Di come il mobile gaming mangia il nostro tempo

Pietro Ranieri
Ready Player One
Published in
5 min readApr 14, 2016

Il tempo è croce e delizia del genere umano, ma soprattutto per l’ homo videoludus è una risorsa cruciale. Da ragazzino non te ne rendi conto, perché tendenzialmente riuscivi a spaccarti le ore alla tastiera e a finire Baldur’s Gate II in una settimana scarsa — e no, all’epoca i giochi non duravano di media sette ore — ma crescendo la Spada di Damocle dello studio, del lavoro, della vita che ti chiama a staccarti dallo schermo ti punge la nuca con sempre più insistenza. Vidi questo meme, tempo fa, un First World Problem: “I need money for games, I need a work; I have a work, I don’t have time for games”. Tristissima verità.

Per fortuna il tempo che passa ha anche un grande vantaggio: porta soluzioni ai problemi. Sempre per il nostro homo videoludus questa soluzione si chiama progresso. La lenta magia che ci porta, oggi, a poter giocare quel Baldur’s Gate II — e non solo, c’è anche il primo capitolo, e se andate a spulciarvi l’app store ne trovate di questi titoli retrogaming — di cui sopra comodamente sul nostro trono di porcellana (G iochi da Trono never dies, direbbe il nostro mirabile Tasso) grazie a uno schermino da cinque pollici. Perché potevi essere il più grande di tutti, ma ti ci volevo vedere a montarti il Sega Mega Drive in verticale sul letto e giocare allungato prima di andare a dormire.

Il mobile gaming. Eccola, la soluzione. Con l’avvento di smartphone sempre più performanti la qualità e quantità delle applicazioni cresce esponenzialmente e ci conduce a vere meraviglie contemporanee tipo il porting di GTA Vice City e San Andreas per Android e iOS. Non so se vi rendete conto che questo vuol dire poter sfrecciare per le strade della Città del Peccato con VRock a manetta durante il viaggio lavoro-casa in metro. Quaranta minuti che vanno via come la crema. Per un titolo che una quindicina di anni fa richiedeva una signora macchina da gioco.

No, forse non ve ne rendete conto. E nemmeno io. Ma se ci penso, io che ho vissuto le ere dell’informatica dalle schede perforate fino al bluray, ammattisco (c ome direbbe il Cecè di pirandelliana memoria). Ed effettivamente, facendo un piccolo bilancio giornaliero, il tempo che passo tra Clash Royale, Clash of Clans, Pokémon Shuffle ed Hearthstone sul mio cellulare supera grandemente quello che dedico e riesco a dedicare al gaming da PC. Eppure ho speso quasi mille euro per la mia macchina da gioco, si direbbe quasi per vantarmi a chi ce l’ha più lungo visto che la sua occupazione principale, adesso, è il lavoro e non il gaming.

È un paradosso pensare che aver investito tanto in un oggetto non abbia poi effettivamente portato all’utilizzo che avevi programmato. Com’è un paradosso trovare più svago e divertimento nelle app da gioco gratuite piuttosto che in titoli tripla A pluriblasonati. Ma il punto, amici miei, è che il tempo è tiranno. E quando passi la giornata saltando dal treno, al pullman, all’autobus, all’ufficio, all’università, in palestra, a teatro, alle prove… avere in tasca la tua piccola libreria portatile senza neanche il bisogno di una console specifica abbatte completamente qualsiasi barriera. Qualsiasi necessità fisiologica di distrazione che le nostre deboli menti schiave degli ormoni possono avere. Perfino la memoria è inutile quando hai tutto ciò che ti serve comodamente nel telefono cellulare.

Questo può tanto liberarci quanto incatenarci. Non è un caso che tutti i giochi mobile più di successo abbiano sempre una fortissima componente di e-shop. Come non è un caso che siano costruiti in modo da costringere il giocatore a tornare, ciclicamente, per controllare l’avanzamento di un certo obiettivo, per finire una daily o per completare una quest — tutti, anche i simulatori di corse automobilistiche, prevedono sistemi di ricompense giornalieri, fidelizzazione, baiting. Proprio mentre scrivo, un promemoria sul cellulare mi ha ricordato di controllare il miglioramento della mia Torre dell’Arciere al livello 2. E io ho interrotto il mio lavoro e sono andato a vedere, e a rimettere al lavoro i costruttori. Nel mondo delle notifiche, controllare l’addestramento delle truppe su Clash of Clans equivale a vedere chi ci ha taggato in quella foto, o chi ci ha menzionato su Twitter, o a cuoricinare una foto su Instagram. Non c’è differenza, e se agli amanti di Bauman piace parlare di società liquida, qui siamo molto più vicini a qualcosa di pericolosamente aeriforme. Non c’è soluzione di continuità. Siamo immersi in questa bolla atemporale, ci siamo così assuefatti a controllare cosa sta succedendo online che quella struttura di eterno presente (la nowness, direbbero i sociologi) costruita per impiegare ciclicamente il nostro tempo in una maniera che dovrebbe essere divertente, ce lo fagocita senza che nemmeno noi ce ne si renda conto.

Blip, notifica.

Click, riscuoti ricompensa.

Ri-click, addestra truppe.

Chiudi l’applicazione.

E aspetta il prossimo blip.

C’è un che di sinistro in questo modo di giocare. Sempre che di giocare si possa parlare, ovviamente. Ma non è mio obiettivo discutere di questo: mi fa solo pensare come avere questo potere immenso nel palmo delle nostre mani ci consenta da un lato di riappropriarci del nostro tempo di videogiocatori, di homini videoludis, mentre dall’altro questo stesso tempo sia così scandito, compattato, compresso e regolato da aver più o meno consapevolmente ceduto il nostro divertimento in funzione di comportamenti routinari decisi da un’applicazione.

E non so fino a che punto macinare ore del nostro tempo dietro alle notifiche sia davvero una conquista tecnologica, umana, e videoludica. Sarà per questo che ultimamente sento così tanto la mancanza dei cari, vecchi giochi da tavolo?

Originally published at https://theshelter.online on April 14, 2016.

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Pietro Ranieri
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