Cliniche legali, “a narrative approach”

Intervista a Flora Di Donato

RebLaw Torino
reblawtorino
15 min readMay 7, 2020

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Di Luca Virano

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RebLaw, 30 aprile 2020

LV: Salve a tutti, e benvenuti ad un altro podcast di «è tutto scritto!»

Oggi siamo con Flora Di Donato. Flora è stata una delle prime amiche di RebLaw Torino, è Professoressa di filosofia del diritto all’Università Federico II di Napoli, dove insegna Formazione Clinico-Legale.

Benvenuta e grazie per aver — ancora una volta — accettato il nostro invito. Di recente hai pubblicato con Routledge il volume “The analysis of legal cases. A narrative approach”, che affronta temi non scontati nelle Facoltà di Giurisprudenza, tra cui l’investigazione fattuale, la funzione della narrazione ed il ruolo delle cliniche legali nel supportare clienti vulnerabili.

E partendo proprio dalle cliniche legali, come prima domanda vorremmo chiederti: cosa sono e quali obiettivi si pongono dal tuo punto di vista?

FdD: Dal mio punto di vista non esiste una definizione univoca di clinica legale, dal momento che le cliniche legali trovano radicamento nelle specifiche realtà in cui esse vengono attivate.

Tuttavia, da filosofa e sociologa del diritto — questo è l’ambito disciplinare al quale mi sono formata — posso dirvi che una prima formalizzazione del concetto di clinica legale, storicamente, si fa risalire al realismo americano. Fu Jerome Frank (1), esponente di punta dell’area realista che, intorno al 1930, propose in modo rivoluzionario per i tempi che agli studenti delle Facoltà di giurisprudenza venisse data l’opportunità di “assistere ad operazioni legali” — proprio come accadeva già per gli studenti della Facoltà di medicina.

Quindi, quando parliamo di clinica legale, parliamo di un modello sostanzialmente importato dagli USA” — sebbene si discuta delle sue possibili origini europee” — e sebbene l’Europa (l’Italia inclusa) conosca oggi le sue proprie declinazioni clinico-legali (2). Gli scopi immaginati per questo tipo di educazione, sin dal tempo di Jerome Frank, erano almeno tre: 1. Passare dal modello dello studio del diritto “nei libri” — sino ad allora dominante, ad Harvard, con Christopher Langdell per il quale la biblioteca rappresentava “the laboratory of legal science” e l’essenza dell’esperienza giuridica consisteva in “learning law” — allo studio del “diritto in azione” (come il diritto prende forma nei tribunali, negli studi legali); 2. Consentire agli studenti di entrare in contatto con il lato umano dell’amministrazione della giustizia, affidando loro “la cura di clienti” considerati come human beings; 3. Farsi carico della difesa dei clienti vulnerabili (powerless) offrendo loro forme di gratuito patrocinio, all’interno delle Facoltà di giurisprudenza (visto che non esiste-va il legal aid).

Programmi di educazione clinico-legale si diffonderanno nelle law schools americane solo più tardi, verso la fine degli anni 1960-inizi anni 1970, in coincidenza con i movimenti di rivendicazione dei diritti delle minoranze (sociali, politiche, di genere). La provocazione e l’invito ad utilizzare il diritto in maniera critica, come strumento di emancipazione da forme di oppressione sociale e politica, proverrà da giuristi come Anthony Amsterdam, Gary Bellow ed altri impegnati nella lotta per il cambiamento sociale, attraverso lo sviluppo di un pensiero critico.

A seguire, tra gli anni 1980 e 1990, prenderà forma la cd. ala ribelle della clinical legal education, il movimento del rebellious lawering — cui Voi di RebLaw Torino, preceduti da colleghi di atenei americani, Vi ispirate. Questo movimento sociale e politico — che porta la firma di autori del calibro di Gerald López, Lucie White, Anthony Alfieri — prevede forme di collaborazione con i clienti e le comunità da cui essi provengono, lavorando come “alleati” nella soluzione di problemi giuridici. Lo scopo è di insegnare ai clienti a farsi carico delle proprie esistenze diventando attori politici, sulla base dal convincimento che la mancanza di consapevolezza comporti dipendenza, passività e rischi di creare una cultura della povertà.

LV: Tu, Flora, in che misura ti ispiri a questi ideali?

Provo ad ispirarmi a questi ideali, dando spazio — nelle mie attività di ricerca ma anche di didattica all’interno del mio corso di Formazione clinico-legale II — a forme di collaborazione con clienti — che siano vittime di tratta o vittime di mobbing, giusto per citare un paio di esempi. Il punto di vista del/la cliente, la sua storia, rappresentano per me il filo rosso nella ricostruzione del caso. Tendo a concepire la clinica come “uno spazio collaborativo e di condivisione di conoscenze” tra attori esperti (avvocati, giudici, operatori sociali) e non esperti (clienti). L’idea è che — attraverso una presa di coscienza dei propri diritti unitamente alla comprensione del generale contesto sociale ed istituzionale (delle regole implicite ed esplicite) — la/il cliente possa sviluppare un’adeguata forma di “agentività legale”. Esistono situazioni in cui la/il cliente deve autorappresentarsi. Penso, per esempio, alle audizioni dei/delle richiedenti asilo dinanzi alle commissioni territoriali, dove vi è solo un modo di essere accolti come rifugiati: raccontare in maniera coerente e credibile il proprio percorso/la propria storia (le ragioni per cui si è deciso di partire chiedendo accoglienza nel nostro Paese). Non essendo prevista una difesa tecnica di ufficio dinanzi alle commissioni territoriali — trattandosi di una fase amministrativa — la clinica può avere un ruolo importante nell’ascolto ed orientamento del/la cliente, nel fare un lavoro di mediazione legale e culturale nel percorso istituzionale che attende il/la richiedente, spiegandogli quali sono le attese della commissione territoriale, contestualizzando il tipo di domande, a partire da quelle anagrafiche. Domande che, se per noi sono scontate, non lo sono per chi proviene da un contesto in cui l’anagrafe non esiste affatto…!

Ed è in questo senso che stiamo lavorando, da oltre un anno, in collaborazione con i magistrati della Corte di Appello di Napoli (sezione famiglie e migranti), con studi legali attivi nella difesa degli stranieri ed associazioni di volontariato. Abbiamo attivato delle convenzioni — all’interno del nostro Dipartimento di Giurisprudenza –per permettere agli studenti di coadiuvare i magistrati di Corte di Appello nella ricerca di informazione sui Paesi di origine dei richiedenti asilo, provando così a colmare una lacuna che è propria del sistema italiano che non ha la sua unità COI. Siamo inoltre affiancati da avvocati esperti di questo ambito che ci aiutano a capire in concreto come si supporta tecnicamente e umanamente una persona che fa domanda di protezione internazionale nel nostro Paese. Discorso analogo stiamo facendo per la protezione dei rom e degli apolidi — dei quali non si sa quasi nulla in Italia — per i quali abbiamo appena concluso una specifica formazione con i colleghi dell’UNHCR e del team Justrom finanziato dal Consiglio d’Europa. Formazione certificata e propedeutica ad una fase successiva in cui saremo noi a farci carico della difesa di casi di apolidia, per esempio.

LV: Nell’introduzione al tuo corso descrivi “tre traiettorie” del metodo clinico: la linea “pedagogica” (imparare facendo), il cd. “lawyering” e l’impegno dell’avvocatura per la giustizia sociale. Concentrandoci sulla seconda e la terza traiettoria, tu parli di una “teoria della pratica professionale”: che cosa si intende? e quindi qual è l’immagine del giurista che la clinica propone agli studenti? quali devono essere le sue abilità? cosa deve essere capace di fare?

FdD: Mi piace ricorrere a questa tripartizione che non è mia ma della mia amica e collega Ann Shalleck che dirige il Women and the Law Program presso l’American University (Washington) e che ha contribuito in prima persona alla storia del movimento clinico. Trovo molto ben fatto il saggio di Ann dal titolo Verso una giurisprudenza del pensiero clinico, pubblicato in un volume che abbiamo curato alla Federico II, all’esito di un convegno dal titolo “La diffusione dell’insegnamento clinico in Europa e in Italia. Radici teoriche e dimensioni pratiche”, organizzato nel 2015 per fare il punto della diffusione dell’approccio clinico in Europa e in Italia.

Ann Shalleck spiega bene, nel suo saggio, come al centro della pedagogia clinica vi sia il lawyering — che ha che fare col modo in cui gli avvocati esercitano la professione. Si tratta di una “teorizzazione della professione di avvocato”. Oserei dire — ricorrendo ad uno strano giro di parole — che si tratta della “professionalizzazione del mestiere di avvocato”. Essere avvocati clinici significa perseguire in primo luogo obiettivi di giustizia sociale: “imparare ad utilizzare il diritto per sradicare le ingiustizie che esso stesso può provocare” (3). Ridurre le ineguaglianze nell’accesso alla giustizia a favore dei soggetti vulnerabili — ciò che nelle parole di Wilson (2018) si potrebbe definire “lawyering with conscience” — è il principale ideale cui l’educazione clinico-legale si ispira su scala globale.

Il metodo clinico, sempre per citare Wilson, è qualcosa di più di un metodo (more than a method): si tratta di un percorso personale e di professionalizzazione che volge la sua attenzione a categorie di clienti vulnerabili/demuniti/inascoltati; che mira a coniugare il mondo del diritto coi bisogni sociali: per esempio i bisogni dei richiedenti asilo, dei rom, degli apolidi, delle persone senza fissa dimora, dei detenuti (4).

Pensiamo a quanti rischi queste categorie di persone vulnerabili sono esposti al tempo del Covid 19, a causa dell’affollamento delle carceri o dei centri di accoglienza per richiedenti asilo, per esempio, o addirittura per l’assenza di una dimora o di un centro di accoglienza nel caso dei senza fissa dimora. Per darvi un esempio di azione clinica, il Coordinamento nazionale delle cliniche legali italiane ha inviato qualche giorno fa un appello alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Giustizia e al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria in merito all’emergenza sanitaria negli istituti penitenziari chiedendo il carcere domiciliare per alcune categorie di detenuti. Allora essere avvocati clinici significa essere interpreti di istanze sociali, nell’hic et nunc delle contingenze storiche; significa avere nella cassetta degli attrezzi strumenti che non sono solo tecnici ma sono umanistici.

LV: Si tratta di un approccio, questo che hai citato, di cui si avvale anche il professor Paolo Heritier, tuo collega e amico, nei suoi corsi di cliniche legali dell’università di Torino e del Piemonte orientale.

Come sapete, con Paolo Heritier abbiamo organizzato incontri scientifici sul nesso tra law and humanities e cliniche legali, per sottolineare l’importanza del connubio tra formazione umanistica del giurista e cliniche legali. Non possiamo non ripartire dalle radici-storico filosofiche che sono proprie della nostra tradizione culturale europea e italiana nel dar vita ad una clinica legale. È questo che fa la differenza tra l’essere avvocati tout court ed essere clinici accademici: noi proviamo a trasmettere un messaggio di complessità ai nostri studenti. Si tratta di praticare un approccio inclusivo che si fonda su competenze tecniche ma ancora di più sull’interdisciplinarietà e sul plurilinguismo. Si tratta di due parole-chiave e strettamente pertinenti quando si parla di lawyering: l’avvocato è un conoscitore ed un traduttore di linguaggi. Deve conoscere il linguaggio, in senso lato, del suo cliente per poterlo tradurre dal mondo quotidiano al mondo del diritto. La settimana scorsa, collegandoci via Teams con Luigi Migliaccio — l’avvocato che ci affianca in questo percorso e che è noto per il suo impegno nella difesa dei diritti degli stranieri — abbiamo analizzato il caso di due richiedenti asilo arrivate nello stesso momento in Italia dalla Nigeria e che al momento della richiesta di rinnovo del permesso hanno ottenute risposte diverse, l’una positiva e l’altra negativa. La persona difesa da Luigi Migliaccio, Favor, scopre — sul punto di essere riesaminata dalla Commissione e nel dialogo con il suo avvocato — di aver subito mutilazioni genitali da bambina. Ne ottiene conferma attraverso un colloquio telefonico con la madre e comincia da quel momento un percorso di presa di coscienza che si traduce nella richiesta da parte del suo legale di riconoscimento di una vulnerabilità per ragioni di genere che sarà ovviamente provata attraverso esami medici. L’amica di Favor, arrivata ed accolta nello stesso momento in Italia, non ha ottenuto analoga tutela. La domanda dei miei studenti è stata perché? Semplicemente perché né dal colloquio con la Commissione territoriale né dal colloquio col difensore di Confort — questo lo pseudonimo dell’altra richiedente asilo — sono emerse queste specificità “culturali”. Cosa c’è stato di diverso nel trattare questo caso? A Confort nessuno aveva chiesto se avesse subito la mutilazione: «è mancata l’opera di maieutica: nessuno aveva esercitato quest’arte su Confort. Nessuno aveva fatto emergere quei diritti. I diritti sono immanenti ma voi dovete tirarli fuori: dovete essere gli anticorpi del sistema». Questa è stata la lezione di Luigi Migliaccio ai miei studenti di Formazione clinico-legale II. Aggiungerei, inoltre, che un bravo avvocato deve essere capace di immaginare “storie alternative” — proprio come Migliaccio ha fatto con Favor — controbilanciando storie tipizzate scontate/stock con storie “ribelli”.

LV: Parli di storie — “stock” o alternative — e nei tuoi lavori dai un rilievo centrale al cosiddetto storytelling: di cosa si tratta, e in che modo si lega al superamento della visione “tradizionale” dell’accertamento fattuale nel processo?

FDD: Quando si parla di storytelling e costruzione fattuale, facciamo riferimento ad un’opzione epistemologica, innanzitutto, che rinvia al cd. costruttivismo sociale — sia pure di tipo non radicale. L’idea è che l’accesso alla conoscenza della realtà sia mediato dal nostro bagaglio di conoscenze ed esperienze, dalle nostre visioni culturali. L’accento è sul significato (meaning making): è il rifiuto del convincimento che la realtà — nel processo (e in generale) — sia riproducibile in quanto tale; che i fatti stiano da qualche parte in attesa di essere scoperti. Jerome Frank aveva già avuto questa intuizione: “facts are not data”, aveva affermato. Sono stati tuttavia i costruttivisti sociali a teorizzare quest’approccio, prima nel campo delle scienze sociali (gli psicologi sociali, gli antropologi, i sociologi) e poi nella teoria del diritto, in area anglo-americana, innanzitutto e poi anche in Europa. In Italia c’è stato il mio lavoro di tesi nel 2008 (La costruzione giudiziaria del fatto. Il ruolo della narrazione nel processo) che è appunto un lavoro interdisciplinare con una base empirica, sociologica. Nel 2009, Michele Taruffo, rimanendo agganciato ad una prospettiva teorica e da processualista, ha pubblicato un volume dal titolo La semplice verità. Come i giudici costruiscono i fatti, che riguarda principalmente la decisione giudiziaria.

Io attiro l’attenzione sul ruolo dei diversi attori (in primis il cliente che normalmente scompare nel ruolo di “parte processuale”) impegnati nel processo di costruzione narrativa nel processo, che è sostanzialmente un contesto comunicativo. I fatti nel processo non entrano nella loro materialità bensì sotto forma di enunciati linguistici o più esplicitamente sotto forma di narrazioni. Tali narrazioni sono costruite ex post dalle parti, in funzione della versione della realtà che essi intendono provare come vera nel processo. Si tratta di costruzioni mediate da una serie di fattori: dal contesto normativo, culturale ed istituzionale; dai ruoli svolti dalle parti; dalle loro emozioni, percezioni, background culturale, etc.

In questo tipo di approccio, lo storytelling non va inteso banalmente come “uno strumento di manipolazione linguistica” o per dirla con Caroline Grose “una cattiva parola” (5) — come è stato rappresentato soprattutto fino agli inizi degli anni 1980 — ma è uno strumento quotidiano — nell’attività di lawyering e di judging , funzionale alla messa in forma della realtà, grazie alla costruzione di nessi causali e temporali che non esistono in natura ma sono creati in un contesto narrativo. Narrare è conoscere: questa è l’essenza del narrativismo.

Inoltre le storie sono “una forma di collante sociale”: è attraverso le storie che narriamo quotidianamente che diventiamo membri della stessa collettività (direbbe Jerome Bruner): pensate alle diverse narrazioni al tempo del Covid 19, che vanno dal negazionismo di alcuni governi al protezionismo di altri. Esse orientano le coscienze e l’azione collettiva: “possiamo pensare di immunizzarci attraverso il contagio” oppure “stare a casa/lock down”, a seconda di come la propagazione del virus ci viene rappresentata dalle autorità. Poi magari è prevalso il buon senso e dunque una narrazione quasi univoca, condivisa tra i diversi governi europei.

Lawyering significa allora fare un uso consapevole dello storytelling non solo da parte dell’avvocato ma anche del giudice (su questo rinvio ad un volume recente di Jeanne Gaakeer, dal titolo Judging from experience, 2019), degli altri operatori giuridici in senso lato. Pensate al lavoro della mediatrice culturale, nel caso di Margareth-vittima di tratta, che Vi ho presentato lo scorso anno nell’ambito della I edizione del RebLaw. Il lavoro di identificazione della vittima — affidato ad enti anti-tratta ai fini della domanda di riconoscimento di protezione internazionale — è in quel caso condiviso da un avvocato e da una mediatrice culturale: se da un lato il ruolo della mediatrice è quello di spiegare alla cliente la cornice istituzionale, la funzione dei colloqui per ricostruire il suo percorso, dall’altro, pur di “ottenere la storia” la mediatrice culturale mette la cliente sotto pressione, provando da subito a canalizzare la storia verso binario prefissati, per rispondere alle attese della commissione territoriale che dovrà esaminarla. Probabilmente questo tipo di comportamento è funzionale ad un risultato tecnico ma è poco rispettoso della cliente che non ha margine per raccontare la propria storia e che è sfidata/messa alle strette da un’affermazione del tipo “truth is inside you and you cannot forget it… so please tell the story”.

Ecco, questo esempio, raccontato qui in modo esemplificativo, è un cattivo esempio di lawyering e di storytelling collaborativo. Se quella mediatrice culturale fosse stata formata alla comprensione che la narrazione è un processo interattivo e dinamico che muove dalla storia spontanea della persona e che si arricchisce via via di altre conoscenze — quelle che la situazione istituzionale impone — permettendo alla cliente un processo di maturazione e presa di coscienza dei propri diritti allora il processo di ri-costruzione della storia e dei fatti si sarebbe svolto con maggior dignità!

LV: In conclusione, abbiamo parlato finora di cliniche legali, però come abbiamo detto all’inizio il tuo corso si chiama “formazione clinico-legale”. Come mai avete scelto di chiamarlo così e non clinica legale?

Sul piano dei contenuti, il format del corso rispecchia ampiamente il mio percorso formativo che va da un dottorato in filosofia del diritto presso la Federico II e in co-tutela presso l’Université de Neuchâtel ad altre importanti esperienze interdisciplinari di ricerca, in Svizzera e negli USA, in alcuni ambiti delle scienze sociali, la psicologia culturale in special modo. Il culto per il metodo ci ha fatto immaginare — da teorici del diritto –che un corso di clinica legale prima ancora che partire dalla soluzione di casi pratici dovesse presentare una proposta metodologica a monte. Metodo da sviluppare nel dialogo con professionisti ma anche e soprattutto con altri colleghi del Dipartimento di Giurisprudenza in modo da estendere via via la clinica ai diversi ambiti del diritto positivo.

Passando dai contenuti alla politica accademica, mi preme precisare che ovviamente dietro l’attivazione di questo corso vi è stato un importante lavoro di riflessione e di regia che vede coinvolte altre persone, il gruppo disciplinare a cui appartengo, in primo luogo colui che all’epoca è stato mio direttore di tesi, la persona che segue da almeno due decenni il mio percorso accademico — mi riferisco al prof. Angelo Abignente, professore di Teoria dell’Interpretazione e dell’Argomentazione giuridica presso il nostro Dipartimento. Angelo è anche un avvocato ed ha saputo “cogliere immediatamente l’attimo”, mediando sapientemente non solo con il Dipartimento ma anche con il Rettorato affinché l’attivazione di questo corso fosse possibile, credendo fortemente sia nell’importanza di dare una svolta “pratica” nell’insegnamento del diritto che nella necessità di agganciare il lavoro del Dipartimento a quello di altre istituzioni sociali presenti sul territorio, in una città complessa qual è Napoli. Di qui poi la creazione di una cd. commissione per la Terza Missione di cui Angelo è il coordinatore.

Ancora, vorrei aggiungere una nota di carattere personale, esprimere un sentimento che mi accompagna da quando mi è stata offerta questa bellissima opportunità di far rientro nel Dipartimento nel quale mi ero formata. Non smetto ancora di sorprendermi, a distanza di oltre tre anni dal mio rientro, del dinamismo che caratterizza questa Istituzione pur nota per la sua impronta tradizionalista nell’insegnamento del diritto. Dinamismo che, oserei dire, non è solo di tipo bottom up — dal corpo docente fino agli studenti che non mi stanco mai di dire “sono brillantissimi” e non smettono mai di sorprendermi — ma che è di tipo top-down: mi riferisco in particolare alla figura dell’allora Rettore Gaetano Manfredi, attualmente Ministro dell’Università e della Ricerca. Ho menzionato prima il convegno dal titolo “La diffusione dell’insegnamento clinico in Europa e in Italia. Radici teoriche e dimensioni pratiche”, fortemente voluto da Angelo Abignente, nel 2015, proprio come primo passo verso l’attivazione del corso e del progetto clinico. Ebbene, in quell’occasione mi colpì molto la partecipazione del Rettore e la sua apertura verso i giovani annunciando la volontà di far rientrare coloro i quali erano partiti per andarsi a formare all’estero. Mi è rimasta impressa la sua frase: “i cervelli che sono partiti ce li riprendiamo tutti”! Promessa che è stata mantenuta col bando successivo di concorsi che hanno permesso a molti precari della ricerca — come ero io in quella fase — di poter tornare e mettere a frutto la propria esperienza e ritrovare quella dignità che solo il lavoro può conferire! La gratitudine che provo verso le persone e l’Istituzione che ospitano me e questo corso corso va espressa, a maggior ragione perché mi è data la possibilità di riempire il posto di lavoro che occupo con dei contenuti che mi calzano a pennello, accompagnata e sostenuta con “spirito di liberalità” da interlocutori che solo in parte ho menzionato esplicitamente in questa conversazione.

Dunque per tutte queste ragioni, sono io che ringrazio Voi, cari amici di Reblaw Torino, sperando che altri colleghi di altri atenei, vi seguano in questo tipo di iniziativa che parte ed è gestita completamente dal basso!

(1) Frank, J. (1932–1933). Why Not a Clinical Lawyer-School? 81 U. Pa. L. Rev. 907.

(2) Secondo Richard Wilson, prime tracce di una forma di gratuito patrocinio/assistenza ai piu’ vulnerabili si ritrovano in Danimarca e precisamente a Copenaghen nel 1807. Per il riferimento completo si veda : Wilson, R. J. (2018). The Global Evolution of Clinical Legal Education. More than a Method. Cambridge : Cambridge University Press, p. 12, p. 86 e ss.).

(3) Block, F.S. (2011). The Global Clinical Movement. Oxford: Oxford University Press.

(4) https://www.facebook.com/groups/197429648218860/

(5) Grose, C., Johnson, M. E. (2017). Lawyers, Clients and Narrative. Durham: Carolina Academic Press.

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