Jessica Jones, recensione della prima stagione

Pietro Ranieri
Ready Player One
Published in
7 min readNov 30, 2015

Se c’è una cosa positiva capitata a noi appassionati di fumetti in questi ultimi anni di affermazione totale — e totalizzante, mi viene da dire — del genere cinefumetto è la serializzazione dei prodotti cinematografici e televisivi. Niente giova più a storie così complesse e intricate come possono essere quelle supereroiche quanto una ragionata e intelligente divisione della narrazione. I cosiddetti one-shot funzionano molto su carta, ma quando hai davanti personaggi con decenni di storie alle spalle non li si può liquidare con due ore di girato.

Ora: se questo a lungo andare sta degenerando da un lato, privando completamente o quasi i prodotti di genere del loro caratteristico sense of wonder — si, parlo con te, Age of Ultron — dall’altro costringe le case produttrici a inventare qualcosa di nuovo per tenere sveglio, appassionato e fidelizzato il pubblico. Se il successo di Marvel e Disney sui propri supereroi non fosse stato così travolgente, la DC Comics e Warner bros. probabilmente non avrebbero mai deciso di costruire un proprio universo che ci consentirà di vedere finalmente insieme sul grande schermo Batman, Superman e Wonder Woman ( anche se bastava fermarsi già ai primi due per generare un evento mai visto prima). Ancora: è grazie all’applicazione delle idee di serialità ma soprattutto di continuity al mondo televisivo che Arrow e The Flash, pur nella loro struttura inizialmente semplice, stanno costruendo un vero e proprio universo narrativo nuovo e destinato ad ampliarsi parecchio quando in gennaio arriverà sugli schermi di TheCW anche Legends of Tomorrow.

C’è un ulteriore punto di sviluppo sul quale però il Marvel Cinematic Universe sta facendo scuola: la narrazione di contorno. Ovvero l’esposizione del retroscena, del giorno dopo; di ciò che succede dopo l’attacco alieno dei Chitauri o la caduta dello SHIELD. Di come la gente comune vive questi enormi cambiamenti in un mondo in cui esseri umani camminano fianco a fianco a giganti gamma e dei della mitologia.

Questo però non è un aspetto che può essere esplorato da Agents of S.H.I.E.L.D. che, pur nella sua struttura interessante, mantiene una certa qual voglia di restare dentro quel mondo fatto di leggende viventi che mal si coniuga a questa necessità narrativa del tenere i piedi per terra — non tutti riescono a volare, dopotutto: Marvel questo lo sa, e per conservare una sua coerenza non ha rinunciato alla faccia più quotidiana, terrena e sporca di questo giocattolone che è diventato il MCU.

LA RIVINCITA DEI COMPRIMARI

Per questo ci si è rivolti a quei personaggi che meno hanno potere sulle grandi catastrofi cosmiche, ma le cui battaglie si consumano giorno per giorno, contro spacciatori agli angoli delle strade e tagliagole disposti ad accoltellarti a tradimento per una manciata di dollari. In questo aspetto, prima di ogni altra cosa, va identificato il successo di Daredevil, andata in onda non a caso su Netflix lo scorso aprile: nel suo essere “grounded” o — come si dice negli articoli colti — “hard boiled”, scavata direttamente dalle pagine di quei giornaletti pulp che tanto Frank Miller amava e che intuì essere la giusta atmosfera per il Diavolo di Hell’s Kitchen. Dico “non a caso su Netflix” perché solo su questa piattaforma ci si può concedere il giusto grado di realismo e violenza, senza crollare nella stucchevole situazione per la quale una catastrofe ecologica, climatica e planetaria come la distruzione di un’intera città trasformata in meteorite provoca una sola e unica vittima e nemmeno tra i civili.

Dunque, Marvel su Netflix riesce a esplorare tematiche e aspetti meno spettacolari del proprio universo narrativo senza dover fare rinuncia alcuna. E non solo perché qui ogni serie “è come se fosse un film di tredici ore” — frase tanto amata attualmente per descrivere il successo di questi prodotti. La verità è che solo qui si poteva costruire una serie su un’eroina alcolizzata, sboccata, dura e pura come poche altre, amante del buon sesso e con un passato difficile di violenze e abusi. Solo su Netflix si poteva rendere giustizia a Jessica Jones.

La nuova serie disponibile dal 22 Novembre scorso è infatti tutto questo e molto di più: il tema della violenza sulle donne — seguito dalla successiva rivalsa — è tanto delicato quanto difficile da trattare; forse calarlo in un contesto di superesseri lo edulcora e lo rende più semplice da digerire, ma qui ci troviamo di fronte a un intero prodotto imperniato sul rapporto tra la protagonista, che è anche vittima, ed un antagonista che è uno stalker ossessivo, terribile e maniacale. Ma per certi versi più semplice, perché ha i superpoteri, giusto?

DOTTORI PORPORA E INVESTIGATRICI TOSSICHE

Sbagliato. David Tennant è un Kilgrave/Uomo Porpora assolutamente eccezionale. Assieme al Kingpin di D’Onofrio il miglior villain mai apparso finora nel cinematic universe — e non me ne vogliano le fangirl di Tom Hiddleston. È spietato, crudo, eccentrico, capriccioso, lontano anni luce dall’ipercinetico Dottore a cui siamo abituati ad associarlo; e la totale assenza di legacci dovuti al rating o a censure di sorta gli consente di esprimere al meglio la perversione e i capricci sadici di un bambino troppo cresciuto e della sua incrollabile volontà nel plasmare il mondo a suo desiderio (“Come si fa a vivere così? A sperare che la gente faccia ciò che vuoi?”). E il suo rapporto con Jessica è emblematico: si insinua nella sua vita come uno spettro, un fantasma del passato deciso a distruggerla per poterla conquistare. Kilgrave è convinto di amarla, pur non sapendo effettivamente cosa sia l’amore e scambiandolo con il proprio desiderio, proprio come uno dei tanti maniaci che si sentono in televisione, egoista come un bambino. E proprio come un bambino, ritiene di essere al centro del mondo: solo che ha il potere per costringere tutti a obbedire al suo egoismo. Ed è difficile non credere che ci siano tante, troppe persone già a piede libero che lo userebbero altrimenti.

Jessica d’altro canto è meravigliosamente interpretata dalla tormentata Kristen Ritter, che riesce a mettere molto del suo nel personaggio — quell’eterna aria sfatta che la caratterizzava anche in Breaking Bad, ma che non le toglie un briciolo di femminilità — senza snaturarlo: una vera badass, ma anche una ragazza normale nonostante la superforza, fragile e speciale nella sua umanità. Jessica sbaglia, cade, le prende — malamente, in certi casi — e si rialza, nella consapevolezza di non essere e non poter contare né sul tizio verde né su quell’altro con la bandiera. Qui, sulla strada, ci si sporca le mani: e il fatto che la protagonista sia donna risolve almeno parzialmente il grosso problema di Marvel con i personaggi femminili. La showrunner Melissa Rosenberg ha fatto un ottimo lavoro, al pari di quello svolto da Stephen S. DeKnight sul buon Murdock: non solo per le scene più spinte, per il sesso che finalmente irrompe in questa narrazione così spudoratamente pudica e la violenza senza censura, ma anche e soprattutto perché Jessica nel suo essere un personaggio minore è protagonista. Con una maggiore presenza scenica di tutte le altre donne Marvel apparse finora. È un’eroina che non ha bisogno di essere comprimaria, anzi qui è l’eroe ad essere tale: un Luke Cage interpretato da Mike Colter direttamente uscito da un albo a fumetti. Luke Cage che forse risulta per questo un po’ sottotono, ma per il quale nutro enormi speranze sulla sua serie da titolare in vista di Iron Fist e Defenders.

Prodotti come Jessica Jones dimostrano incontrovertibilmente che un’altra narrazione è non solo possibile, ma auspicabile

Sottotono è un aggettivo che andrebbe attribuito anche ad altri elementi della serie, come la conclusione — non un vero e proprio confronto, decisamente frettolosa rispetto al percorso per giungervi, e molto meno soddisfacente delle botte da orbi tra Devil e Kingpin — e ad alcuni elementi narrativi che stonano nel contesto di thriller psicologico che si è voluto dare al prodotto, il quale pur abbondando di superumani manca totalmente della componente supereroica intesa come “tizio che si maschera per combattere il crimine”. Se Daredevil era anche questo, Jessica Jones in pratica non lo è per nulla. Non che questo tolga qualcosa alla caratura della stessa, ma può lasciare un po’ interdetti davanti ad alcune scelte non sempre coerenti; a dirla tutta, in alcuni episodi volevo lanciare il tablet dalla finestra per le decisioni assolutamente stupide e senza senso prese da certi personaggi.

Il cast dei comprimari è molto solido, da Trish Walker a Jeri Hogart, una Carrie Ann Moss invecchiata malissimo dai tempi di The Matrix ma ancora incredibilmente magnetica. Jeri, peraltro, è l’adattamento televisivo dell’avvocato Jeryn Hogart, legale della famiglia Rand: se sia un possibile collegamento con Danny Rand e, appunto, l’imminente Iron Fist, solo il tempo ce lo dirà.

Ed è qui che si chiude il cerchio. Perché prodotti di questa qualità, nati per completare e impreziosire l’universo cinematografico principale, da semplici comprimari rischiano di offuscare le star se non addirittura batterle. Perché personalmente aspetto con molta più gioia e hype la prossima serie Marvel per Netflix che non il prossimo film (magari su Dottor Strange posso fare un’eccezione).

E se questo sicuramente è un bene per chi ama un certo tipo di prodotti, non è sintomo di salute per un mercato che ha puntato tutto sugli appassionati per esplodere. La sovrasaturazione è dietro l’angolo, e prodotti come Jessica Jones dimostrano incontrovertibilmente che un’altra narrazione è non solo possibile, ma auspicabile.

8,5

Originally published at https://theshelter.online on November 30, 2015.

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Pietro Ranieri
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Lawful Good doesn’t necessarly mean Lawful Nice. I write for The Shelter Network