KANTOURE’

nicola castello
Riflessioni in bianco e nero
3 min readFeb 25, 2015

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Il villaggio conta poche anime. Le misere capanne, realizzate in fango, sono ricoperte di foglie secche. Tutto attorno è il deserto, una sconfinata distesa di sabbia che si estende a perdita d’occhio; un mare di minuscoli granelli di sabbia bianca, finissima; un oceano in continuo divenire, soggetta ai capricci del vento che ne plasma le forme, sinuose ed affascinanti, quasi fosse una bella donna. Il vento soffia di rado da queste parti, ma quando lo fa, Eolo deve prelevarlo direttamente dalla fiamme dell’inferno; un vento forte, teso, caldo che sembra debba seccarti per poi strapparti via la pelle incartapecorita.

Kantourè ha circa trentacinque anni, nemmeno lui conosce di preciso la sua età. Alto quasi due metri, con un fisico che nessun bianco in nessuna palestra potrebbe mai riuscire a plasmare. Lavora il legno Kantourè; ha imparato farlo fin da piccolo e ne conosce tutti i segreti, ne sa sfruttare a pieno le caratteristiche, ne capisce a prima vista, al primo contatto, i difetti, le venature. Riesce, solo accarezzandolo, a carpirne i segreti. Con quelle enormi mani, inaspettatamente sensibili, inizia il lavoro scegliendo con cura il pezzo di legno che si appresta a lavorare; lo tocca, lo accarezza, rigirandolo da una parte all’altra, con una delicatezza tale che sembra stia sfiorando una bella donna, prima di prenderne possesso, prima di entrare nel suo “io” più profondo. Quindi inizia a toglier via i pezzi, prima più grossi, poi sempre più piccoli; le sue dita sembrano quasi danzare su quel pezzo di legno che, lentamente, quasi magicamente, prende forma, sembra prender vita; gli ultimi tocchi sembrano quasi un soffio che leviga la superficie rendendola liscia, dandole quasi una sembianza di morbidezza. Occorrono diversi giorni prima che il lavoro sia concluso come Kantourè desidera; e anche quando sembra che il tutto sia finito e perfetto, lui, incontentabile, continua a rigirare l’opera, a levigarla dolcemente fin quando vede quello che lui solo riesce e vedere, a raggiungere quella perfezione che solo lui conosce.
Il fuoristrada arriva nel villaggio una volta al mese circa. Ne scende il solito uomo, nel suo abito di lino bianco; avrà cinquant’anni circa e viene da molto, molto lontano; nessuno sa bene da dove, i confini e le distanze hanno valori relativi ed in questo sperduto lembo d’Africa lo sono ancora di più. Non saluta nessuno, non guarda nessuno, non si ferma con nessuno ma si infila deciso nella tenda di Kantourè e dopo poco ne esce con tutti gli oggetti che vi trova. Kantourè è felice, anche questa volta è riuscito a spuntare il prezzo che voleva; l’uomo bianco cerca sempre di fregarlo, dice lui, di offrire cifre troppo basse, ma oramai lui ha imparato che può tirare sul prezzo, ricevere anche il doppio di quello che gli viene offerto di primo acchito; è felice perché con i soldi che ha guadagnato potrà vivere tranquillamente per un altro mese, senza eccessivi patemi d’animo, possedendo più di chiunque altro nel villaggio possa solo sognare di avere e nel frattempo produrrà altri oggetti per la prossima volta.

C’è un negozio nel cuore di New York. Un negozio di vetro e acciaio, di lucentezza e splendore. Il negozio vende oggetti in legno etnici, prodotti a mano da un artista in un lontano Paese del centro Africa. Gli oggetti sono acquistati da collezionisti o da semplici appassionati di quel genere di oggettistica e sono venduti a cifre esorbitanti, sempre più alti. Dicono che lo scopritore di questo meraviglioso artista si sia arricchito con questo commercio.

Ma si dicono tante cose in giro.

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