“Possiamo osare di più”

Massimiliano Boschi
Scripta Manent
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4 min readApr 8, 2019

La musica, il pubblico, il provincialismo e la produzione di cultura in Alto Adige. Intervista al violinista e compositore Marcello Fera, direttore artistico dell’Ensemble Conductus.

É sempre un piacere ascoltare Marcello Fera, anche quando non suona. Nato a Genova nel 1966 è compositore, direttore d’orchestra e violinista nonché direttore e fondatore dell’Ensemble Conductus, direttore artistico della stagione Sonora e delle attività musicali di Merano Arte. I suoi punti di osservazione sul pubblico musicale dell’Alto Adige sono quindi numerosi e differenziati, ma, nonostante questo, ci tiene a far sapere che il suo è solo un punto di vista parziale: “Non so quanto sia esaustivo, non mi sento di dare giudizi definitivi. Detto questo, ho l’impressione che la quantità e il tipo di pubblico presente agli spettacoli non dipenda tanto dalla proposta culturale quanto da un complicato sistema di relazioni tra gruppi sociali da quanto cioè il pubblico si riconosce in chi offre la programmazione. Lo stesso identico spettacolo offerto dal Teatro Stabile o da un’altra istituzione ad esempio, non avrà lo stesso pubblico, anche al netto di una pari efficienza di comunicazione. E lo stesso vale tra i diversi promotori a tutti i livelli. Questo lo si osserva anche all’interno di una singola programmazione, io ad esempio so di poter contare su un pubblico numericamente stabile e piuttosto circoscritto e a fronte della davvero variegata offerta di proposte musicali”.

Un pubblico poco “flessibile”?
“Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, osservo che di volta in volta non ci sono grandi variazioni nella composizione di questo pubblico. Poi esiste anche una componente che riguarda i gruppi linguistici, per fare un altro esempio, quando il Theater in der Altstadt di Merano ha provato a proporre qualcosa di italiano non ha funzionato perché quel luogo non veniva riconosciuto dal pubblico di lingua italiana. La musica risente ovviamente meno della spartizione linguistica ma non ne è esente”.

Il luogo è più importante dell’artista?
“L’arte contemporanea ci insegna questo da molto tempo, ma non è solo una questione di luoghi, di contesti, ma come provavo a dir sopra anche e soprattutto di Veranstalter, di identità dell’organizzatore. E’ un’opinione, anche molto condivisa, che sarebbe interessante rendere oggetto di studio. Mi limito a sottolineare che a quanto pare il pubblico preferisce seguire certi Veranstalter indipendentemente dall’offerta, conta il patto di fiducia che stabilisce con l’organizzatore. Quello che per me rimane un po’ misterioso è capire come, in base a che cosa si stabilisca questo patto, se non è esclusivamente l’offerta. Per questo all’inizio facevo riferimento a un complesso sistema di relazioni sociali.”

L’identità della proposta è evidentemente fondamentale.
“E’ fin banale ricordarlo. Qualche tempo fa, ho partecipato a un incontro organizzato da Merano Arte con un curatore della Tate Gallery che sulla questione dell’identità ha spinto molto. Ha sottolineato come l’essere riconoscibili sia fondamentale e che solo grazie a un progetto chiaro ed identificabile si possono proporre generi anche molto differenti. Ma per creare identità è necessario perseverare nel tempo e presentarsi in maniera coerente. Lo ha spiegato attraverso fatti concreti, raccontando, ad esempio, come alla Tate si sia ragionato sul tono della voce che dovesse avere l’istituzione prima di presentarsi all’esterno: dall’impiegato che ti accoglie allo sportello, alla comunicazione stampa fino alle modalità di utilizzo dei social network. Tutto deve parlare con una voce sola”.

Tornando all’Alto Adige. Si dice che la musica superi ogni barriera etnica o linguistica. E’ vero anche qui?
“Sì, è naturalmente privilegiata ma in questo ma fino a un certo punto. Come ho già detto, l’organizzatore e il luogo hanno un peso rilevante sulla composizione anche linguistica del pubblico. Dal mio particolare punto di osservazione l’impressione è che il pubblico della musica classica qui sia tendenzialmente a maggioranza tedesca”.

Come valuta la partecipazione del pubblico locale? Nessuno si aspetta che sia caloroso, ma è almeno appassionato?
“A me quello locale pare un buon pubblico, coinvolto, ma in termini globali è un tema doloroso e cruciale. Quale relazione di necessità c’è tra un episodio di arte performativa e il suo pubblico? Il clarinettista Gabriele Mirabassi mi ha confessato che solo in Brasile ha percepito di fare qualcosa di necessario quando suonava. In Europa e negli Stati Uniti regna la passività. Non è sempre stato così ma oggi è difficile a trovare un pubblico che viva con totale passione la performance artistica a cui assiste”.

Non è anche “colpa” della dimensione delle proposta?
“Ovviamente considero molto positivamente che l’offerta culturale in Alto Adige sia così vasta e di qualità. In tempi di risorse in calo, forse, servirebbe una maggiore responsabilità nei confronti della produzione. Non si può avere lo stesso approccio nei confronti di chi produce cultura e di chi si limita a comprarla e rivenderla. Credo che chi produce meriti un’attenzione particolare, non tutto quello che si produce è buono ma l’approccio deve essere differente”.

La mentalità di provincia svolge un ruolo in tutto questo?
“E’ una questione complessa, ma di regola centro e periferia (dunque provincia) non si qualificano per ragioni geografiche ma in base a chi produce e a chi compra. Centro è ovunque si produca, ovunque si sia in grado far nascere un valore culturale. Il complesso di chi si sente provinciale spinge spesso ad agire in modo contrario a ciò che si vorrebbe ottenere: per sprovincializzarsi ci si focalizza sull’importazione, su ciò che è già riconosciuto come importante altrove. Ma una provincia ricca come la nostra può fare molto di più. Esistono casi esemplari: l’Emilia Romagna è stato ed è da anni un faro illuminante nella produzione di un teatro d’avanguardia. Ha saputo dialogare con un pubblico internazionale pur non avendo un centro metropolitano di riferimento come Roma o Milano. E’ la dimostrazione che anche fuori dai grandi centri urbani si possono ottenere ottimi risultati”.

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Massimiliano Boschi
Scripta Manent

Collaboro con “Alto Adige Innovazione” e “FF- Das Südtiroler Wochenmagazin”. In passato con “Diario della settimana”, “Micromega” e “Il Venerdì di Repubblica”.