Volevo sapere chi fossi

di Giulia T.

domitilla.pirro
Scrivere la ferita @OFF TOPIC
5 min readJul 30, 2023

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[NB: ogni racconto della raccolta è stato realizzato a coronamento di questo percorso. Qualsiasi riferimento a nomi, persone esistenti o fatti accaduti è puramente casuale ed è da attribuirsi integralmente alla teoria del caos.]

Il giorno in cui A. mi telefona avevo lasciato la tavola apparecchiata, ché tanto ero sola, erano tutti in vacanza da qualche parte.

Amo ancora lasciare gli spazi in disordine, quando posso. Un modo, anche questo, di rivendicare lo spazio. Sono un’animale con l’apostrofo: una che marca il territorio quando può, salvo poi cancellare ogni passaggio e rimpicciolirmi, sparire. Ancora oggi.

Nella prima telefonata, mi dice qualcosa come

- Cercavo Marco per riparare un computer, mi ha lasciato questo numero.

Quando richiama, pochi istanti dopo, mi dice

- Volevo sapere chi fossi, io sono la compagna di Marco

La terra mi risucchia come sabbia nella clessidra quando finisce. Mi si secca il fiato, e risuono di un boato sordo.

- Quanti anni hai, 21, di nuovo con una così giovane.

La prima volta che abbiamo potuto parlare da soli c’erano una panchina, una data precisa nel mese di Giugno di un anno pieno di storia, una città che sarebbe diventata la mia. Intorno, i bambini che giocano tra le altalene e madri e nonne che bagolano.

Su quella panchina mi riveli in un presagio precisissimo a cosa sto andando incontro, e io, che crederò a ogni tua parola da quel momento in poi e per molto tempo, a quelle invece non credo. Mi dico pronta a tutto e non mento.

Hai una macchina nera e pensieri bellissimi che mi offri in parole che mi incantano, e io ho uno zainetto pieno di libri e ingenuità. Mi fido, sono aperta spalancata, tu mi scegli e io penso solo a che fortuna. Quando mi accompagni alla stazione mi dai un bacio sulle labbra, è la prima volta.

Come primo regalo di compleanno ti scrivo una fiaba.

Ci sono una bambina che cerca parole, una strega che le ruba, peripezie, involuzioni, metafore surrealiste.

E non ci sono capo né coda, proprio come nel resto della nostra storia.

Appiccicato al muro davanti alla scrivania dove studio, metto un post-it, ci ho scritto sopra Non chiedere. Non mi serve poi molto, perché ho già imparato e non mi azzardo mai a fare domande. Tutto quel che faccio è a tua misura, mi costruisci attorno un mondo che abito senza resistenze, senza filtri. E così non c’è un punto preciso in cui io inizi a sparire, sono già dissolta, l’invasione è così rapida che non ho altro che rese da seminare, ne cresceranno foreste, le nutro di lacrime tutte le volte che non capisco, sempre.

Fronde fittissime che mi illudo a pensare un riparo.

Sarò colma di amore, dedizione, cura infinita.

Non ne rimarrà nemmeno un goccio per me.

Nemmeno dopo la telefonata di A. faccio domande. Primo, non chiedere. Ma a te piace costruire uno dei tuoi mille castelli inventati, mondi fantastici di frasi sibilline e io penso che se non capisco è solo colpa mia. Non serve che mi trattieni, rimango, cos’altro potrei fare, quando mi dici che sono io la persona con cui vuoi crescere.

Io, che ho vent’anni di meno e niente a sorreggermi.

Poi anni dopo c’è stata una casa, libri da portare, pareti da imbiancare, lenzuola e asciugamani e pentole e la cucina nuova. Poi.

Eravamo in auto, era la mia festa preferita, non avevo mai avuto un regalo così bello per Santa Lucia: un appartamento per noi, un posto dove stare.

L’ultima volta che ho visto la casa l’avevi ristrutturata, e non ho sentito nostalgia per gli spazi trascorsi. Ho provato sollievo.

Ci sono state cene, viaggi, foto sorridenti da chiamare famiglia. E cappotti, felpe, scarpe décolleté che perdo quasi ad ogni passo. Vestiti, tanti, che mi metti addosso contro la mia volontà, e che per mia volontà tolgo per dormire nuda, come vuoi tu.

E ci sono state le tue vacanze con A. all’Isola D’Elba, ogni Pasqua.

Non ci sono stati baci mai, se non a stampo.

Il giorno in cui telefono a P. sono nell’angolo. Quello dove fumiamo, vicino alla finestra piccola, stretta tra il tavolo e il muro.

Sono un’animale che cerca tana, riparo in basso verso la terra.

Faccio il numero, chiamo e dico

- Volevo sapere chi fossi, io sono la compagna di Marco.

Sono un’animale priva di istinto di sopravvivenza.

Poi preparo il pranzo, te lo apparecchio, finito ci corichiamo sul divano come sempre.

Tutto quel che dico è

- Ah sai, ho sentito P.

Sono un’animale che si finge morta.

[fonte.]

La rabbia era rimasta impigliata nella voragine che mi aveva divorata con la telefonata di A. E adesso un’altra voragine la apro io, e quella divora la prima, e la rabbia finisce sepolta sempre più a fondo, così a fondo che ancora non so dove sia.

So quante altre cose ho perso laggiù. Ne tengo il conto in un’agenda con i bordi sfilacciati. Signora lei è una donna piuttosto distratta.

Continui a dire che sono io la tua scelta, non smetto di crederci, continuo a dirmi “tua” in ogni lettera che ti scrivo, non riesco più a riparare i miei margini incrinati.

Resto tra le pagine del tuo romanzo — è un racconto gotico in cui la protagonista è incantata sotto una campana di vetro.

Siamo andati al mare, ancora una volta nello stesso posto, nello stesso campeggio, la colazione nello stesso bar.

Quando mi dico che è davvero l’ultima volta ti sto portando la pizza al taglio, da mangiare sulla panchina affacciata al mare. Indosso l’abitino di cotone colorato e tutto il mio disappunto.

Non ho più voluto tornarci in quella piazza sul mare, in tutti questi anni.

Dentro le ante dell’armadio non avevo specchi, avevo le tue lettere attaccate con lo scotch. Come facevo da piccola, con i poster di Cioè.

Io mi guardavo attraverso di te e tu non m’hai mai vista.

Per la mia casa nuova ho preso un armadio con le ante scorrevoli, niente da poterci attaccare dentro.

Quelle lettere erano rimaste lì dopo di me, e non mancavi di ricordarmelo. Quando non hai più voluto vederle, le hai staccate con attenzione e me le hai fatte trovare in una busta bianca assieme al tuo risentimento. Parte dei vestiti e delle scarpe, invece, li hai messi nelle buste gialle della raccolta della plastica.

Mi riconosco estranea. Al tuo teatro, alle mille quinte dove mi nascondevi al mio sguardo. Estranea a me.

Ho setacciato me stessa e ogni nostra memoria con un colino a maglie fittissime: non lascia passare niente, per cancellare le tracce dell’invasione lascio tutto dov’era e mi ritrovo bianca, sottile, ancora minuscola; ma stavolta non devo più crescere ricurva sotto il vetro. Respiro.

Sono un’animale che muta pelle per non soffocare in quella vecchia. Un istinto di sopravvivenza in fondo lo ritrovo, tra i cocci di tutte le parole scritte e quelle recitate nella testa mille volte, parlandoti a dismisura senza mai prendere fiato.

Non mi riconosci quando ti racconto che sono stata a Lisbona da sola, non puoi credermi.

Quando ti dico che no, non ci voglio venire con te a cena magari una di queste sere, non ci credi proprio che lo stia dicendo. Stupisco anche me.

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