Le code all’Ikea e le scale di casa

Massimiliano Boschi
Scripta Manent
Published in
5 min readMay 28, 2020

L’Italia di oggi, le città di domani e il cinema di ieri. La quarta puntata di “Dietro le terze” con un dialogo tra Bernardo Bertolucci e Wim Wenders (in video).

Düsseldorf

Il dibattito culturale prova a liberarsi dalla stretta del virus. Ovviamente nessuno può far finta che nulla sia successo e che tutto possa tornare a essere come prima, ma la fase 2 incomincia a dare nuovi spunti, non tutti particolarmente gradevoli. Finestre sull’arte, per esempio, è partito da una semplice analisi della realtà. Niente di particolarmente sorprendente, ma non si può negare che l’articolo firmato da “Marziano a Roma” non abbia messo il dito nella piaga. Il titolo illustra al meglio la questione: “Le vere passioni degli italiani: Ikea e McDonald’s. Per le code ai musei, dovremo aspettare i turisti stranieri?”
Il seguito fuga ogni dubbio: “In questi primi giorni di riconquistata libertà, le code si sono viste (in tutta Italia, come testimoniano le fotografie degli utenti dei social) davanti a un preciso esercizio commerciale: l’Ikea. Lunghissime code con visitatori tutti distanziati e con mascherina all’Ikea dell’Anagnina a Roma, a quella di Collegno, a Brescia e ovunque su e giù per il paese, dalla Brianza fino a Catania. Quale irrefrenabile impulso avrà spinto i nostri connazionali a utilizzare le prime preziose ore di libertà per fiondarsi come falchi nei celeberrimi magazzini di mobili low cost? (…) Com’era ampiamente prevedibile, centri commerciali battono musei con un doppio 6–0. Vogliamo però fornire un appoggio ai musei: evidentemente i loro tour virtuali e i loro video social sono stati così convincenti da aver appagato la voglia d’arte di molti, che al contrario non hanno saputo resistere all’affascinante e suadente richiamo del compensato leggero e delle matitine da imboscarsi. Molti, del resto, avranno pensato di non aver bisogno di vedere dal vivo un dipinto di Caravaggio o una scultura di Bernini se l’hanno già osservata in una foto o in una stories di Instagram, mentre invece un comodino con un improbabile nome da olimpionico scandinavo di sci di fondo richiede obbligatoriamente un’irrinunciabile presenza de visu durante il primo giorno del déconfinement. Certo i musei non devono essere messi in competizione con i centri commerciali, e lungi da noi questa idea: se una persona intende passare tutto un sabato pomeriggio dentro un centro commerciale, forse non fa parte neanche del pubblico potenziale dei musei. Però il fatto che l’Ikea sia stata il sogno proibito del “lockdown”, la prima meta in testa alla lista delle priorità di tanti italiani che hanno addirittura sentito l’esigenza di mettersi in coda per entrarci, forse ci aiuta a comprendere perché in un anno (l’Istat conferma) solo 3 italiani su 10 entrano in un museo. Forse, per tornare a vedere le code davanti ai nostri luoghi della cultura toccherà aspettare i turisti stranieri?”

Allargando il raggio d’azione al resto del mondo, il dibattito più interessante è, probabilmente, quello che riguarda le città.

Wlodek Goldkorn sulle pagine del “L’Espresso” ha intervistato il sociologo Richard Sennett. L’articolo intitolato «Così il coronavirus ci spingerà a migliorare le nostre città» è piuttosto lungo e il testo completo lo trovate qui

Di seguito le parti che Scripta Manent ha ritenuto più interessanti: «Ho l’impressione — precisa Sennett che a causa della pandemia siamo in mezzo a una specie di esperimento sociale terribile, dal vivo. L’oggetto di questo esperimento è capire quanto la borghesia sarà capace di alzare uno scudo protettivo intorno a se stessa. Quanto la parte privilegiata della nostra società saprà evitare la troppa esposizione in pubblico, a spese di coloro che non potranno permetterselo a causa delle mansioni che svolgono e che richiedono un contatto fisico permanente. La maggior parte dei lavori manuali — penso agli addetti alle pulizie, ai trasporti, agli infermieri negli ospedali e via elencando — non possono essere fatti in modalità remota. Vedremo un notevole aumento delle disuguaglianze fra borghesia e classe operaia».
Goldkorn ha poi chiesto l’opinione di Sennett riguardo ai cambiamenti delle città, questa la risposta che ha portato il sociologo a parlare dell’Italia:
«La domanda che viene spontanea è come far fronte al problema della densità, come rendere le città più sicure dal punto di vista sanitario. C’è il problema dei trasporti urbani: è sugli autobus, nelle metropolitane che la gente si accalca. Ma penso che la sfida principale riguardi le forme con cui edifichiamo i nostri spazi cittadini, gli edifici, le piazze. Sono quelle forme, e in cui si esprime la nostra socialità, a darci la sensazione di essere protetti dal mondo, ma pure la concreta consapevolezza di stare stipati, insieme. Ho l’impressione che in Italia il problema sia meno urgente, per vostra fortuna, rispetto a New York. L’appartamento dove abito a New York fa parte di un palazzo popolato da ottocento persone che condividono quattro ascensori. Questa è una situazione molto diversa rispetto alle costruzioni di pochi piani dove si può salire a piedi le scale, come in Italia. E per tornare agli spazi urbani: dobbiamo avere una bassa densità di abitazioni, un po’ come avviene in certi quartieri di Londra». La chiusura, invece, è un invito a guardare avanti senza troppe paure. Questa l’ultimo scambio tra giornalista e sociologo:
Abbiamo vissuto in un mondo dove sono state abolite le distanze, la dimensione del tempo. Con la pandemia, quelle dimensioni sembrano essere ripristinate. Cambierà la globalizzazione. Sarà messa in discussione?
«Forse. Ma insisto, stiamo attenti. Nella sua domanda avverto implicita una critica al cosmopolitismo. Dobbiamo invece pensare come essere connessi ancora di più e in una maniera ancora più intensa. L’Europa e il mondo hanno bisogno, proprio a causa della pandemia, di più solidarietà, più scambi, e meno distanze. Certamente, di meno nostalgie».

Alle città è dedicato anche l’articolo di Scott Wiener e Anthony Iton su “The Atlantic” e tradotto in italiano da Internazionale con il titolo “Le città non sono il problema ma la soluzione”.
“Incolpare la densità per il disastro portato dal virus significa ignorare tutti i fattori che determinano realmente gli effetti sulle comunità delle crisi come quella attuale — precisano gli autori — . Le città statunitensi grandi e piccole che hanno risposto in modo tempestivo, efficace e deciso hanno sofferto meno di quelle che hanno agito con lentezza e senza uno sforzo coordinato. Un elemento determinante per l’esposizione di una comunità al covid-19, a prescindere dalle dimensioni e dalla densità abitativa, è la reattività (o la mancanza di reattività) del governo nel soddisfare le necessità della popolazione. A tutto questo si aggiungono le disuguaglianze create dalla lunga tradizione di razzismo, segregazione e colpevole incuria nei confronti delle necessità sanitarie delle comunità economicamente svantaggiate. Oggi la pandemia sta evidenziando gli effetti catastrofici di quelle politiche. (…) Non è la prima volta che le città vengono incolpate per la diffusione di una malattia. Già in passato molte iniziative contro la densità urbana sono state giustificate da preoccupazioni sanitarie, e spesso hanno assunto la forma di politiche di sviluppo che hanno favorito non solo l’espansione ma anche la discriminazione su base razziale. L’approccio politico all’origine delle misure contro la densità urbana aggrava le disparità razziali e rappresenta un pericolo per la salute di tutti. Per tutti questi motivi gli Stati Uniti dovrebbero investire nelle città e in una politica abitativa equa invece di lasciare che la pandemia diventi una scusa per fare il contrario”.

Per chiudere, l’abituale “Dibattito culturale (reload)”.
Una conversazione sul cinema tra Wim Wenders e Bernardo Bertolucci introdotta e “doppiata” da Enrico Ghezzi:

--

--

Massimiliano Boschi
Scripta Manent

Collaboro con “Alto Adige Innovazione” e “FF- Das Südtiroler Wochenmagazin”. In passato con “Diario della settimana”, “Micromega” e “Il Venerdì di Repubblica”.