Si, ma gli Youtuber le pagano le tasse?

Pietro Ranieri
Ready Player One
Published in
5 min readMay 30, 2019
Lo youtuber St3pny

Per i non addetti ai lavori c’è una domanda classica, che spesso mi viene rivolta: “Ma come e quanto guadagna uno Youtuber?”. Ebbene, il ‘quanto’, come immaginerete, dipende dai numeri. Il ‘come’, invece, è semplice: con le pubblicità. Più un content creator riesce a produrre video, articoli, foto che creano engagement — portando quindi più numeri sul suo profilo — più le aziende sono interessate a far ospitare le proprie pubblicità sul sito del content creator in questione, o sul suo canale Youtube, o sui suoi canali social. Questo, di base, è anche il principio di base degli influencer. Ovviamente la questione è molto più complessa di così, però di fondo potete pensare a un canale YouTube come a uno televisivo, dove le aziende pagano perché sia trasmessa la propria pubblicità. La differenza sostanziale, nel mondo di internet, è che l’azienda paga per la pubblicità un provider di servizi (nel caso di specie, Google) il quale ripartisce parte dei proventi ai content creator. Di fatto, Google vende spazi pubblicitari alle aziende con le quali ha regolari contratti e riconosce poi ai proprietari del video una sorta di obolo per quegli spazi sui loro contenuti.

Quello che mi sono sempre chiesto io, invece — almeno da quando sono diventato un trentenne a partita Iva carico di responsabilità — è: “Ma uno YouTuber le paga le tasse?”. Beh, a quanto pare, non sempre come dovrebbe. Proprio in questi giorni è scoppiato il caso di St3pny, al secolo Stefano Lepri, 24 anni, noto youtuber toscano dai numeri che fanno girare la testa: 3,7 milioni di iscritti al suo canale, 40 milioni di visualizzazioni al mese, 1,8 miliardi in totale dal 2010. Il buon Stefano ha anche un secondo canale, più piccolo e meno utilizzato: sono ‘solo’ 730mila iscritti. Un esercito di seguaci, tra followers ed haters, che ovviamente rimbalza sulle varie pagine social di Lepri (2,1 milioni di followers su Instagram, per dire). Un piccolo impero. Che però pare abbia un bel po’ di ombre. Sembra che Lepri avrebbe infatti utilizzato dei contratti stipulati con agenzie pubblicitarie esterne per far perdere le tracce dei compensi e non pagare il dovuto allo Stato. E non parliamo di bruscolini: la Guardia di Finanza contesta allo youtuber circa 1 milione di euro evasi nel periodo tra il 2013 e il 2018, cioè 600mila euro di ricavi non dichiarati e 400mila euro di Iva non versata. Il problema alla base è che St3pny, come tantissimi altri influencer, youtuber, artisti su Patreon e simili, risulta completamente sconosciuto al fisco e non compare in nessun albo professionale, in nessun registro della Camera di Commercio, dell’Inps o dell’Agenzia delle Entrate. Più o meno come escort e simili, insomma. Quando invece youtuber e influencer dovrebbero esser considerati dei professionisti ed emettere fattura, visto che producono reddito da lavoro autonomo e che questo va inquadrato — come, del resto, ciò che faccio io con il mio lavoro di consulenza — con una classica partita IVA, diritto d’autore o altre forme legalmente ammesse. E dato che i guadagni derivano dalla pubblicità, sarebbe necessaria l’iscrizione alla Camera di Commercio e alla gestione Inps commercianti dato che gli introiti risultano derivanti da un’attività commerciale. Dubito fortemente che ci sia un solo YouTuber in Italia — tra quelli che guadagnano davvero, ovviamente — a rispettare anche solo uno di questi requisiti.

Questa è la prima volta che in Italia si parla della questione. E ci può stare: il mondo dell’internet ha generato tutta una serie di nuove professioni che cinque anni fa non esistevano neanche, e muovendosi nel vuoto normativo il passo verso l’illecito è davvero breve. Del resto, lo scorso anno anche l’Agcom ha denunciato la necessità di imporre una stretta verso gli influencer e la loro pubblicità occulta. Oggi, come riportato da ilpost,

St3pny ha replicato in un comunicato (o meglio, in un altro video sul suo canale da centinaia di migliaia di views, NdR) dicendo di «aver sempre pagato le tasse in buona fede» e che «a seguito di vari incontri con la Guardia di Finanza in cui ho cercato di raccontare il mio lavoro, a loro in parte sconosciuto, è emerso da una loro interpretazione che il modo in cui ho pagato le tasse fosse da rivedere. Se ci sarà da rimediare a un pagamento sarà fatto in modo molto sereno con la speranza che il mestiere dello youtuber venga regolamentato presto, in modo da evitare complicazioni per tutta la categoria».

Ma evidentemente non è bastato, perché pare che le fiamme gialle abbiano già nel mirino altri youtuber. Ma come sempre il problema è molto semplice: l’Italia è un paese vecchio, comandato da gente che pensa da vecchio, con un elettorato che ragiona cinquant’anni indietro e con una regolamentazione sulla comunicazione a volte vecchia anche di settanta, ottant’anni, quando addirittura non esistente (vedi la questione del silenzio elettorale sui social network). Parlare di queste cose è come parlare delle basi su Marte, qui. Non solo non c’è normativa, ma viene anche ritenuta di second’ordine rispetto ad altre questioni — quando qualcuno si pone il problema, ovviamente, cosa già di per sé rara.

Il giro di soldi dietro YouTube, Patreon — dove addirittura si parla di ‘donazioni’ — o altre piattaforme di questo genere è imbarazzante. Parliamo di centinaia di migliaia di euro che giornalmente vengono sborsati dai supporters e finiscono nelle tasche di ‘artigiani’ senza partita Iva, senza regime fiscale di alcun tipo, fuori da qualsiasi schema e controllo. Tantissimi artisti che sono sicuramente in buona fede. E tanti altri che, nel dubbio, approfittano di una zona grigia… Guadagnandoci parecchio. E poi, ci sono i piccoli imprenditori come me, che devono sentirsi proporre porcate come la flat tax. Ma come si fa a non essere sempre, perennemente girati di coglioni davanti a queste cose? L’economista Tito Boeri — che chissà come mai, è stato tolto di mezzo da qualsiasi posizione amministrativa — ha dichiarato:

“Esistono diversi personaggi in rete che guadagnano centinaia di euro con sedicenti donazioni, convinti di non dover dichiarare i loro guadagni in quanto tali. Eppure, làddove mettiamo degli step con cifre specifiche, ed offriamo una ricompensa a chi decide di donarci qualcosa, di fatto ha luogo uno scambio commerciale di beni e servizi veri e propri non dichiarato al fisco. Si tratta di realtà nuove per l’Italia, ma è bene capire come recuperare e regolarizzare questi capitali precedentemente non dichiarati.”

Ma guarda un po’.

Quello che sfugge ad ambo i lati è anche un altro punto: è vero che mettersi in regola ti sottopone a degli oneri e a dei doveri, ma ti conferisce anche dei diritti e delle qualifiche. Sarebbe una tutela duplice, sia da un punto di vista fiscale che professionale: si uscirebbe dallo schema classico che vede questi soggetti ridicolizzati e trattati come bambinoni troppo cresciuti. “Mica penserai di campare con Patreon per sempre?” è però una frase quanto mai vera nel contesto attuale. Perché purtroppo viviamo in un Paese che, al posto di ragionare nel presente e attuare una normativa seria, preferisce abolire le cose. È più facile. Vedi il caso Uber. Facciamo finta che domani le associazioni di piccoli imprenditori e di artigiani (che pagano le tasse) improvvisamente si accorgano di tutta questa faccenda e per un motivo o per un altro insorgano similmente a come hanno fatto i tassisti. Cosa succederebbe, secondo voi?

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Pietro Ranieri
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Lawful Good doesn’t necessarly mean Lawful Nice. I write for The Shelter Network