Salvata come bozza

di Susanna Silicati

domitilla.pirro
Scrivere la ferita @OFF TOPIC
4 min readJul 30, 2023

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[NB: ogni racconto della raccolta è stato realizzato a coronamento di questo percorso. Qualsiasi riferimento a nomi, persone esistenti o fatti accaduti è puramente casuale ed è da attribuirsi integralmente alla teoria del caos.]

Ciao, Francesco.

Il mio nome è Matilde, e tu e io non ci conosciamo.

È anche per questo che ho deciso di scriverti. A te posso dire tutto, e solo quello che dirò sarà importante, perché non ci sarà nient’altro.

Oggi è il 28 novembre e io sono a Torino. Ero sull’autobus per andare a lezione, quando ho pensato che sto guarendo. È stato un pensiero solitario, non il frutto di riflessioni importanti, non è successo nulla. Mi ha solo attraversata, così, come una verità tra le tante.

E mi sono trovata a chiedermi come sia successo. E mi sono accorta che sto dimenticando. E mi sono spaventata.

Ho ripercorso la settimana interrogandomi su quante volte mi sia capitato di abbuffarmi e vomitare. Due? Solo due? Magari di più e non lo ricordo. E com’era quando succedeva quattro volte al giorno? E quanto tempo fa era?

Forse ora ho imparato che il mondo non è ostile. È vero che sto meglio.

Ma è anche vero che c’è un doppiofondo: una traccia di terrore sotterraneo che mi accompagna ogni momento, che mi impone di fuggire. E la fuga è non rispondere al telefono, scendere le scale per andare al supermarket, risalire con due pacchi di biscotti, forse tre, chiudersi in camera. Mangiare e vomitare tutto, con la musica a nascondere i rumori e a distrarre la paura.

Alla fine la stanchezza prevale sull’angoscia e riesco di nuovo a guardarmi in faccia, e, a volte, scrivere.

Il primo ricordo che ho di questa paura è di fronte a una finestra buia, una sera di tre anni fa, a casa di Vanessa.

Eravamo in Germania, lei in Erasmus io da lei, e lei che mi chiedeva di non tornare a casa, anche se il mio aereo partiva la mattina dopo. Era spaventata. Sentiva che se me ne fossi andata sarebbe successo qualcosa di terribile. Che tu saresti venuto a cercarla, perché eri il suo professore di tedesco e ogni cosa che la circondava aveva le tue sembianze.

Forse ho assorbito le sue paure. Forse, per prenderne distanza, ho dovuto inventarne altre, anche se non sono certa di quali siano. Le sue avevano un nome, in fondo. Il tuo. Le mie?

Io non ho paura di dire il tuo nome, Francesco. Francesco Gigli. Vanessa ti ha nominato così poche volte che ammetto di aver fatto fatica a ricordarlo.

Ho desiderato essere al suo posto: avere un nome da odiare, avere la parola stupro con cui riempire la bocca e dare al dolore un senso.

Stare vicino a lei mi ha provocato una fatica a cui non ho saputo dare spazio. È a questo che la bulimia è venuta in soccorso? A dare uno spazio e un nome?

Lo so che non è così semplice, ma lo so che c’è qualcosa di vero.

Incastrata tra te e Vanessa non avevo aria: non ho imparato a odiarti e non ho saputo tenere le distanze. La stanchezza mi ha messo all’angolo. Sono stata costretta a ritagliarmi con ferocia una sofferenza che non mi fosse estranea.

Ora lei sta meglio, mi ha detto. Ha iniziato la terapia, ha parlato con i suoi genitori, è di nuovo in Erasmus, stavolta in Spagna. Ha deciso di denunciarti.

Mi ha chiamato per dirmelo. Mi ha raccontato i suoi ultimi mesi e io brevemente i miei. È stato parlando con lei che mi sono resa conto davvero di stare meglio.

Mi ha ricordato dei mesi passati: di come non riuscissi a uscire di casa, di come ogni pasto fosse un mostro da affrontare, delle ondate di disperazione che si alzavano e abbassavano lente e fredde come il mare di casa d’inverno.

Ora sono seduta in un bar a scrivere e bevo una cioccolata e l’odore di biscotti caldi che c’è nell’aria non mi manda nel panico. È quasi buono.

Non oso ancora tenere cibo in casa, mi spaventa averlo a disposizione ogni momento; ma ho usato la parola ancora. Che bella. Così dimessa e speranzosa allo stesso tempo.

Tu insegni ancora? Abusi ancora delle tue studentesse? C’è una speranza anche in queste domande. Io non credo di sentire rancore nei tuoi confronti. E non credo di avere con te qualcosa in sospeso, qualcosa che impedisca alle mie paure di andarsene. Non ti appartengono. Non sento nemmeno il bisogno di spedirti questa lettera; se lo farò è per ricordarmi che esisti, e che non hai nessun potere su di me. E perché c’è della soddisfazione nel poterti dire che spero di vederti presto, perché quando Vanessa riuscirà a portarti in tribunale io non mancherò.

Quindi a presto, Francesco.

M.

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