Le “corde invisibili” di Marcello Fera

Massimiliano Boschi
Scripta Manent
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8 min readApr 23, 2019

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Guido Barbieri recensisce “The String Theory”, ultimo cd del musicista meranese.

Foto Karlheinz Sollbauer

Sabato 27 aprile (ore 15.40), Marcello Fera sarà ospite di “Piazza Verdi” a Radio 3 per presentare il suo ultimo cd:“The String Theory”. Il violinista e compositore meranese eseguirà alcuni brani del disco insieme al violoncellista Francesco Dillon e al contrabbassista Federico Bagnasco
Per l’occasione pubblichiamo una recensione inedita scritta dal critico musicale
Guido Barbieri.

La prima immagine che colpisce l’occhio, in questo disco, è la corteccia esteriore, ossia il titolo. Un titolo non casuale che allarga subito lo sguardo oltre i confini del dominio al quale questo oggetto appartiene. L’espressione “string theory” non proviene infatti dall’universo della musica, ma nemmeno da quello delle discipline sorelle, la letteratura o le arti visive, bensì da quello della scienza. Più precisamente della fisica. È il nome dato, sin dal lontano 1968, ad una delle teorie più eleganti e “rivoluzionarie” nella storia delle scienze moderne. La “teoria delle stringhe” — così viene abitualmente tradotta in italiano — è come dicono i fisici una “teoria del tutto” o meglio un tentativo di imprimere coerenza e razionalità ad una possibile teoria del tutto, ossia una teoria capace di spiegare nientemeno che le origini della materia e dell’energia che la muove. Lungo questa via la fisica storica si è incamminata quasi cent’anni fa alla ricerca delle cosiddette particelle elementari. E questa strada ha portato alla individuazione di particelle via via sempre più piccole: l’atomo, con il “contorno” dei neutroni e dei protoni, gli elettroni, che hanno dimensioni più ridotte dell’atomo, poi i quark, che sono ancora più piccoli degli elettroni. E infine, appunto, le stringhe che sono miliardi di miliardi più piccole degli atomi. Ma tra gli atomi, gli elettroni, i quark da una parte e le stringhe dall’altra c’è una differenza fondamentale: i primi hanno dimensioni puntiformi, mentre le seconde sono — come del resto rivela la parola inglese string — delle corde, dei filamenti, le cui vibrazioni danno origine alla materia e al movimento che essa genera. Una scoperta rivoluzionaria anche se per il momento è solo un elegante modello matematico privo di alcuna verifica sperimentale. La natura vibratile in queste particelle elementari ha ovviamente scatenato la fantasia degli scienziati, ma anche degli artisti, in particolare dei musicisti. Se ne può infatti dedurre — mischiando scienza e poesia — che l’universo sia stato generato dal suono primordiale di bilioni di corde vibranti e che dunque esso possa essere letto come una immensa partitura. Suggestioni, certamente, che però hanno avvicinato in modo inatteso i versanti della fisica e della musica. Tanto è vero che uno dei massimi divulgatori della string theory, Brian Greene, ha ideato una sorta di “concerto scientifico” durante il quale spiega i passaggi più complessi della teoria grazie ad un quartetto d’archi che suona insieme a lui…

Marcello Fera ha scelto dunque a ragion veduta il titolo del disco che riunisce alcune delle sue composizioni più rappresentative dell’ultimo decennio. Per un verso — ed è la ragione più esteriore — perché l’Ensemble Conductus, interprete privilegiato di queste pagine, è in realtà una orchestra d’archi che riunisce alcune decine di corde vibranti. Ma c’è una motivazione forse più profonda: la musica di Marcello Fera possiede infatti, ad un ascolto attento, una spontanea, sorgiva carica vibrazionale: ossia la capacità un po’ misteriosa, forse rabdomantica, di mettere in risonanza non soltanto le corde visibili degli archi, ma anche le corde invisibili che legano il suono degli strumenti alle facoltà percettive dell’ascoltatore. La sua è una musica “fisica” che si ascolta col pensiero, certo, ma anche col corpo, con la vista, con l’udito, col tatto, con la pelle. Le sue pagine sono insomma letteralmente “vibranti” e dunque rientrano perfettamente nell’alveo di una immaginaria, anche se forse poco scientifica, string theory. Ma oltre, anzi all’interno, di questo involucro, la musica di Marcello Fera si può leggere anche come una serie di cerchi concentrici che partendo dall’anello più esterno consentono di arrivare gradualmente ad un centro, ad un cuore, ad un nucleo, ad una matrice generativa che ne costituisce, forse, il motore primo.

Percorrendo l’anello più lontano salta letteralmente agli occhi, per cominciare, la nitidezza, la chiarezza, la trasparenza delle architetture formali. La quasi totalità delle opere raccolte in questo disco segue ad esempio, pur senza rispettarne le proporzioni di durata, la canonica tripartizione della forma concerto, in particolare nella sua declinazione barocca. Il disegno architettonico prevede solitamente un tempo veloce seguito da un tempo lento e poi da una conclusione rapida e concitata che conduce, al termine di un regolare climax, ad un finale netto e definito (in crescendo o in diminuendo). A ben guardare, però, lo schema della tripartizione non è un calco deliberato e consapevole di una forma del passato. Sembra dettato, piuttosto, da una logica compositiva spontanea e germinale che porta ad un accumulo iniziale di tensione, ad una momentanea distensione e poi ad una sintesi dialettica conclusiva: nessun citazionismo di maniera, dunque, nessun cedimento ad una generica estetica post-modernista, del tutto estranea all’orizzonte concettuale di Marcello Fera, ma solo la necessità imprimere un reticolo, una rete di protezione, intorno ad un materiale sonoro in costante ebollizione.

Il cerchio immediatamente più interno è in diretta comunicazione” radiale” con il precedente e ne è in qualche misura la prosecuzione naturale. Non sul piano delle architetture formali, bensì su quello dell’invenzione tematica e sonora. Seguendo l’itinerario tematico di molti pezzi si ha spesso la sensazione, o per meglio dire l’illusione, di imbattersi in epifanie più o meno frequenti di qualche cosa di “già sentito”, di “già noto”, insomma di quelle musiche che gli anglosassoni chiamano familiar. A volte si tratta solo di un brandello di suono, di un frammento di melodia, di un movimento armonico, di una figura ritmica o anche semplicemente di un’aura familiare, appunto, più o meno indefinibile. In realtà poi, indipendentemente dal grado di cultura musicale di ciascun ascoltatore, si scopre che per quanti sforzi si compiano per risalire alla matrice della sensazione del “già noto” non è quasi mai possibile — tranne in alcuni casi parzialmente dichiarati — individuare con precisione un titolo, un autore, un’opera. Siamo dunque spettatori di una sorta di gioco combinatorio, fatto di illusioni, di travestimenti, di mascheramenti che nascondono la babele indifferenziata del cibo musicale di cui l’autore si è nutrito nel tempo: un mix di oggetti sonori eterocliti, perfettamente o imperfettamente assimilati nella memoria, che emergono in superficie seguendo la semplice logica del ricordo involontario, del frammento, del granello di polvere.

Proseguendo nel viaggio al centro dell’universo, dell’universo locale della musica di Marcello Fera, si incontra un altro anello, ancora più interno. E lungo questo nuovo anello si dispongono reperti mnemonici forse un po’ più definiti, dai contorni meno indeterminati. Anche in questo caso, comunque, privi di una precisa carta di identità. E questa volta siamo nel dominio del ritmo, del ritmo puro e assoluto. Difficile infatti sottrarsi alla seduzione che in molti brani riconduce tutte le fibre percettive del corpo alla pratica della danza. A volte tempi, metri e ritmi conducono direttamente a danze storicamente determinate, come quelle che provengono dal generosissimo tesoro delle danze sudamericane (il tango, il samba, ecc…). In altre occasioni alla danza alludono semplicemente le pulsazioni regolari del tactus oppure certe alchimie timbriche che sembrano evocare climi, aure (ancora una volta) di gesti e movimenti legati al ballo. Il riferimento alla danza svolge in molti brani la stessa funzione delle architetture barocche: ossia quella di creare una cornice “protettiva”, un alveo riconoscibile, intorno ad una materia sonora ad alta temperatura che altrimenti si riverserebbe al di fuori di qualsiasi binario formale, con il rischio di non produrre alcun organismo musicale “vivente”. Il nicciano “pensiero che danza” è del resto, la forma più alta di filosofia che l’Occidente abbia creato…

Parente stretto del pensiero che danza è il pensiero che canta. Associato alla danza, lungo il solco di un anello intermedio, è spesso, infatti, un melos cantabile, a tratti intriso di lirismo, che possiede sempre e comunque un forte grado di idiomaticità strumentale. Facendo appello alla sua formazione e alla sua pratica violinistica, la scrittura di Marcello Fera è sempre fortemente legata alle proprietà organologiche degli strumenti ad arco. E questo dettaglio apparentemente tecnico assicura al contrario alla tradizionale “string orchestra” una trasparenza, una cantabilità, ma al tempo stesso anche una densità di suono, che sarebbero impensabili senza una profonda conoscenza delle proprietà strettamente idiomatiche, appunto, degli strumenti ad arco.

E siamo quindi giunti, sulla soglia del quarto cerchio, a sfiorare il nucleo caldo della musica di Marcello Fera. Lungo l’ultimo anello scorre infatti una materia difficile da afferrare, un flusso al quale non è semplice imprimere una direzione o anche una semplice definizione linguistica. A sorvegliare l’intera costruzione dei cerchi concentrici c’è infatti una illustre categoria del pensiero, una specie di super-cerchio, che prescinde largamente dagli strumenti materiali con i quali prende forma. Non è infatti fatta di suono, ma nemmeno di versi, di poesia, di immagini, di pittura o di scultura… È una categoria alla quale potremmo attribuire la generica definizione di “ironia”. Termine ambiguo, parola fatta di altre parole, ma che in questo caso non va confusa con alcuni dei suoi altrettanto illustri parenti lessicali: umorismo, parodia, sarcasmo o satira. L’ironia che pervade le musiche di Marcello Fera è piuttosto quella che si ricava dalla sua antica radice etimologica, ossia la parola “ironeia” che letteralmente significa dissimulazione. È l’ironia di Socrate che si finge ignorante per costringere l’interlocutore a spiegare fin nei dettagli la propria posizione, rivelandone spesso l’infondatezza. È insomma quell’atteggiamento che induce lo svelamento del sommerso, come sostiene Nietzsche in Umano troppo umano, che “fa ricadere su chi accende il lume la luce rivelatrice dei suoi raggi”. Ecco, la fibra bronzea dei brani di “String Theory” è proprio questa: lanciano un motto, un witz, una battuta di spirito che cerca e trova la complicità con l’ascoltatore. Ma una volta che il contatto è stabilito, che la scintilla si è accesa, ecco che la luce si trasforma e diventa un lampo tagliente, una fiammata violenta. La fiamma appunto dell’ironia. In un istante il re svela la sua nudità, nel senso che l’ascoltatore, implicito od esplicito, comprende in modo intuitivo, quasi eidetico, il meccanismo della scrittura. Ma al tempo stesso è costretto ad allontanare lo sguardo, a guardare l’oggetto sonoro da una “distanza critica” maggiore, stabilita dal grado di complicità e di riconoscibilità. Si sorride, dunque, come quando un bambino rivela il meccanismo del giocatolo che ha appena aperto, e il canonico V-Effekt — l’effetto di straniamento — perde la sua spigolosa acidità per assumere un candore disarmato, anche se vigile e consapevole.

Ci troviamo adesso al centro dei cinque cerchi, ma è difficile nascondere una certa insoddisfazione, la delusione per non essere giunti in realtà, come era ampiamente prevedibile, allo svelamento del nucleo profondo della musica di Marcello Fera. Forse il bersaglio non si trovava e non si trova al centro dei cerchi, ma — come comprendiamo soltanto adesso — era ed è da un’altra parte. E il fuoco critico andava e va puntato in un’altra direzione. La sensazione in effetti è che al di sopra o al di sotto dei quattro cerchi e del super-cerchio ce ne sia in realtà un sesto che tutti li inscrive dentro sé stesso. Forse non è nemmeno un cerchio, ma per restare in campo geometrico, un rettangolo. Una forma che assomiglia maledettamente a quella di un palcoscenico. Questa nuova figura ha infatti un nome preciso, determinato, univoco, che in effetti poteva emergere sin dall’inizio del viaggio: il nome “teatro”. Sorge il sospetto che la nitidezza delle architetture formali, il richiamo alla struttura tripartita del concerto, la presenza dei metri e dei tempi di danza, gli illusionismi sonori, la stessa dimensione dell’”ironeia” altro non siano, a ben guardare, che attori di una scena immaginaria. Strumenti che la mano del compositore-burattinaio muove con la sapienza di un consumato uomo di teatro. Anche quando sul palcoscenico non si muovono maschere, parole, gesti, dialoghi e canto, ma “solo” congegni sonori perfettamente oliati e funzionanti. Il teatro del resto, come rivelano molti antenati illustri, dai cristallini meccanismi sonatistici delle sinfonie di Mozart fino alle miniature drammatiche dei lieder di Schubert, si annida là dove meno lo si aspetta. Anche nelle corde vibranti della musica sempre inquieta, sempre alla (vana) ricerca di un orizzonte calmo, di Marcello Fera.

Guido Barbieri

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Massimiliano Boschi
Scripta Manent

Collaboro con “Alto Adige Innovazione” e “FF- Das Südtiroler Wochenmagazin”. In passato con “Diario della settimana”, “Micromega” e “Il Venerdì di Repubblica”.