Risvegliare i critici dal coma

Massimiliano Boschi
Scripta Manent
Published in
6 min readFeb 5, 2020

“Dietro le Terze”: la rassegna stampa culturale di Scripta Manent. Il teatro, i musei e il politicamente corretto. Di cosa si discute fuori dall’Alto Adige.

Parte oggi la nuova rubrica di Scripta Manent, una rassegna stampa mensile sul dibattito culturale presente sui quotidiani (anche quelli che hanno sfrattato la cultura dalla tradizionale terza pagina) sulla stampa in generale, sulle riviste online e sui social.

Partiamo con l’appello lanciato sulla sua bacheca Facebook dalla regista teatrale e drammaturga Emma Dante che prova a “risvegliare dal coma” i critici e i giornalisti:

“Dove sono finite quelle belle recensioni di una volta? Ma anche le stroncature dove sono finite? Debuttavamo e aspettavamo trepidanti l’uscita dell’articolo dopo aver osservato il comportamento del critico in sala alla fine dello spettacolo: applaude? Non applaude? Oddio se ne va per primo! No, resta seduto! Finiva lo spettacolo e noi, quasi non dormivamo in attesa del responso. eravamo eccitati dall’idea di leggere la testimonianza del giornalista, perché credevamo che quello sguardo sensibile ed esperto nel bene e nel male avrebbe arricchito il nostro percorso artistico. adesso, a parte i paginoni delle presentazioni vendute dai giornali, nella maggior parte dei casi, sul cartaceo la recensione è un numero esiguo di righe in cui il critico esegue il compitino e alla fine si mette pure il voto. questa storia del voto, poi, è al limite del ridicolo. Insomma, cosa possiamo fare per far ritrovare l’ispirazione al giornalista? al direttore della terza pagina? Come risvegliarli dal coma? Noi, teatranti impanicati dalla nostra stessa arte, facciamo ciò che possiamo ma evidentemente non facciamo abbastanza! Siamo troppo ripetitivi nel nostro ribadire sempre la stessa ossessione e annoiamo un po’ con la stessa ricerca che da anni fa di tutto per non tradirsi. allora che si fa? Si sopporta in silenzio la miseria con cui si risponde alla ricchezza del nostro cercare? Noi continuiamo a cercare ma voi giornalisti aiutateci a trovare qualcosa”.

Sempre riguardo al dibattito culturale, Andrea Berrini su Doppio Zero parte da quanto osservato in Cina per dire alcune parole decisamente efficaci sul dibattito italiano. Lo fa partendo dalla memoria personale: “Ricordo una cena con amici, nella quale magnificavo l’apertura al futuro della Cina, e mi dicevo felice di frequentare un paese nel quale le tematiche sociali erano a fior di pelle, lo sviluppo, l’emigrazione interna, la costituzione di una classe media, e quindi lo shock degli individui per trasformazioni che li portano nello spazio di trent’anni dal villaggio povero in campagna alla metropoli avveniristica. Paragonavo la ricchezza del discutere di Cina in Cina con l’irrealtà di ogni discussione sull’Italia in Italia, i temi farlocchi imposti al dibattito da piccole convenienze politiche, l’incapacità di prendere atto delle difficoltà del vivere e farne oggetto di riflessione, le occasioni per sfoghi verbali senza nessuna capacità né voglia di approfondire le questioni, di ragionarne in modo piano. E mi capitò di dire che sì, in Cina poi c’era la censura e questo era straordinario perché ogni scrittore doveva misurarsi con essa, fatto concretissimo che svelava le attitudini di ciascuno, la sua stoffa. Mi brillavano gli occhi, e stavo parlando di censura: venni ripreso da un amico, giustamente”.

Sempre su Doppiozero, segnaliamo l’articolo di Giuseppe Mendicino dedicato allo scultore gardenese Adolf Vallazza e al silenzio delle montagne >>>

Al centro del dibattito culturale di questi ultimi giorni, ci sono, però, i musei. Pochi giorni fa è stata pubblicata la “Top 30 dei musei e dei parchi archeologici statali” e su questa classifica sul linguaggio utilizzato nel comunicarla, si è concentrato Federico Giannini su “Finestre sull’arte”.
“Quello che forse non è chiaro a tanti è che ridurre il museo a un passatempo disimpegnato, a luogo dove provare impalpabili emozioni, a teatro di demenziali passeggiate nella bellezza, significa spingere affinché il museo stesso abdichi al suo ruolo di luogo in cui si cerca di comprendere il mondo, di sviluppare un pensiero critico, di ragionare su diritti, libertà, parità, partecipazione, di dialogare sul passato e sul futuro. E affinché si riduca a semplice sito dove passare un po’ di tempo perché tanto è gratis, o perché è meglio del centro commerciale. (…) Sarà il caso di farsi una domanda: ma non è meglio guardarsi una bella e consapevole partita di calcio piuttosto che visitare un museo come se andassimo a vedere le vetrine di un outlet?

In tutto il mondo, invece, si discute della decisione del Louvre di Parigi di restituire dieci opere confiscate durante il periodo della Repubblica di Vichy. La notizia è riportata da Exibart che ricorda come per i musei occidentali sia venuto il momento di fare i conti con il proprio passato. “Un passato che, spesso, ha a che fare con tristi storie di colonialismo, spoliazioni, furti, appropriazioni ben poco lecite. (…) C’è ancora molto da fare: si stima che circa 100mila opere d’arte siano state saccheggiate dai nazisti o vendute sotto coercizione durante l’occupazione tedesca della Francia”.
Sullo stesso tema è intervenuto Francesco Stocchi su Il Foglio Arte, nuovissimo inserto mensile del quotidiano diretto da Claudio Cerasa.
Nell’articolo “Restituire bene il maltolto”, Stocchi compie un lungo excursus sulle modalità delle “restituzioni” decise nei vari musei d’Europa, per arrivare a una conclusione esplicitamente provocatoria: “Quando si applica alla storia una visione manicheista, la si appiattisce. E mentre le accuse sui peccati del passato diventano sempre più forti, mentre i musei si politicizzano, si parla sempre meno degli oggetti che sono al centro delle controversie. Il Louvre fu fondato sulla collezione d’arte del re francese prima che il museo venisse conquistato dai rivoluzionari che giustiziarono il re alla ghigliottina. Si potrebbe dire che i discendenti delle famiglie reali espropriate sono i legittimi proprietari di molti degli oggetti esposti al Louvre. Forse Dovrebbero presentare un reclamo”.

Restiamo nelle sale del Louvre, in particolare nella Salle des Etats che ospita la Gioconda per tornare alla polemica lanciata a novembre scorso dal New York Times. In un articolo intitolato “It’s Time to Take Down the Monalisa”, Jason Farago ha invitato il museo parigino a collocare altrove il quadro di Leonardo perchè “E’diventata una specie di reliquia sacra e sta danneggiando il Louvre”. Sul tema sono intervenuti decine di giornali ma qui riprendiamo un vecchio pezzo scritto da Luca Fontana nel giugno 2015 per “I fiori del male” che si conclude proprio con un invito al dibattito: “Il miracolo è che questo assiepamento nel rito totemico (L’assieparsi attorno alla Gioconda ndr)- permette — unica stanza in tutta la sezione pittura italiana — di contemplare in perfetta tranquillità e letizia la dozzina di meravigliosi Tiziano di tutti i periodi — forse la più bella scelta antologica al mondo — o i tre Lorenzo Lotto, magici e misteriosi, e ottimamente restaurati. Cos’è ormai il museo nell’epoca dell’industria del mass entertainment? Quel che credeva il barone Vivant Denon, che su incarico di Napoleone del Louvre fu padre: uno strumento di educazione e formazione morale del cittadino? Attendo risposte”. (Si consiglia la lettura integrale del pezzo di Luca Fontana)

Per chiudere: un paio di segnalazioni e un appuntamento che diventerà abituale.

Il settimanale Internazionale riprende un articolo di Oliver Burkeman su The Guardian intitolato: “La Noia è solo mancanza di attenzione”: “Alle persone — scrive Burkeman — piace ripetere le stesse esperienze più di quanto immaginano. E non perché usano quella ripetizione per entrare in una confortevole trance, ma perché scoprono nuovi dettagli che la prima volta gli erano sfuggiti. Per citare O’Brien: Vedere una cosa una volta può provocare in noi l’errata impressione di averla ormai ‘vista’, mentre in realtà ci sono sfumature che ci sono sfuggite e delle quali potremmo ancora godere. Non è tanto questione di amare quello che ci è familiare, quindi, quanto di scoprire che dopotutto non ci era così familiare”.

Larissa Kikol su “Die Zeit” mette il “dito nella piaga” rispetto alla discriminazione razziale e di genere nel mondo dell’arte. Lo fa evidenziando come la buona coscienza, o il politicamente corretto possano avere più importanza dell’arte e degli artisti: “L’artista Burcu Bilgic è stata invitata a una mostra in cui venivano esposte solo opere di donne immigrate provenienti da paesi svantaggiati. Il curatore non conosceva affatto il mio lavoro — ha sottolineato Bilgic — mi ha scelto solo perché sono una donna e una donna turca. Per questo ha rifiutato l’invito”.
Il resto qui (in lingua tedesca)

Per chiudere, l’appuntamento fisso: “Dibattito culturale (reload)”.

Enzo Biagi intervista Pier Paolo Pasolini sugli intellettuali italiani e i compromessi:

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Massimiliano Boschi
Scripta Manent

Collaboro con “Alto Adige Innovazione” e “FF- Das Südtiroler Wochenmagazin”. In passato con “Diario della settimana”, “Micromega” e “Il Venerdì di Repubblica”.