L’UE, TRIA E IL FISCAL COMPACT

Daniele Amatulli
Rassegna Stanca
Published in
5 min readMar 16, 2019

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Per anni ci siamo illusi che l’Europa avesse raggiunto una unione economica, ma non ancora politica. La verità è che in questi anni non si è riusciti nemmeno a costruire una vera unione economica in grado di generare sviluppo sociale, crescita economica e occupazione.

Nonostante innumerevoli passi in avanti in materia di armonizzazione finanziaria, commercio internazionale e unione bancaria (dedicherò articoli ad hoc su queste materie), la strada verso un’unione completa è ancora lunga. E in questa fase storica e politica inedita, caratterizzata da un ritorno ai nazionalismi culturali, politici ed economici, la strada verso il federalismo (Stati Uniti d’Europa) si fa più complessa, se non utopica.

Oggi in Europa si aggira un forte vento di destra reazionaria e sociale, il cui consenso cresce con il passare dei mesi, anche a causa proprio delle scelte di politica economica che i paesi UE hanno adottato, rispettando i diktat della Commissione Europea, basate su austerità, smantellamento del welfare state e flessibilità del mercato del lavoro che hanno contribuito ad aumentare le disuguaglianze e le fratture all’interno della società.

Possiamo individuare due macro-fattori che hanno condotto l’UE verso questa strada: i fondamenti macroeconomici del Trattato di Maastricht del 1992, la crisi dell’Eurozona e dei debiti sovrani a seguito della crisi finanziaria del 2008.

In primo luogo, i fondamenti macroeconomici alla base di Maastricht hanno abbracciato la teoria economica monetarista e neoliberista, a discapito della concezione keynesiana della politica fiscale come strumento per il controllo e, in tempi di crisi, per l’aumento della domanda aggregata e del PIL.

Questi rispettano piuttosto, in modo esplicito, il convincimento che gli equilibri di finanza pubblica, e cioè il contenimento del disavanzo e del debito pubblico, siano un obbligo che i singoli Stati devono rispettare per poter fare parte dell’Unione Economica Monetaria.

La medesima concezione della politica fiscale è stata riaffermata e rafforzata dal Patto di Stabilità e Crescita (1996), che mirava a garantire la disciplina del bilancio degli Stati che già facevano parte dell’area dell’euro e che ha introdotto alcuni strumenti di controllo delle politiche economiche dei Paesi membri, ad esempio la tanto citata Procedura di infrazione per Deficit Eccessivo.

Tuttavia, ciò che è accaduto nell’ultimo decennio ha evidenziato i grossi limiti del Patto di Stabilità e Crescita. Già prima della crisi molti Stati aderenti all’UEM cominciarono a evidenziare disavanzi di bilancio e livelli del debito pubblico oltre le soglie raccomandate. Questi stessi Paesi furono costretti a varare politiche fiscali restrittive al fine di rispettare i vincoli imposti, politiche che contribuirono sensibilmente al basso tasso di sviluppo dell’area dell’euro, rispetto al resto del mondo, introducendo rilevanti tagli alla spesa pubblica e, di conseguenza, riducendo significativamente gli investimenti pubblici.

Proprio per questo, nel 2005 l’Ecofin decise di rendere il Patto più flessibile. Nonostante ciò, sono rimaste intoccate e intoccabili i principi economici su cui si fondano le regole di bilancio stabilite da Maastricht, tese a frenare la tentazione dei governi a spendere più di quanto si possano permettere, facendo gravare l’onere della spesa sulle generazioni future. Inoltre, il Patto ribadisce il principio secondo cui le componenti pubbliche della domanda aggregata sono potenzialmente destabilizzanti nel medio lungo periodo e pertanto devono essere controllate per poter garantire la sopravvivenza dell’unione valutaria.

Questa concezione dell’UEM è stata messa in discussione in seguito alla Grande Recessione e dopo la crisi dei debiti sovrani che negli immediatamente successivi ha investito alcuni Paesi periferici dell’area euro. Ma la politica economica dell’UE è stata ancora più lontana dalle teorie keynesiane.

Infatti, nel gennaio 2012 venticinque Paesi dell’UE, fra i quali l’Italia, hanno siglato il cosiddetto Fiscal Compact che restringe ulteriormente i limiti imposti alle finanze pubbliche da Maastricht e dal Patto di Stabilità e Crescita. Questa decisione fu forzata dalla situazione critica in cui versavano i bilanci della maggior parte dei paesi europei, in particolare Italia, Portogallo, Spagna, Grecia. Il Fiscal Compact ha sostanzialmente introdotto due regole principali. La prima è un sostanziale pareggio di bilancio, o meglio il divieto per il deficit di superare lo 0,5% del PIL nel corso di un ciclo economico; la seconda regola stabilisce il percorso di rientro del rapporto fra debito pubblico e PIL nominale per gli Stati inadempienti: dovrà scendere ogni anno di un ventesimo della distanza tra il suo livello effettivo e la soglia obiettivo del 60%.

La vera difficoltà del Fiscal Compact sta, per un Paese indebitato come il nostro, nell’obbligo di avere il bilancio in pareggio. Per consentire all’economia di riprendersi dalla recessione 2012–2013 e imboccare la strada della crescita, sarebbe invece necessaria una forte spinta da parte del bilancio pubblico, per esempio una robusta riduzione della pressione fiscale e un aumento degli investimenti pubblici, come volano di quelli privati, ad alto moltiplicatore keynesiano.

Questa è anche la posizione del Ministro dell’Economia Giovanni Tria che in più occasioni ha pubblicamente criticato il Fiscal Compact, auspicando una modifica delle regole europee nell’interesse della crescita e della stabilità finanziaria e sociale. Tria sostiene che il Fiscal Compact sia stato approvato in un momento molto particolare, introducendo regole rigide che non permettono di affrontare il ciclo economico con politiche economiche adeguate. Inoltre, il Ministro ha più volte proposto nuove regole di bilancio, che permettano di disaggregare l’ammontare degli investimenti pubblici dal calcolo del deficit/PIL, che Maastricht fissa alla soglia limite del 3%.

Proposte condivisibili o meno, resta il fatto che per modificare i trattati e gli accordi europei è necessaria una cooperazione e una mediazione a livello europeo. Questa è l’unica via europeista e responsabile da percorrere per dare una svolta keynesiana all’Unione a favore degli investimenti e della crescita, proprio di quei paesi come l’Italia che non riescono a crescere allo stesso passo dei partner europei.

Sbattere i pugni sul tavolo, alimentare uno scontro istituzionale tra Governo italiano e CE per mere finalità propagandistiche, minacciare l’uscita dall’euro in cambio di flessibilità non sono strategie politiche responsabili e vincenti.

Perché intanto l’incertezza incombe, i mercati si preoccupano, gli speculatori si attivano, lo spread sale, il valore dei titoli di stato scende, le banche vanno in sofferenza, le rate dei mutui salgono e chi paga il conto della propaganda sovranista sono i cittadini.

E il Fiscal Compact resta lì.

Grazie a Simone del Rosso per il contributo.

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