IL RITORNO DEL PROTEZIONISMO

Daniele Amatulli
Rassegna Stanca
Published in
4 min readMar 11, 2019

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Durante i secoli XII e XIII, mercanti, banchieri, politici e filosofi hanno scritto innumerevoli saggi sul commercio internazionale, propugnando la filosofia economica nota come mercantilismo.

Questi ritenevano che, per diventare ricca e potente, una nazione dovesse esportare più di quanto importasse e che il governo avrebbe dovuto fare tutto quanto in suo potere per stimolare le esportazioni e limitare le importazioni dagli altri paesi. In questo modo, ciascun paese avrebbe potuto ottenere un profitto solo a spese degli altri.

Oggi vi è a tutti gli effetti la ripresa di un neomercantilismo, dato che paesi affetti da alti livelli di disoccupazione cercano di sottoporre a restrizione le importazioni allo scopo di stimolare la produzione e l’occupazione interne.

Uno de baluardi del nazionalismo economico contemporaneo è Donald J. Trump.

Proprio nella culla del capitalismo liberista occidentale, un repubblicano e conservatore, ha portato alla ribalta la politica economica più temuta e criticata da Adam Smith e da tutti i sostenitori del laissez-faire.

E il grande regista occulto della Storia non poteva che disegnare un nuovo capitolo dei conflitti politici internazionali più suggestivo e intrigante di questo: da una parte Trump e il protezionismo, dall’altra la Cina comunista aperta al commercio internazionale.

Saltano gli schemi, le ideologie storiche, i paradigmi consolidati. Anche la guerra commerciale è simbolo della complessità dei tempi che stiamo vivendo.

Ma in questa guerra, risulta davvero complicato schierarsi univocamente.

Da una parte, indubbiamente, il libero scambio ha permesso specialmente negli ultimi vent’anni a ciascun paese di specializzarsi nella produzione di quei beni che può fabbricare in modo relativamente più efficiente ed esportare in parte tale produzione per ottenere in cambio una quantità di altri beni maggiore di quella che potrebbe produrre al proprio interno.

Tuttavia, si registra che nel mondo reale la maggior parte dei paesi impone restrizioni al commercio con l’estero per salvaguardare l’economia nazionale, attraverso strumenti quali dazi, quote sulle importazioni, regolamentazioni e accordi internazionali.

Il timore generalizzato di importanti perdite di posti di lavoro, infatti, ha portato a invocare misure di protezione dalla concorrenza estera in diversi paesi, soprattutto negli USA.

Tale timore è naturale conseguenza di un liberismo globale sfrenato che nell’ultimo decennio si è servito di nuovi sistemi e strategie commerciali per abbattere i costi e massimizzare i profitti.

Uno di questi è Il dumping, cioè l’esportazione di un bene sottocosto a un prezzo inferiore a quello praticato all’interno del paese.

Alcuni paesi sono stati costretti ad adottare misure protezionistiche per contrastare il dumping attraverso tasse volte a controbilanciare i differenziali di prezzi.

Altri fenomeni economici che hanno generato conflittualità nel commercio internazionale e costi sociali all’interno dei singoli paesi, a partire dall’inizio degli anni Ottanta fino ad oggi, sono stati l’outsourcing e l’offshoring che, oltre a creare economie di scala internazionali, di fatto hanno provocato e continuano a provocare il trasferimento all’estero di numerosi posti di lavoro ad alta retribuzione.

Oggi, l’outsourcing di posti di lavoro poco qualificati nel settore dei servizi dai paesi avanzati ai paesi dove i salari sono più bassi contribuisce a ridurre i costi e i prezzi ed è ormai considerato una pratica normale.

Negli ultimi anni, però, anche lavori altamente qualificati e ben retribuiti in settori molto diversi, dall’informatica all’ingegneria aeronautica, dall’investment banking alla ricerca farmaceutica sono stati trasferiti in mercati emergenti, generando notevole allarmismo nei paesi avanzati.

Inoltre, il commercio internazionale ha contribuito ad accrescere le disparità salariali tra lavoratori qualificati e non, soprattutto negli USA, almeno nell’ultimo decennio.

Alcuni economisti sostengono che la crescita delle esportazioni manifatturiere provenienti dalle economie di nuova industrializzazione sia stata la causa principale delle accresciute diseguaglianze salariali e della disoccupazione non solo in America, ma anche in Europa.

Va detto che il crescente aumento delle esportazioni di prodotti alta intensità di competenze e le delocalizzazioni della produzione di componenti a bassa intensità di competenze, favoriti dal libero scambio, hanno stimolato un maggiore cambiamento tecnologico che ha contribuito notevolmente un accentuarsi delle diseguaglianze salariali tra lavori qualificati e non, nelle maggiori economie avanzate.

Tutto ciò ha giocato un peso rilevante nella creazione di un clima di incertezza e di preoccupazione per la classe media americana e per i più fragili, che Trump è stato in grado di incanalare offrendo una risposta semplice, diretta, efficace: America great again.

Il protezionismo di Trump persegue principalmente due obiettivi. Il primo è proteggere l’occupazione nazionale contro la manodopera straniera. Il secondo è sanare il disavanzo nella bilancia dei pagamenti, favorendo la sostituzione di importazioni con prodotti nazionali.

Il risultato di questa strategia è che i vantaggi ottenuti comportano dei costi che vengono scaricati sugli altri paesi ed è probabile che quest’ultimi adottino comportamenti di tipo ritorsivo e alla fine tutti i paesi ne risultino danneggiati.

Inoltre, il protezionismo ha un effetto collaterale indesiderato. Finisce per avvantaggiare pochi produttori nazionali e per danneggiare la maggior parte dei consumatori, costretti a pagare prezzi più elevati dei beni, in assenza una politica fiscale finalizzata alla redistribuzione della ricchezza e all’aumento del salario reale.

Per questo, la disoccupazione interna e i disavanzi di un paese dovrebbero essere corretti con misure appropriate di politica fiscale e industriale prettamente interne.

È necessario che la governance mondiale ed europea interpreti la domanda di sicurezza e di protezione che cresce nella nostra società, annientata negli ultimi vent’anni dal neoliberismo e dalla crescente diseguaglianza sociale.

Occorre una proposta politica in grado di coniugare i benefici derivanti dal libero scambio con la protezione per i diritti sociali ed economici dei lavoratori.

Se da un latoi liberisti sostengono il libero mercato come migliore politica del mondo, dall’altro Trump sostiene il nazionalismo economico.

Nel mezzo, è necessaria una proposta politica, una visione di economia internazionale in grado di coniugare i benefici del libero scambio con la tutela e la promozione dei diritti sociale ed economici dei lavoratori.

Oggi, tale visione sembra far fatica ad emergere.

Grazie a Simone del Rosso per il contributo.

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