui abbondano le scatole cinesi, dove non esistono vere pubblic company di stampo anglosassone (recente è l’operazione ci accentramento della proprietà messo in atto da Telecom Italia sulle azioni TIM — si veda un interessante articolo su www.lavoce.info), in cui l’intervento dello stato a sostegno delle imprese in crisi si limita a operazioni di corto respiro. La struttura portante del nostro sistema produttivo rimangono da un secolo a questa parte le piccole e piccolissime imprese, il cui apporto si esaurisce nella maggior parte dei casi all’interno dei confini nazionali. Ancora, le nostre produzioni portanti sono state e rimangono prodotti a basso livello tecnologico, quindi a basso valore aggiunto.
Questo immobilismo, questa tendenza all’anacronismo economico e sociale, non può essere spiegato se non ricorrendo a ragioni di tipo storico e di mentalità. Le prime attengono alla relativa giovinezza del nostro paese e al particolare percorso storico che l’Italia ha seguito nel’900: ci si ricordi che l’Italia ha affrontato le due guerre mondiali proprio nella fase in cui stava costruendo e consolidando se stessa. All’indomani del secondo conflitto mondiale altre erano le priorità da affrontare che dare un ragionato e robusto assetto produttivo al paese (non mi si taccia di statalismo, nel dare intendo anche gli individui in modo spontaneo). La vera ricostruzione poi, quella cominciata dalla seconda metà degli anni sessanta (il cosiddetto boom economico), in cui la mano pubblica era fondamentale per dare l’incipit alla ripresa produttiva, ha lasciato il passo ad uno stato che è riuscito a più che moltiplicare il debito pubblico tra il 1980 e il 1990 (portandolo dal 60% al 120% del pil).
Il secondo motivo riguarda l’inspiegabile immaturità del capitalismo italiano di non riuscire a guardare al di là del proprio orticello; e non parlo solamente delle grandi holding familiari, ma anche dei piccoli imprenditori che non riescono a fare squadra, a consorziarsi per creare soggetti più forti e competitivi, ingrado di abbattere una quota di costi e presentarsi sul mercato più forti ed attrattivi (il caso dell’agricoltura del sud Italia ne è un simbolo eclatante).
Accenno solamente, come causa di ulteriori danni all’apparato produttivo: IRAP, una tassa che colpisce direttamente la capacità delle imprese di assumere; la iniqua (se paragonata agli altri paesi europei) tassa sul carburante; il sistema di produzione energetica tra i più cari del mondo.

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Raffaele Lillo
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