“Riposano festosamente in pace”

Massimiliano Boschi
Scripta Manent
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5 min readNov 26, 2020

“Dietro le terze”: le maschere e il virus in uno straordinario racconto di Heinrich Heine, i musei d’arte contemporanea, Calvino e la fotografia, un dialogo tra Nanni Moretti e Enrico Ghezzi del 1989.

Bolzano: Lapide ai piedi del complesso monumentale dedicato alla Maria Vergine realizzato nel 1909 dallo scultore Andreas Kompatscher secondo un progetto dell’architetto Theyer.

“L’arrivo del colera venne annunciato ufficialmente il 29 marzo, e poiché si trattava del giorno di mezza quaresima e il sole splendeva nel cielo terso, i parigini andavano e venivano febbrilmente sui boulevard con ancor più gaiezza. C’era persino chi portava la maschera, di un bluastro livido o dall’aspetto cagionevole, per caricaturare e ironizzare la paura del colera e il morbo stesso. Quella sera le sale da ballo erano più affollate del solito: le risa sguaiate sopraffacevano la musica; ci si affannava per ballare il cancan, un ballo tutt’altro che pudico; tutti bramavano ogni tipo di bevanda fredda o con ghiaccio quando, all’improvviso, il più ilare degli arlecchini sentì che le gambe gli si erano intirizzite e si tolse la maschera e, per la meraviglia di tutti, svelò la faccia ormai violacea. Non appena ci si accorse che non vi era alcun trucco, le risate si spensero e molte carrozze iniziarono a trasportare donne e uomini dal ballo all’Hôtel-Dieu, l’ospedale centrale dove, ancora travestiti, morirono. L’onta di terrore fu tale, che le persone iniziarono a credere che il colera fosse contagioso e poiché dall’ospedale si levavano mefistofeliche urla di paura, si dice che molti vennero sepolti così velocemente che non furono svestiti nemmeno delle stravaganti mise che portavano, così ora riposano festosamente in pace”.

Questa puntata di “Dietro le terze” potrebbe anche terminare qui, con questo estratto di un racconto di Heinrich Heine pubblicato da Pangea News l’8 novembre scorso. Un brano che descrivendo episodi avvenuti quasi due secoli. fra, era il 1832, racconta quanto avviene oggi nella sua essenza perchè quei morti vestiti a festa probabilmente ci rappresentano in maniera esemplare.

Lasciando l’Ottocento per tornare all’attualità, riprendiamo un articolo scritto da Santa Nastro per “Artribune”: “Il museo d’arte contemporanea? E’ pubblico”. Un testo che è il frutto delle riflessioni generate da una serie di interviste a direttori di musei compiute da Artribune nella primavera scorsa.

“Una piccola grande verità viene sussurrata timidamente e poi sempre più forte: il museo pubblico è pubblico. Non che fino a oggi le cose stessero in un altro modo, ma sicuramente per tutto lo scorso decennio i venti delle politiche culturali hanno spirato in una direzione un po’ diversa mettendo in campo un nuovo identikit, una idea di cultura auto-sostenibile, produttiva fino alle esagerazioni di slogan un po’ azzardati come “la cultura che fattura”. La logica che ne è conseguita è quella manageriale, che di per sé non è sbagliata, se accompagnata da una competenza nell’ambito di riferimento o dal confronto con gli addetti ai lavori, ma che può assumere connotati tragici e schizoidi laddove non si tenga presente l’assunto di base. Cioè che il Museo, se è pubblico, è pubblico. Pagato da tutti noi, dai cittadini, con una vocazione, una mission, per dirla nel “managerese”, nell’interesse della collettività e della comunità. Questa regola n.1 spariglia tutte le carte, detta i principi di base, regola il rapporto tra istituzione e visitatore, orienta le attività e in un certo qual modo anche i contenuti”. Una premessa che, basandosi sulle interviste concesse ad Artribune da diversi direttori di musei d’arte contemporanea, si chiude così: “È chiaro che qui non si sta invocando per i musei italiani una logica prettamente statalista: un rapporto sano con il privato è auspicabile sempre e va incoraggiato (…). Si tratta solo ed esclusivamente di rimettere in ordine le cose e di chiarire chi fa cosa. Un museo pubblico non è una azienda. Anche se ha delle attività auto-sostenibili, anche se c’è un biglietto da pagare, anche se produce ricchezze, economie, lavoro, realizza e vende libri, oggetti, servizi, gadget. Perché il suo primo e obbligato profitto è il futuro”.

CALVINO E LA FOTOGRAFIA (da “The Vision”)

“Ne L’avventura di un fotografo, uno dei racconti più densi del volume Gli amori difficili, Antonino Paraggi, impiegato con la passione di sdipanare il filo delle ragioni generali dai garbugli particolari, osserva con astio e sospetto la mania dei suoi coetanei di fotografare ogni movimento dei figli, ogni posa delle mogli, ogni giornata passata in compagnia degli amici. Basta che cominciate a dire di qualcosa: ‘Ah che bello, bisognerebbe fotografarlo!’ e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, e che quindi per vivere bisogna davvero fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia. Non importa se Calvino scrive in un’epoca in cui la fotografia è ancora quella analogica delle pellicole che una volta impresse devono essere sviluppate, la sostanza del gesto è la stessa di oggi. Nello sguardo critico di Antonino Paraggi — che diventa tuttavia a sua volta fotografo ossessivo — si cela un’osservazione sorprendentemente attuale, che mette in luce una delle dinamiche psicologiche collettive più rilevanti del nostro tempo. (…)
Quando il protagonista ormai avvinto dalla sua ossessione, inizia a fotografare costantemente la sua compagna Bice, si scopre sempre insoddisfatto del risultato: C’erano molte fotografie di Bice possibili e molte Bice impossibili da fotografare, ma quello che lui cercava era la fotografia unica che contenesse le une e le altre. E questo può farlo soltanto la vita.
L’impossibilità di fotografare tutte le Bice possibili, e la frustrazione che questa impossibilità comporta, pone quindi una questione fondamentale: i ricordi appartengono al tempo e come il tempo sfuggono, gravitano, si moltiplicano in continuazione. La memoria, ci ricorda Calvino, non è un registratore fedele della realtà e dell’identità, ma è una sua interpretazione sempre in evoluzione, sottoposta a trasformazioni continue. Ormai ti ho persa, dice Antonino alla sua Bice mentre la fotografa, e qui davvero sembra aver letto i risultati dei moderni studi sul tema. La realtà fotografata assume subito un carattere nostalgico, di gioia fuggita sull’alta del tempo. […] La vita che vivete per fotografarla è già in partenza commemorazione di sé stessa.
E se la commemorazione è celebrativa, solenne, univoca, la memoria deve essere labile, incerta, sfuggente. Calvino lo aveva capito, e forse oggi dovremmo ascoltarlo, per ritrovare un contatto immediato con il mondo di immagini libere che ci circondano e con la percezione che abbiamo di noi stessi immersi in quel flusso”. (Articolo di Isabella de Silvestro)

Per chiudere una conversazione tra Enrico Ghezzi e Nanni Moretti del 1989.
(Si apprezzino i tempi delle risposte del regista romano nato a Brunico).

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Massimiliano Boschi
Scripta Manent

Collaboro con “Alto Adige Innovazione” e “FF- Das Südtiroler Wochenmagazin”. In passato con “Diario della settimana”, “Micromega” e “Il Venerdì di Repubblica”.