Matthieu Ricard: l’uomo più felice del mondo
Matthieu Richard (nella foto a lato) dopo aver conseguito brillanti studi in biologia come allievo del premio Nobel Francois Jacob, dopo aver lavorato per molti anni all’istituto Parteur come ricercatore, nel 1972 si stabilisce in Asia per seguire l’insegnamento dei suoi maestri tibetani. Diventa monaco buddhista e… felice. E’ considerato l’uomo più felice del mondo.
Jean Francois Revel, Famoso filosofo agnostico e avverso ad ogni metafisica, è suo padre ed insieme hanno scritto un libro per raccontare come entrambi hanno vissuto l’esperienza di Matthieu e soprattutto alcune considerazioni e pensieri sul buddhismo.
Ecco qualche stralcio dal libro:
“M.- … ho dunque avuto la possibilità di frequentare molti di coloro che suscitano l’ammirazione dell’Occidente, di potermene fare un’idea e di chiedermi: “E’ a questo che aspiro? E’ come loro che voglio diventare?” Avevo la sensazione di non essere del tutto soddisfatto, poichè, nonostante la mia ammirazione, non potevo fare a meno di constatare come la genialità espressa da queste persone in un ambito particolare non si accompagnasse alla perfezione nelle doti umane più semplici, come l’altruismo, la bontà, la sincerità. Invece quei film e quelle foto [che avevano come soggetto i maestri del buddhismo tibetano in esilio] mi facevano scoprire qualcosa di più, che mi attirava verso quei maestri tibetani; il loro modo di esistere sembrava essere il riflesso di quello che insegnavano. Così sono partito alla scoperta…
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Arrivai a Delhi con un dizionarietto tascabile e incontrai grosse difficoltà per trovare la strada, acquistare un biglietto ferroviario per Darjeeling ed arrivare davanti alle più belle cime dell’Himalaia. Avevo l’indirizzo di un padre gesuita al quale il dottor Leboyer aveva affidato una somma di denaro per sopperire ai bisogni di un grande maestro tibetano, Kangyur Rinpoche (nella foto in basso), che era arrivato in India alcuni anni prima e che allora viveva nella più grande povertà, in una casetta di legno, con la sua famiglia e con tutti i libri che aveva salvato dal Tibet. Il giorno dopo il mio arrivo il figlio di questo maestro doveva venire alla missione per ritirare questo piccolo sussidio mensile. Fu dunque il figlio di Kangyur Rimpoche che mi condusse da suo padre. Restai in sua presenza semplicemente, per tre settimane. La mia emozione era grande. Era un uomo di settant’anni, irraggiante bontà, addossato a una finestra dietro la quale si stendeva un mare di nuvole traforato dal Kanchenjungua che si innalzava maestosamente a più di ottomila metri di altezza. Io sedevo per tutta la giornata di fronte a lui, e avevo l’impressione di fare ciò che la gente chiama meditare, vale a dire semplicemente raccogliermi in me in sua presenza. Ricevetti alcune parole di insegnamento, quasi nulla. Suo figlio parlava inglese, io quasi per niente. Erano la sua persona, il suo essere che mi impressionavano, la profondità, la forza, la serenità e l’amore che emanavano da lui ed aprivano il mio spirito.
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Mancava un anno al maggio del ’68. Tutti quei ragazzi cercavano qualcosa di diverso, fumavano marijuana… Alcuni perseguivano una ricerca spirituale, e visitavano gli ashram indù, altri esploravano l’Himalaia. Tutti cercavano, chi a destra chi a sinistra. Spesso si scambiavano idee ed informazioni: “Ho incontrato una persona speciale nel tal posto… ho visto un paesaggio meraviglioso nel Sikkim… ho incontrato il tal maestro di musica a Benares…il tal maestro di yoga nel sud dell’India” Ecc. Era un’epoca in cui si rimettevano in discussione le cose, si esplorava, non solo nei libri ma nella realtà.
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il mio interesse allora non era dunque fondato sullo studio del buddhismo, e non lo fu né all’epoca del del mio primo viaggio né durante i successivi due o tre. Fu per incontrare di nuovo il mio maestro che tornai in India. Certo ricevevo da lui istruzioni spirituali essenziali, ma mai un insegnamento continuato sul buddhismo. Lui mi aveva detto: “Vi sono molte cose interessanti nel buddhismo, ma bisogna evitare di perdersi in uno studio puramente teorico o libresco: si rischia di dimenticare la pratica spirituale, che è il cuore stesso del buddhismo e di ogni trasformazione interiore” Tuttavia alla sua presenza avevo scoperto intuitivamente uno dei fondamenti della relazione tra maestro e discepolo: mettere in armonia lo spirito dell’uno con quello dell’altro. Ciò viene chiamato “unire la propria mente con quella del maestro”, essendo la mente del maestro la conoscenza e quella del discepolo la confusione. Questo modo di procedere puramente contemplativo costituisce uno dei punti chiave della pratica del buddhismo tibetano.
J.F.- ma allora quella che tu chiami conoscenza è… l’iniziazione ad una dottrina religiosa.
M.- No, è il risultato di una trasformazione interiore. Ciò che nel buddhismo viene chiamato conoscenza, è il disvelamento della natura del mondo fenomenico, e della natura della mente. Chi siamo? Che cos’è il mondo? In conclusione si tratta soprattutto, di una contemplazione diretta della verità assoluta al di là dei concetti. E’ conoscenza nel suo aspetto fondamentale.”
Estratto da:”Il monaco e il filosofo” di Jean Francois Revel e Matthieu Ricard.