Acqua, acqua ovunque
Da qualche decennio sappiamo che la Terra non è l’unico corpo del Sistema solare in cui possiamo trovare l’acqua. Ci viene ormai quasi spontaneo, per esempio, pensare alle comete. Non è un caso che, da quando le osservazioni spettroscopiche — tra i pionieri di questa tecnica osservativa vi fu il nostro Giambattista Donati — mostrarono che la chioma e la coda da loro ostentate erano costituite (oltre che da vari altri composti) da vapore acqueo, gli astri chiomati sono stati addirittura indicati come prima sorgente dell’acqua terrestre.
Le esplorazioni spaziali ci hanno però mostrato che, senza spingersi fino alle distanze tipiche delle comete, vi sono molti altri corpi celesti che hanno il ghiaccio d’acqua come importante componente della loro struttura. Pensiamo, per esempio, a molte lune di Saturno e alla stessa composizione dei suoi meravigliosi anelli. Oppure ad alcuni satelliti del sistema di Giove, Europa davanti a tutti. Senza dimenticarci di cosa ci possa davvero riservare la popolazione asteroidale, anch’essa da qualche tempo chiamata direttamente in causa per il rifornimento d’acqua alla Terra primordiale. In tale direzione si preannuncia davvero molto interessante lo studio di Cerere che la sonda Dawn, giunta da poco dalle parti del pianeta nano, effettuerà nei prossimi mesi.
Acqua diffusa in ogni dove, dunque. La cosa più intrigante, però, è che stiamo imparando che non è automatico che questa abbondanza d’acqua abbia sempre l’aspetto ghiacciato (anche se tremendamente sporco) tipico di una superficie cometaria. Sappiamo, per esempio, che al di sotto della crosta ghiacciata di Europa si nasconde un imponente deposito d’acqua liquida, mantenuta in tale stato dal potente influsso gravitazionale di Giove. Da tempo si sospetta che anche altri satelliti di Giove possano condividere una simile struttura, primo fra tutti Ganimede, il più grande di tutti. Le sue dimensioni sono davvero notevoli: con i suoi 5270 chilometri di diametro, infatti, il satellite non sfigura affatto accanto a pianeti quali Mercurio (4880 km) e Marte (6780 km). Le nostre conoscenze di Ganimede, però, vanno ben oltre le sue dimensioni. I satelliti che, fin dagli anni Settanta, hanno studiato il sistema di Giove ci hanno permesso di ipotizzare la struttura interna di Ganimede e i modelli proposti sono concordi nel prevedere la presenza di un vasto oceano d’acqua al di sotto della sua crosta. Inoltre, i ripetuti sorvoli del satellite da parte della sonda Galileo negli anni Novanta ci hanno mostrato — unico caso tra tutte le lune del Sistema solare — l’esistenza di un campo magnetico.
Poiché tale campo magnetico, interagendo con il potente campo magnetico di Giove, genera il fenomeno delle aurore polari, il team di ricercatori coordinato da Joachim Saur (Università di Colonia) ha pensato di utilizzare il telescopio spaziale Hubble per andare più a fondo. Il telescopio Hubble, infatti, può contare sulle prestazioni di STIS (Space Telescope Imaging Spectrograph), uno strumento molto sensibile alla radiazione UV, dunque eccezionale per individuare le aurore. Ma perché queste aurore sono così importanti per lo studio di Ganimede?
E’ presto detto. Se, come suggeriscono i modelli, al di sotto della crosta di Ganimede vi fosse davvero un oceano d’acqua salata, il campo magnetico di Giove creerebbe in esso un campo magnetico secondario che, inevitabilmente, finirebbe col disturbare il fenomeno delle aurore polari. Nello studio, pubblicato su Journal of Geophysical Research, Saur e collaboratori riportano che la “danza” delle aurore su Ganimede (cioè il loro movimento su e giù in latitudine), anziché dei 6 gradi stimati in assenza del campo magnetico secondario, si limita a oscillare solamente di un paio di gradi. Le osservazioni di Hubble, dunque, confermano l’esistenza di un oceano salato, ma nel contempo ne suggeriscono anche una possibile stima. Secondo i modelli dei ricercatori, infatti, per ottenere la reazione osservata nelle aurore di Ganimede bisogna ipotizzare che, al di sotto della crosta superficiale ghiacciata dello spessore di circa 150 chilometri, si estenda un oceano d’acqua salata profondo almeno 100 chilometri, cioè una decina di volte più profondo della più profonda fossa oceanica terrestre. Una quantità d’acqua liquida smisurata, superiore a quanta ne contengono i nostri oceani.
Ancora più eclatanti le notizie che ci arrivano da Encelado, importante satellite di Saturno. Tale importanza non è certo dovuta alle dimensioni di questa luna ghiacciata — il diametro è di circa 500 chilometri — bensì alla clamorosa scoperta effettuata nel 2005. In quell’anno, infatti, si ebbe la conferma che dal suo Polo Sud venivano espulsi getti di vapore d’acqua che, ghiacciando, andavano a mantenere in vita l’anello E di Saturno. Una scoperta che ha fatto dello studio di Encelado una priorità assoluta della missione Cassini.
In quegli stessi anni, però, il Cosmic Dust Analyzer (CDA) della sonda rilevava la presenza di minuscoli granelli di polvere (diametro tra i 4 e 16 nanometri) ricchi di silicio in orbita intorno a Saturno. Presenza inconsueta, visto che da quelle parti l’ambiente era dominato da particelle di ghiaccio. Iniziava così una lunga caccia alla possibile origine di quegli insoliti granuli di silicio. Tra le possibilità spuntava l’idea che potessero provenire dal dissolvimento di rocce silicee a contatto con acqua calda e fossero poi stati espulsi nello spazio da sbuffi di vapore. Per la loro origine, insomma, si sarebbe dovuto chiamare in causa una vera e propria attività idrotermale molto simile a quella così comune sul nostro pianeta. Visto il vizietto di Encelado di disperdere vapore, il satellite diventava l’indiziato numero uno.
Un paio di settimane fa, il team coordinato da Hsiang-Wen Hsu (University of Colorado — Boulder) ha pubblicato su Nature la ricostruzione completa di ciò che avviene da quelle parti. Per poterlo fare, però, i ricercatori hanno dovuto pazientemente esaminare tutte le possibili origini di quei granuli di silicio (scartando via via quelle meno probabili) alla luce dei risultati degli accurati esami di laboratorio ottenuti dal team di Yasuhito Sekine (Università di Tokyo), anch’egli tra gli autori del paper.
Sul fondale dell’oceano d’acqua che si estende al di sotto della crosta ghiacciata di Encelado, dunque, sono tutt’ora in corso processi idrotermali. Dato che, per produrre granuli di silicio come quelli rilevati, si stima che la temperatura debba essere di almeno 90 gradi centigradi, questo comporta che il cuore di Encelado debba essere particolarmente caldo. Il processo, poi, sarebbe agevolato dalla porosità del nucleo roccioso del satellite suggerita dalle misure gravimetriche della sonda Cassini. Tale porosità permetterebbe all’oceano sotterraneo di Encelado di filtrare in profondità aumentando la superficie di contatto tra l’acqua e le rocce. Ora si tratta di individuare con precisione quale fenomeno possa garantire una simile temperatura, anche se già si sospetta fortemente degli effetti di marea generati dalla gravità di Saturno.
Prima di lasciarci andare alle speculazioni, dobbiamo registrare un secondo interessante contributo scientifico riguardante Encelado. Alexis Bouquet (University of Texas — San Antonio) e collaboratori hanno pubblicato su Geophysical Research Letters uno studio in cui suggeriscono che proprio l’attività idrotermale del satellite possa essere all’origine del metano presente negli sbuffi di gas e particelle ghiacciate emessi dalle sue regioni polari. Secondo i ricercatori, i processi idrotermali saturerebbero di metano l’oceano sotterraneo di Encelado e le elevate pressioni favorirebbero la formazione di clatrati in grado di imprigionare il metano in cristalli di ghiaccio d’acqua. Ci penserebbero poi i geyser attivi al Polo Sud a portare in superficie e disperdere il metano. Bouquet e collaboratori ipotizzano anche un secondo scenario che non prevede attività idrotermale, ma la scoperta riguardante i granuli di silicio ha reso molto più appetibile il primo.
Siamo sinceri, quanto avviene nelle profondità di Encelado ci solletica non poco. Quegli intensi fenomeni idrotermali richiamano molto da vicino quanto spesso osserviamo sui fondali oceanici terrestri e non credo che ciò ci lasci del tutto indifferenti. Qui sulla Terra, le sorgenti idrotermali costituiscono un eccellente habitat per le forme di vita cosiddette estremofile, organismi in grado di vivere in ambienti assolutamente vietati alla vita umana (pressioni elevate, elementi chimici tossici, acqua in ebollizione nei pressi dei camini e gelida poco più in là,…).
Scoprire che su una luna lontana si possano incontrare condizioni potenzialmente favorevoli alla vita — certo, non come la intendiamo noi umani — è dunque incredibilmente eccitante. Assolutamente indispensabile, però, tenere a freno la nostra fantasia.
Claudio Elidoro