Secchi e salati

di Bianca Cip

domitilla.pirro
Scrivere la ferita @OFF TOPIC
5 min readJul 30, 2023

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[NB: ogni racconto della raccolta è stato realizzato a coronamento di questo percorso. Qualsiasi riferimento a nomi, persone esistenti o fatti accaduti è puramente casuale ed è da attribuirsi integralmente alla teoria del caos.]

La suola delle scarpe come un chewing-gum resta attaccata a terra ad ogni passo. Mi chiedo se sia possibile che via via si sciolgano e io rimanga con le piante dei piedi nude e ustionate o se si fonderanno insieme al catrame del marciapiede, bloccate a metà, un po’ sullo scalino e un po’ sulla strada. La campana suona, andiamo in pace.

La vecchia piazza è disertata in favore dell’altra, alberata. Solo pochi fedeli si sono spinti quassù. Per la messa o per il fresco della chiesa. Gli ultimi si sparpagliano fuori dal portone diretti a casa. Provo a sveltire il passo, ma il caldo mi fiacca. Il frinire delle cicale nascoste chissà dove è al suo massimo, mi gira la testa. In fondo alla piazza vedo mio nonno, abbacinato nel sole.

Mi fermo, lo guardo gesticolare lentamente, con grandi cerchi nell’aria. Sembra un vecchio ventilatore rumoroso. Parla con due donne che lo fissano attente, una accanto all’altra. Forse sono ipnotizzate dalle sue mani rotanti, forse dalle parole che sciorina con lenta sicurezza da attore. Se si volta adesso mi vede. Se mi vede mi riconosce?

In terza media ho dovuto scrivere un tema su chi ammirassi di più tra i miei parenti. Passate in rassegna tutte le persone della mia famiglia, alla fine scelsi proprio lui. Quando ci penso mi dico che non è stata altro che una scelta dettata dalla facilità della scrittura. Mio nonno si raccontava già così tanto splendido da solo che mi bastava reiterare tutti quegli aneddoti, si sarebbero tirati dietro lo scintillio che gli applicava col lucido da scarpe che non ha mai usato. Al colloquio di aprile il tema faceva parte del materiale da mostrare ai genitori. Mia madre tornata a casa mi saettò con domande su faccende che avrei dovuto svolgere, la cucina da spazzare, la camera da riordinare, il pane, non c’era il pane in casa. Io però avevo passato il pomeriggio in contemplazione dello scorrere del tempo che mancava al suo rientro.

Una domenica di qualche anno fa ho visto una lotta fra cani. Un mastino e un amstaff.

Mia madre si volta di scatto, come una molla o come un elastico che si rompe all’improvviso. Ha la faccia scura, la pelle tesa, le vene in risalto, la bocca si apre e si chiude. Sta gridando, sta insultando. Ha il corpo in bilico, allungato in avanti. Guida il movimento la punta del naso. Se arrivasse fino in fondo lo morderebbe. Le sue mascelle scattano ad ogni parola, con uno schiocco secco. Mia madre è alta un metro e cinquantasei, non mi è mai sembrata bassa. Mio nonno le sta di fronte, colto di sorpresa sposta il peso da un piede all’altro, dal destro al sinistro, poi reagisce. Ride, la sfotte. Si arrabbia, gonfia il petto, alza le mani agita le braccia. Gonfia e sgonfia le guance parlando sempre più velocemente. Una bava biancastra e spessa gli si ferma agli angoli delle labbra.

Non ricordo come finì lo scontro, ma entrambi i cani sopravvissero.

Cerco una via dove sgattaiolare. Nel tentativo di deglutire la gola si contrae e si chiude, guardo a destra poi a sinistra. Non c’è una strada dove infilarmi, impossibile svicolare, nessun negozio, non una vetrina da cui farmi assorbire. Potrei buttarmi dietro una macchina, come nei film che guardava mio fratello adolescente, ma l’idea di atterrare sul marciapiede arroventato mi fa ritrarre e incassare la testa in un verso di dolore tutto mentale.

Maledico le strade occhiute dei paesi di provincia, le serrande impiccione. Dietro ogni persiana chiusa vedo sguardi fissi, vitrei. Occhi sconosciuti che sanno come mi chiamo, di chi sono figlia, di chi sono nipote, se guido e quale auto guido, dove sto di casa, a chi mi accompagno. O almeno lo suppongono. Vedo il mio riflesso deforme sulla superficie secca e lucida di questi occhi puntati. Le braccia mi si sciolgono, cadono verso il basso e le ginocchia si arrotolano, la coscia si piega di sbieco, mi cresce la gobba, la testa si allunga.

Scuoto la testa, la carta del sacchetto del pane stride nella presa sudaticcia. Riprendo a camminare, con sicurezza da kamikaze mi dirigo verso quel vecchio ventilatore rotto. Poso la mano sinistra sulla stoffa grigia della sua camicia, sopra la spalla. Volta rapido la faccia verso di me facendo mezzo passo indietro, per guardarmi meglio, gli occhi, due spilli neri interrogativi dietro le lenti da miope. Ha la bocca aperta, la fronte corrucciata. Forse sono controluce o forse è disidratato. Mi vedo nelle sue lenti: una giovane e cordiale sconosciuta, che vorrà da me.

Nonno, ciao

Oh! Oh! Ma guarda! Che ci fai qua?

Sto dai miei, per il fine settimana

Eh già, già. Il lavoro? Tutto bene?

Tutto bene

Ma sì, sei in gamba te

Mh, domani riparto

Bene, bene. Ti vedo bene, brava

Dai, ci vediamo meglio quando torno in agosto, ciao nonno

Saluta tutti a casa, digli se hanno bisogno mi chiamino

Sto già camminando per la discesa verso la piazza nuova, la testa che annuisce i piedi che mi portano via. Spiacevole e inutile. Sospetto per entrambi. Forse persino per le due donne che non sono più sotto l’effetto del ventilatore. Se avessi continuato a camminare, zitta, guardando dall’altro lato. Non si sarebbe accorto di niente. Non avrei mai promesso niente, non avrei finto così. Se non avessi avuto la testa piena di occhi secchi nascosti dalle persiane.

Il sole mi punge la nuca, mi spinge in avanti. Nella piazza di sotto trovo il banchetto della domenica: croccante, dentiere da vampiro bianche e rosa, coccodrilli di gomma, rotelle di liquirizia, brigidini. Non resisto, cerco nelle tasche. Con i pochi spicci mi compro un sacchettino di semi di zucca. Sono bianchi, secchi e salati. Tante piccole palpebre. Me ne metto uno tra gli incisivi, in verticale. Spacco la buccia, la svuoto sulla lingua, mastico e deglutisco. Continuo camminando verso casa finché non ho la bocca asciugata dal sale e il sacchetto è finito.

Non passerò mai a trovarlo in agosto.

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