Museion Wide Shut

Massimiliano Boschi
Scripta Manent
Published in
5 min readMar 27, 2020

Le “aperture” dei musei chiusi e le “chiusure” dei musei aperti. Intervista a Letizia Ragaglia, direttrice del museo d’arte contemporanea di Bolzano.

Foto di Luca Meneghel

Museion, come tutti i musei dello Stivale, è chiuso, e come tutti prova a restare aperto in maniera “differente”. I musei, i teatri e gli altri enti culturali si ritrovano così a essere serrati e spalancati proprio come gli occhi del titolo dell’ultimo film di Stanley Kubrick. Contraddizioni che non possono non affascinare chi si occupa di arte contemporanea.
Ma già prima che l’epidemia riducesse i nostri orizzonti alle pareti di casa, avevamo fatto in tempo a confrontarci con la direttrice di Museion, Letizia Ragaglia, riguardo a dimensioni e qualità di un museo “aperto”.
Lo spunto ci era stato fornito da un articolo di Federico Giannini su “Finestre sull’arte” , ripreso anche in “Dietro le terze”.
Lo ripubblichiamo qui di seguito: “Quello che forse non è chiaro a tanti è che ridurre il museo a un passatempo disimpegnato, a luogo dove provare impalpabili emozioni, a teatro di demenziali passeggiate nella bellezza, significa spingere affinché il museo stesso abdichi al suo ruolo di luogo in cui si cerca di comprendere il mondo, di sviluppare un pensiero critico, di ragionare su diritti, libertà, parità, partecipazione, di dialogare sul passato e sul futuro. E affinché si riduca a semplice sito dove passare un po’ di tempo perché tanto è gratis, o perché è meglio del centro commerciale. (…) Sarà il caso di farsi una domanda: ma non è meglio guardarsi una bella e consapevole partita di calcio piuttosto che visitare un museo come se andassimo a vedere le vetrine di un outlet?”.

Detto altrimenti, è davvero positivo aprire i musei al maggior pubblico possibile? Non si finisce per abdicare ai ruoli per cui sono stati istituiti? Per spiegarci il suo pensiero, la direttrice Letizia Ragaglia ha scelto di partire da un’esperienza personale: “Poco prima che partissero le restrizioni dovute all’epidemia del Coronavirus, sono stata a New York dove ho passato un’intera giornata al MoMa e a Madrid, dove sono rimasta un intero pomeriggio al Prado. Entrambi erano pienissimi, ho anche assistito a scene non particolarmente edificanti, ma ho visto molti visitatori che si godevano l’arte e ho pensato: che bella gita!. Ho trovato splendido che intere famiglie camminassero lungo i corridoi dei musei. In sintesi, sono assolutamente a favore di questo window shopping -anche se magari rimane impresso un solo quadro- perché sono fautrice dell’idea che i musei siano di tutti. Gli intellettuali non devono pensare che sia loro esclusivo patrimonio”.

Obiezione banale e nota. Ma l’effetto “Gioconda” sul Louvre non è dannoso per tutti, anche per chi non è un intellettuale? Non sarebbe meglio creare percorsi differenziati, come ha suggerito il critico del New York Times?
“Certi fenomeni credo siano colpa del marketing più che del pubblico. Ma è una questione che riguarda anche la Storia dell’arte, che fino a qualche anno fa era strutturata prevalentemente per capolavori. Per fortuna oggi non è più così e si preferisce creare connessioni più che concentrarsi sui capolavori degli artisti importanti. I primi effetti si vedono già: per esempio al MoMa, ma anche agli Uffizi di Firenze, che hanno deciso di collocare le opere più famose in contesti più ampi”.

Dal punto di vista pratico le soluzioni si possono trovare, ma non si dovrebbe provare a cambiare una certa mentalità “da turista” per cui si visita soprattutto, a volte unicamente, il già noto?
“Non credo sia una mentalità che riguarda solo il turista, ma che ci riguarda in parte un po’ tutti. Anche il sociologo Pierre Bourdieu ha sottolineato come sia gratificante trovarsi di fronte al già noto: tutti noi godiamo del fatto di riconoscere qualcosa che già conosciamo. E di solito riconosciamo il capolavoro, magari perché lo abbiamo già visto sui libri, in una pubblicità o sul web. La seconda volta però riconosciamo anche ciò che è meno noto. Detto questo, credo che la scuola possa svolgere un ruolo importante, educando i giovani a fruire dell’arte in maniera diversa, lontana dalla logica dei selfie. Infine, ci sono sempre modalità che permettono di visitare i musei in giornate più tranquille: penso alle aperture serali, alle giornate feriali in orari inusuali etc. Chi è appassionato d’arte il tempo lo trova”.

Quindi le mostre da record, quelle a pacchetto tutto compreso magari sugli impressionisti le trovi utili?
“No, quelle per niente, anzi, non andrebbero fatte. Sono diseducative e i sondaggi compiuti al termine della mostra dimostrano come quel pubblico non riceva nessun arricchimento. A chi aveva appena visto l’ennesima mostra sugli impressionisti era stato chiesto quale era il pittore che aveva apprezzato di più e molti rispondevano “Picasso”, anche se ovviamente non c’erano sue opere in mostra. Ricordo che quando studiavo al Louvre alla fine degli anni ’90, veniva sottolineato come i pullman di giapponesi avessero a disposizione 42 minuti per visitare il museo. Quindi si organizzavano selezionando solo le opere più note, Michelangelo, Leonardo e la Nike di Samotracia. Si fotografavano a fianco dell’opera e nemmeno la guardavano. Ovviamente questo non è il modello di fruizione dell’arte a cui rifarsi”.

Ultima cosa, queste sono le ultime settimane della tua direzione, nessuno poteva immaginare che il passaggio di testimone avvenisse in queste condizioni…
“No, è davvero una situazione complicata e viviamo tutti nell’incertezza. Per quel che riguarda l’attività quotidiana di Museion, abbiamo puntato molto sul digitale. Sappiamo benissimo che la fruizione dell’arte online non può sostituire quella fisica, ma al momento non abbiamo alternative. Ho molto apprezzato un corsivo di Paolo Giordano sul Corriere della Sera, che invitava a non dimenticare quanto sta succedendo per ripartire con il piede giusto. Credo e penso che quando l’emergenza sarà finita, l’arte e la cultura saranno fondamentali per il processo di rielaborazione di quel che è successo e per decidere i percorsi futuri. La cultura comunque, anche ora, ci fornisce gli strumenti per essere più preparati di fronte alla crisi, perché ci spinge a ragionare in maniera non ortodossa e a trovare soluzioni intelligenti e non banali. Ma credo che queste giornate ci abbiano fatto capire anche un altro aspetto: occorre collaborare di più. In Italia si lavora troppo poco in rete, dovremmo tutti collaborare meglio e maggiormente, certe situazioni non si possono affrontare in maniera isolata, con la logica dell’ognuno per sé”.

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Massimiliano Boschi
Scripta Manent

Collaboro con “Alto Adige Innovazione” e “FF- Das Südtiroler Wochenmagazin”. In passato con “Diario della settimana”, “Micromega” e “Il Venerdì di Repubblica”.