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Come si racconta una storia?

Matthew Dicks, scrittore e storyteller americano, lo racconta su The Gist il podcast di Slate condotto da Mike Pesca

Martino Pietropoli
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10 min readNov 9, 2015

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di Matthew Dicks
traduzione e trascrizione di Martino Pietropoli

Il falso benefattore

È il 1991 e ho 19 anni. Sono distante 100 miglia da casa. Sto guidando su una desolata autostrada del New Hampshire. Sto tornando a casa dalla prima vera sveltina della mia vita e sono molto eccitato perché non so ancora che quella sarà anche l’ultima sveltina di tutta la mia vita.

È proprio in questo momento di eccitazione che la ruota anteriore destra della mia Chevy Malibu esplode. Ma non si sgonfia semplicemente. Si disintegra, in una maniera che non pensavo fosse possibile: gomma e fili di ferro ovunque. Devo davvero spendere ogni forza per portare la macchina sul ciglio della strada e fermarla.

È il 1991.
Non ho un cellulare.
Non ho la ruota di scorta.
Non ho visto passare nessuno su questa strada da un bel po’ di tempo.

Scendo dalla macchina e comincio a camminare per cercare aiuto.
Dopo 6 ore e mezza e dopo aver dato tutti i soldi che avevo a un montanaro mezzo nudo di nome Winston in cambio di una gomma consumata, sono di nuovo sulla strada, direzione casa. Mi sento da dio.

È in quel momento che guardo il quadrante e mi accorgo che sono quasi senza carburante.

Non ho una carta di credito.
Le carte di debito ancora non esistono.
Non ho soldi nel portafoglio.
È il 1991.
Non ho un cellulare.

Photo by Markus Spiske

Prendo la prima uscita che trovo e raggiungo una stazione di servizio. Fermo la macchina e sono alterato e avvilito perché ho 19 anni, sono un manager di McDonald’s e faccio 6 dollari e 25 cent all’ora e sono la persona più ricca che conosco. Mia madre vive di sussidi con mia sorella adolescente e incinta, non vedo mio padre da decenni, mio fratello è militare da qualche parte e non lo sentiamo da 3 anni. Non c’è nessuno a casa che possa farsi 100 miglia e venirmi a prendere e tirarmi fuori dai casini qui.

L’unica persona al mondo che potrebbe aiutarmi è Bengi, il mio migliore amico, ed è al college e nel 1991 se vuoi chiamare uno al college devi sapere il numero di un telefono attaccato ad un muro da qualche parte e la persona con cui vuoi parlare deve essere lì, esattamente nel momento in cui la chiami. E io non so dove è lui.

Sto solo pensando che ho 19 anni e non dovrei essere così solo a 19 anni.
Non dovrei essere a 100 miglia da casa senza nessuno da chiamare per chiedere aiuto. Ma così stanno le cose.

Allora penso ad un piano, ed è un piano semplice: entrerò nella stazione di servizio e supplicherò per avere un po’ di carburante. Me ne bastano 8 dollari perché è il 1991 e il carburante costa 85 cents al gallone e 8 dollari mi bastano per tornare a casa.

Entro e c’è alla cassa un ragazzo appena più giovane di me. Gli dico il mio problema e gli offro tutto quello che ho nel portafoglio e nella macchina. Gli dico che tornerò con il triplo dei soldi che mi ha prestato se riesco ad arrivare a casa ma lui rifiuta perché ha paura di perdere il lavoro.

Torno alla macchina e decido di aspettare fino a che il ragazzo non finisce il turno. Aspetto quello del turno dopo e torno alla carica, magari aumentando la posta. Ma è proprio quando sono di nuovo alla macchina che vedo la mia divisa di McDonald’s stropicciata sul sedile posteriore e mi viene un’idea.

Dopo mezz’ora sono sotto un portico, di fronte alla porta blu di una piccola casa di mattoni. Indosso la mia divisa di McDonald’s: ho i pantaloni blu, la camicia blu, il badge dorato col mio nome scritto e tengo in mano una valigetta blu con la grande M grigia all’altezza del ventre, come fosse uno scudo.

Sto bussando alla porta blu.

Quando la porta si apre mi trovo di fronte un uomo di 50 anni che potrebbe averne 500. È quel tipo di uomo che io e tutti conoscono, il tipo d’uomo che sa tutto, che possiede la saggezza come fosse un abito che lo avvolge.

Lo guardo e so che capisce che quello che sto per fare è una cosa terribile.

Photo by Logan Adermatt

È domenica, sono le due del pomeriggio e sto indossando un’uniforme di McDonald’s sul portico di casa sua. È uno di quei momenti in cui devi portare a termine i tuoi piani, costi quel che costi.

E allora gli dico: “Salve, mi chiamo Matt e sto raccogliendo fondi per la Ronald McDonald’s Children Charities”.

Lui non si muove. È come Stonehenge, come se fosse sempre stato su questo portico ad aspettare me. E le parole che pronuncio dopo stupiscono anche me, non me le aspettavo proprio. Dico “Mia madre morì di cancro quando era un bambino e ora mia sorella sta morendo di cancro e io sto solo cercando di fare quello che posso per aiutare”.

Lui non si muove e continua a guardarmi. Poi mi punta un dito e mi dice “Non ti muovere” e rientra in casa.

Io so cosa sta per succedere: è entrato per chiamare la polizia che fra poco arriverà e mi arresterà per aver rubato soldi a McDonald’s — cosa che, ironicamente, succederà due anni dopo.

Invece oggi non andrà così perché quando l’uomo torna ha un biglietto da 20 dollari in mano — 20 dollari che in un giorno come questo mi sembrano 20.000 dollari. Alzo la mano come a dire “No, davvero, sono troppi” ma lui dice “No”. Mi racconta che sua moglie Lisa è morta di cancro 5 anni fa. Mi dice che ha due figli che vivono in California che sono venuti per il funerale ma che non ha più visto da quel giorno. Poi mi racconta di Lisa e di come gli ultimi due anni siano stati i peggiori e nell’ultimo anno in particolare avrebbe voluto dirle di smetterla di lottare, ma la amava troppo per dirle una cosa del genere.

E prima che me ne renda conto sono seduto sul portico della casa di un uomo che sta piangendo mentre mi racconta la storia della moglie morta e dei figli che non lo vanno mai a trovare. Io sono seduto davanti a lui e penso “Sono la persona più orribile dell’intero pianeta”.

Stiamo seduti lì 20 minuti e lui si sfoga. Quando ha finito si alza e mi abbraccia, come se non avesse mai abbracciato nessuno negli ultimi 5 anni e mi mette i 20 dollari in mano. Adesso quei 20 venti dollari sembrano avvelenati.

Mi allontano e cammino verso la mia macchina. Faccio rifornimento e mi rimetto in strada.

Mentre guido penso all’ultimo momento in cui ero in questa macchina, mezz’ora fa: a quanto mi sentivo solo e arrabbiato perché a 19 anni non c’era nessuno che mi potesse aiutare.

Ora so che ero stato un idiota, uno stupido. Ora me ne torno a casa e stasera esco con gli amici e berremo e starò con persone che mi vogliono bene.

Quell’uomo invece tornerà nella sua casa e ci starà per molto tempo. Quell’uomo sa cos’è la solitudine in una maniera che spero non dovrò mai provare.

Lascio il New Hampshire con questo sentimento nel cuore e un po’ del suo denaro nel mio portafogli.

Dal podcast

Come è costruita questa storia?

Dicks spiega come è strutturata una storia del genere: il suo scopo è quello di raccontarla mantenendo sempre elevata la soglia di attenzione del lettore. Per farlo lo coinvolge in maniera sottile e invisibile. Ecco come.

Catturare l’attenzione

Durante tutta la narrazione Dicks ricorda al lettore quali sono le premesse e i problemi: dice che ha 19 anni, che è il 1991, che non ci sono cellulari. Esplicita i problemi da affrontare e li tiene sempre di fronte al lettore: la ruota esplosa, il carburante finito, il fatto che non ha soldi, che non ha un cellulare (lo ripete con formulazione lievemente diversa per almeno 2 volte).

Portare il lettore dalla propria parte / farlo salire sulle tue spalle

Nella scena della stazione di servizio usa un primo trucco: dice subito che piano ha in mente, prima ancora di metterlo in atto.
Uno che non è molto bravo a raccontare storie scriverebbe “Entro nella stazione di servizio e supplico per avere un po’ di carburante”.

Se invece il lettore è informato su cosa il protagonista ha in mente di fare, da quel momento in poi ha il suo piano in testa e lo accompagna nell’azione sperando con lui che quella sia la soluzione. A differenza che vedere semplicemente quello che succede, facendo così empatizza con il protagonista, è sulle sue spalle e sa qual è l’obiettivo.
Poi il piano non funziona: il ragazzo non gli dà il carburante perché teme di perdere il lavoro.

Il primo trucco è insomma far sapere al lettore qual è il piano prima di metterlo in atto.

Fare entrare il lettore nella tua mente (svelandogli il piano) è un modo per alzare la posta in gioco e si usa quando la narrazione si trova ad un punto in cui deve succedere qualcosa che può andare o non andare bene. È uno di quei momenti in cui tutto può cambiare, è un momento di stallo. Se il lettore sa invece cosa il protagonista ha in mente di fare, a quel punto vuole che il piano funzioni.

Creare un’aspettativa

Poi c’è una seconda parte: quella dell’uniforme di McDonald’s. Dicks scrive solo “Vedo l’uniforme di McDonald’s e mi viene un’idea”. Sta facendo vedere al lettore quell’uniforme e d’ora in poi avrà solo quella in mente e si chiederà a cosa servirà.

Quando è prossimo al punto nodale della storia, lo scrittore inesperto tende ad accelerare.

Invece più ti avvicini ad un momento importante della narrazione più devi muoverti lentamente.

Il lettore deve continuare a chiedersi qual è e dov’è questo momento di rivelazione che sarà invece chiaro solo all’ultimo momento. Più la storia si avvicina all’uomo che racconta della moglie morta di cancro, più il ritmo rallenta. Dicks si trattiene a lungo prima di arrivare alla conclusione. Se avesse scritto “Vedo l’uniforme di McDonald’s e capisco che la userò per chiedere soldi” avrebbe rovinato tutto. Invece lascia questa idea nella mente del lettore: l’uniforme serve a mettere in pratica un piano che il lettore ancora non conosce.

L’immagine successiva è quella del portico di una casa mentre lui bussa ad una porta indossando un’uniforme di McDonalds in una domenica pomeriggio.

Cosa succederà adesso? Perché bussa ad una porta indossando un’uniforme di McDonalds, una domenica pomeriggio? Di nuovo Dicks enfatizza e ripete questi dettagli prima di procedere nella narrazione perché vuole che lo stupore del lettore sia lo stesso dell’uomo quando aprirà la porta e si chiederà che diavolo vuole quel ragazzo.

Raggiunto il climax, esci dalla storia

La scena dei 20 dollari è il climax: lì doveva arrivare il racconto fin dall’inizio. Quando ci si arriva, la storia deve finire al più presto possibile. È come in un film: quando il climax è raggiunto, lo spettatore sa che non succederà nient’altro. Se il regista invece decide di aggiungere una scena in più lo spettatore la guarderà svogliatamente o si alzerà e se ne andrà.

Non uscire mai dalla bolla temporale. Salvo in alcuni casi

La bolla temporale è il tempo in cui si svolge l’azione. Perché la narrazione sia efficace, una regola che Dicks si impone sempre è quella di non uscirne mai. La bolla temporale mantiene nell’ascoltatore/lettore lo stato di sospensione dalla realtà, cioè quello stato di abbandono alle parole del narratore in cui tutto ciò che viene raccontato è possibile e reale.

In questo racconto però Dicks stesso viola questa regola quando scrive “è entrato per chiamare la polizia che fra poco arriverà e mi arresterà per aver rubato soldi a McDonald’s — cosa che, ironicamente, succederà due anni dopo”.
L’azione viene improvvisamente spostata a due anni dopo. Ma è una frazione, un lampo. Che ha un motivo di essere: fa ridere chi ascolta. E non solo: Dicks spiega che serve a rilassare la tensione del racconto con un risata. Quello che seguirà è il racconto straziante del vecchio. “È importante allentare la tensione con una risata prima di un momento triste. Devi fare ridere prima di fare piangere perché così farà più male”.

Raccontare storie non significa semplicemente raccontare qualcosa. Conta come lo fai, con che modalità, con che tono e con quale perizia: quella di condurre il lettore/ascoltatore esattamente dove vuoi e come vuoi, per portarlo in un luogo diverso dalla sua realtà.

Nota dell’autore: Un sentito grazie a Matthew Dicks che si è dimostrato molto felice e disponibile all’idea che le sue parole venissero tradotte in italiano.

Se vuoi ascoltare il podcast da cui è tratta questa storia e la spiegazione che Dicks ne dà al conduttore di The Gist Mike Pesca, vai qui.

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Martino Pietropoli
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Architect, photographer, illustrator, writer. L’Indice Totale, The Fluxus and I Love Podcasts, co-founder @ RunLovers | -> http://www.martinopietropoli.com