Scaramuccia l’Ammazzafeccia 1.12

Elio Marpa
Scaramuccia, l’ammazzafeccia
6 min readSep 17, 2020

Serrato il chiavistello tirò finalmente il fiato. L’odore d’umido, sabbia e salsedine lo accolse come un complice col motore acceso fuori da una banca. Si alzò sulle punte per sbirciare oltre la porta screpolata: la spiaggia era immobile, i bagnanti pascevano imperturbati, cormorani al sole impiastrati di creme idratanti davanti ad un mare lercio. Nessuno sembrava averlo seguito né incrociò alcuno sguardo puntato verso la sua cabina. Riabbassò i talloni sporchi, e girandosi disse a voce alta Vai vai vai, come se un autista pronto a partire ci fosse davvero. Nello spogliatoio c’erano invece solo alcuni ombrelloni azzurri chiusi, sdruciti contro un angolo, una panca appoggiata al muro sotto un attaccapanni vuoto e uno specchio rettangolare. Ardur poggiò le chiavi della cabina sulla panca e si piegò in avanti sfilandosi il costume, lo scavalcò ed allungò una mano in mezzo agli ombrelloni, tirandone fuori uno zaino in aerogel catarifrangente verde, che trascinò accanto alla panca. Ne estrasse un portatile, una lunga antenna pieghevole, un telefono e diversi cavi. Adesso cominciava a sentire l’afa di quel cubicolo, o forse era più nervoso di quanto credesse: nello specchio cui dava le terga già si vedevano grasse gocce di sudore che dalle tempie e le ascelle rotolavano lungo i muscoli delle spalle e della schiena. Accucciato a quel modo inserì la batteria nel telefono, collegò il suo armamentario, srotolò l’antenna e pigiò un dito sudato sul pulsante On. Lo schermo si retroilluminò, il telefono si accese con un bip e percepì chiaramente la vibrazione elettrostatica che l’antenna sferzò nell’aria: sentì il sudore incresparsi in ogni goccia che portava addosso, e l’odore stantio rinzaffarsi, a metà tra il magazzino e il bagno pubblico ma più metallico, come quando il vento passa dentro un campo colpito da un fulmine, dopo il temporale. Una zanzara perse l’equilibrio e cadde dal lobo del suo orecchio destro.

C’erano alcune finestre aperte sul video. L’indicatore di profondità sulla prima schermata decresceva, centimetro dopo centimetro, a mano a mano che Ardur spostava il cursore con i polpastrelli. Lo zero indicava che la scatola inabissata una settimana prima era emersa in superficie, azzurra anomalia squadrata tra il rollio dei flutti. Minimizzò la finestra e passò alla seconda schermata: con tre click accese le tre microcamere. Due, come previsto, mostravano una visuale buia, la terza inquadrava un’interminabile distesa d’acqua. Manovrò i comandi dei compressori d’aria finché non ci vide, lontana all’orizzonte e deformata dalla lente, la striscia scura della spiaggia. Bloccò il sistema di galleggiamento e fece aprire la faccia anteriore: la luce riempì le due schermate nere, e in una vide l’acqua sciacquare contro la camera del secondo drone, sistemato nel vano inferiore della scatola, in opera viva. Ci siamo pensò Ardur, scrocchiandosi le dita in avanti, come fanno i pianisti. Con l’avambraccio s’asciugò la fronte e prese in mano il telefono che sarebbe servito da cloche. Controllò gli indicatori di batteria e segnale: era tutto in ordine, fin qui i suoi calcoli erano stati perfetti. Si mordeva le labbra: doveva rimanere concentrato ora, il minimo errore poteva mandare a puttane il lavoro di mesi. Il solo pensiero lo pietrificò. Poi dei passi fuori la cabina merda. Smise letteralmente di respirare e il suo sfintere si serrò come un armadillo tra un branco di lupi. Le ombre sotto la porta indicavano qualcuno proprio là davanti. Ecco sono fatto, sapevo di non poterla fare franca, questo è il terzo millennio baby: Obey.

Lentamente, come fosse pieno di nitroglicerina, rimise il telefono sulla panca, le ginocchia e le mani in terra, e appiattì il viso sul pavimento, per guardare attraverso la striscia di luce sotto la porta. Due coppie di piedi si fissavano, un uomo e una donna a giudicare dalle pelurie. Ma perché stavano in silenzio davanti alla sua cabina? Restò in attesa, i muscoli tesi e lo sguardo fisso a quei piedi, finché non ne vide due sollevarsi sulle punte e sentì distinti schiocchi di baci. Si sedette sulle ginocchia e soffiò un lungo sollievo: due adolescenti in amore con tutta probabilità. Non c’era da preoccuparsi, c’era da muoversi, pensò guardando l’orologio sullo schermo. Riprese il telefono, accese le quattro eliche con un tap e vide il primo drone, quello che aveva sistemato nel vano superiore, librarsi fuori del cubo di gomma blu. Inserì il codice del segnalatore GPS che aveva piazzato, due settimane prima della scatola, a qualche kilometro da quella cabina rovente, su uno sperone di roccia accanto al bagno VIP dove il suo bersaglio avrebbe dovuto trovarsi in quel preciso istante. Il quadricotterino cominciò a dirigersi verso la sua destinazione vulcanizzata. Ardur doveva solo correggerne la stabilità orizzontale con piccole cabrate. La porta della cabina accanto si chiuse, facendolo trasalire ancora. Si voltò: le ombre fuori la porta erano sparite, trasformatesi in sospiri nascosti al di là del muro. Ardur sentì il fruscio dei costumi stropicciati e sfilati di corsa, quello dei palmi sulla pelle che si tende. Sentì l’odore del loro desiderio sbocciare e raggiungerlo oltre il cemento che li divideva. Li sentì riempirsi le bocche a vicenda e sussurrare oscenità con accenti amorosi, appoggiati sull’altro lato della parete che aveva di fronte. Bene pensò, nessuno si preoccuperà di me, ora sono sottovento.

La telecamera del drone inquadrava finalmente il piccolo promontorio, e planò tra le sterpaglie a pochi centimetri da una catasta di pneumatici dipinti, impilati su uno stendardo dei FoMo: quello straccio con le stelle verdi indicava che il litorale era pattugliato dalle ronde di quei mentecatti: sì augurava proprio di non doverli incrociare. Ardur armò la siringa d’idrogeno che aveva installata sul lato anteriore, proprio sotto l’obiettivo. Controllò ancóra: rischiava di essere in ritardo, era quasi l’ora del pranzo. I corpi dei due amanti sbattevano sempre più violentemente contro il muro, e a fatica la donna non soffocava di gemiti, la bocca tappata. Sentiva le loro carni schiaffeggiarsi, sempre più veloci, fu certo che lei succhiava le dita di lui quando la sentì guaire, sempre più forte, al punto che anche la panca della sua cabina vibrava con l’intensità delle loro voglie, e insieme a quella dondolavano l’antenna, il portatile e l’attaccapanni.

Prudentemente, Ardur distanziò la panca di qualche centimetro dalla parete, ricontrollò l’ora e si decise. Sullo schermo del telefono pigiò l’icona rossa e tonda di un dito medio alzato bianco.

Vide la cannula telescopica della siringa estendersi e vorticare, perforando la gomma dello pneumatico più in basso, e il livello del serbatoio d’idrogeno diminuire sullo schermo. Se le telecamere avessero avuto un feed audio, avrebbe sentito il ronzio della cannula che trapanava il battistrada, ma aveva dovuto limitare il peso in fase di progettazione. Aveva costruito la siringa in modo che rilasciasse d’idrogeno solo dopo lo sgancio dal drone e infatti, al secondo tap, il corpo della cannula si smontò dal robot, e la punta dell’ago telescopico si schiuse. Mentre la miscela d’ossigeno e idrogeno prendeva fuoco all’interno della camera d’aria, Ardur allontanò il piccolo velivolo, posizionandolo una decina di metri più in là, sul bordo del promontorio. Passò alla terza schermata, accese i motori del secondo drone e lo guidò fuori, dalla scatola galleggiante dritto verso la spiaggia. Dalla camera del quadricottero vide il fumo cominciare a salire copioso intorno alla cannula infilzata, allungò la mano sulla tastiera e in quattro click la camera del primo drone si spense per sempre: c’era da sperare che l’esplosione fosse stata abbastanza rumorosa. In pochi minuti pilotò il robot superstite fuori dall’acqua, e la selva di gambe di profilo sulla terza schermata gli confermò di essersi fatto sentire. Cominciò a contare le volte degli ombrelloni della prima fila, cercava il nono e doveva trovarlo prima di perdere il vantaggio della sorpresa. Le ruote gommate e il motore ad aria compressa che aveva scelti gli permisero di scalare la battigia con velocità ed avere una visuale migliore. Individuato il suo bersaglio, zoomò sulle figure intorno al nono ombrellone, in attesa che il software di riconoscimento facciale elaborasse i dati. Quando il mirino dello scanner lampeggio rosso e fu sicuro di quali cosce flaccide e quale ventre prolassato sorreggessero il profilo di Glauco Festa, Ardur inclinò il telefono con lentezza, portando il drone esattamente sotto il lettino dell’anchorman. Quindi, inquadrò i piedi gonfi del giornalista tra la sabbia e la tela della sdraio. Avanti siediti, non c’è più niente da vedere, è solo un po’ di fumo. Ardur tremava, le pareti della cabina tremavano, in quella accanto anche i singhiozzi dei ragazzi tremavano, mentre sbattevano la propria gioventù salata contro la calce sporca. L’ultima spinta fu accompagnata da un grugnito d’estasi e dal tonfo dell’attaccapanni, che andò giù dritto, tra la panca e il muro. I piedi sullo schermo si mossero: Glauco si sedeva per l’ultima volta. Sparì il primo piede, sparì il secondo. Il sudore sulla pelle di Ardur poteva levitare, ogni goccia avrebbe potuto scorrere al contrario da un momento all’altro. Ardur pensò ad Ascanio mentre pigiava nuovamente l’icona rossa sul telefono e sfrigolava dai denti Vaffanculo merda. Kaboom!

Originally published at http://eliomarpa.wordpress.com on September 17, 2020.

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