Strega tocca dolore

di Claudia Tavano

domitilla.pirro
Scrivere la ferita @OFF TOPIC
3 min readJul 30, 2023

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[NB: ogni racconto della raccolta è stato realizzato a coronamento di questo percorso. Qualsiasi riferimento a nomi, persone esistenti o fatti accaduti è puramente casuale ed è da attribuirsi integralmente alla teoria del caos.]

All’alba e al tramonto il cielo si tinge di un colore che da sempre mi fa impazzire: è un blu un po’ verde e un po’ giallo, ma si può vedere solo quando non fa ancora molto caldo, quando l’estate non è ancora arrivata, come quella mattina. Saranno state le sei e mezza e io stavo rientrando a casa, da sola, le mani aggrappate al volante e le prime lentiggini sul naso a guardare su, ferma al semaforo verde.

Questo non è stato il vero inizio di tutto e questo non sarà un racconto in ordine cronologico, perché ci sono momenti nella vita, momenti che sono frazioni di secondo oppure file di ore o mesi interi, in cui è la memoria a scandire una linea temporale a suon di colpi. A pugni.

Qualche ora prima, nella notte tra il sabato e la domenica di Pasqua, dei tonfi soffocati, come una serie di pugni dati al muro da un pugile con i guantoni, ma molto lento, fuori forma, mi svegliano.
Sono settimane che in casa mia si dorme male, tutti dormiamo male, mio padre ha preso a fare passeggiate in bagno o in cucina a qualsiasi ora. Ma questa notte no, questa notte il rumore è diverso, cos’è, da dove viene? Scritte in rosso lampeggiano le quattro del mattino. Chi sono io? Da dove vengo?
Percorro il corridoio di casa nostra, una casa popolare che adesso non lo è più ma un po’ lo è per sempre.
Mio padre è seduto all’angolo di quello schifo di divano in pelle nera, batte con il palmo aperto della mano sul bracciolo a intervalli regolari, mi vede senza tirare su la testa e aumenta il ritmo.

Mi avrà detto lui che non riusciva a respirare? L’avrò capito da sola? Ho svegliato mia madre e mio fratello prima di comporre il 118? Chi se lo ricorda.

Entrano in casa in tre, tutti vestiti di rosso, armeggiano con strumenti con nomi molto lunghi da scrivere.
Mio padre ha ripreso a respirare, ci dicono che la saturazione è buona ma lui è giallo.
Testuale. Ci dicono “È giallo”. Dopo averlo detto, uno di loro serra le labbra e guardandomi scuote la testa.

La sala d’attesa odora di disinfettante a basa alcolica misto a qualche aroma che a me ricorda un po’ i pannolini dei bambini o le traversine dei vecchi, roba poco piacevole per chiunque ma che io da quel giorno non riesco più a sentire senza stare male.
Le luci al neon ti svegliano con violenza a martellate sulla retina e ogni volta che sbatti le palpebre vedi punti neri sempre più grandi.
Fa un freddo cane. Mi becco una bronchite.

Non me lo ricordo perché fossi tornata a casa da sola alle prime luci del giorno.
Non ricordo nemmeno se mia madre era in ospedale con me e dove fosse mio fratello.
Chissà in quale modo, secondo quale criterio e priorità il nostro cervello seleziona cosa tenere e cosa no; chissà se teniamo solo quello che è realmente accaduto o se le emozioni distorcono il vero.
Quello che abbiamo vissuto e non ricordiamo fa male lo stesso, solo in parti diverse.

Settimane dopo, e questo fa parte delle cose che il mio cervello ha scelto di tenere e tenere molto forte, stavo di nuovo guidando. Tornavo dall’ospedale per andare a lavorare.
Da qualche anno ogni weekend lavoravo in una pizzeria: servivo i tavoli, animavo le feste dei bambini, caricavo la lavastoviglie, preparavo caffè. Raggiungevo i miei amici dopo lavoro con i capelli rigorosamente legati, odoravo sempre di impasto di pizza e patatine fritte.
Quel tardo pomeriggio, ferma al semaforo (questa volta rosso), mangiavo gallette di riso per cena mentre l’ultimo sole mi cuoceva la guancia sinistra.
È scattato il verde, da dietro mi suonano.
Che cazzo ti suoni se il mendicante è ancora in mezzo alla strada.
Il rumore del freno a mano che tiro mi riporta al mondo, al mio mondo: ho vent’anni, studio, lavoro, guido.
Sono indipendente, autonoma. Sono diventata una donna.
E mio padre sta per morire.

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