Le parole altrui, e le nostre

Lezioni di scrittura con Zadie Smith

Alessandra Zengo
Scrivere oggi

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Alle volte nel mondo letterario sembra che solo Jane Austen sia una scrittrice divertente, anche se ha pubblicato sciocchi romanzetti d’amore per donne sole o mal accompagnate. Il restante witty humour è appannaggio di scrittori maschi bianchi, possibilmente inglesi, possibilmente borghesi, possibilmente frequentatori di salotti letterari londinesi che farebbero invidia al buon Oscar.

Invece altre autrici divertenti, e che non hanno bisogno di scrivere chick-lit per dimostrarlo, esistono e sono tra noi — o lo erano, come Wisława Szymborska, poetessa e saggista straordinaria da cui ho rubato qualche consiglio per l’articolo Come diventare (o non diventare) scrittori.

Anche Zadie Smith, ancora vivente per fortuna sua e nostra, fa parte di questo club esclusivo. Mi ha conquistata con Cambiare idea (Changing my mind), una raccolta di miscellanea che spaziano dalla scrittura al cinema, passando per le riunioni di famiglia a Natale.

Ho letto le oltre quattrocento pagine dall’iPhone, alla fermata dell’autobus, al mattino, prima del sorgere del sole, circondata da liceali, con zero gradi e le mani che avevano perso la sensibilità da un pezzo. In due giorni l’ho bruciato (i libri servono anche a scaldarsi quando fa freddo). Serviva soltanto una corretta digestione, dato che non mancano spunti, citazioni, riflessioni che richiedono più di qualche pensiero casuale.

Incontriamo Barthes e Nabokov che litigano sulla morte dell’autore e il diritto di paternità; David Foster Wallace che si immedesima nella “persona depressa” (Brevi interviste con uomini schifosi) e che parla del feticcio dei sentimenti “reali” nella società moderna; George Eliot che con Fred di Middlemarch ci spiega come l’amore rende possibile la conoscenza; e il giovane Henry James, piuttosto insofferente verso i luoghi comuni, forse perché non li aveva ancora frequentati.

C’è anche Keats, da qualche parte, che ha rappresentato per la giovane Zadie un modello a cui aspirare. Lo descrive come un lettore voracissimo e uno scrittore che voleva imparare dagli altri, correndo il rischio che le altre voci sommergessero la sua. E il ritratto dell’autrice è così umano e toccante che si avrebbe quasi voglia di abbracciarlo, questo piccolo John, invece di leggerne le poesie con le speciali odi alle urne greche.

Keats che sgobba, che divora libri, che plagia, imita, adatta, fa fatica, cresce, scrive tante poesie di cui si vergogna e poi qualcuna che lo rende orgoglioso, impara tutto quello che può da qualunque autore gli capiti sotto mano, vivo o morto, che potrebbe avere qualcosa di utile da insegnargli.

Se non si fosse ancora capito, Cambiare idea è da leggere: col dito pronto a sottolineare sull’e-reader, oppure muniti di post-it da appiccicare alle pagine del cartaceo (pubblicato da minimum fax). Per convincervi che ho ragione, ho scelto alcuni estratti sulla scrittura. Sia mai che siano utili a qualcuno.

1. Lo scrittore crede di essere solo, e invece no

“Scrivere un romanzo è fondamentalmente un trucco basato sulla credulità. E la prima persona che dovete convincere a crederci siete voi stessi. È difficile riuscirci da soli. Io raccolgo frasi in giro, citazioni, l’equivalente letterario di una squadra di cheerleader. […] Le parole altrui sono molto importanti. E poi, senza nessun preavviso, smettono di essere importanti, così come tutte le vostre parole che le loro parole vi hanno stimolato a scrivere. Gran parte dell’esaltazione che ci dà un nuovo romanzo sta nel poter ripudiare quello precedente. Le parole altrui sono il ponte che si usa per passare da dove si è a dove si vuole andare. […] Leggo qualche riga per immergermi in una certa sensibilità, per azzeccare una particolare nota, per darmi del rigore quando sto cadendo nel sentimentalismo, per ottenere un minimo di scioltezza linguistica quando sono sintatticamente troppo ingessata.”

2. Microgestori per il sociale

“Quando comincio un romanzo, sento che di quel romanzo non c’è nulla al difuori delle frasi che metto sulla pagina. Devo stare molto attenta: l’intera natura dell’opera cambia a seconda della scelta di qualche parola.”

3. Impalcature rubate all’edilizia

“Nel costruire un romanzo si usano sempre un sacco di impalcature. Alcune sono necessarie a tenerlo in piedi, ma moltissime altre no. In gran parte sono lì solo per farvi sentire sicuri, ma in realtà l’edificio si regge tranquillamente anche senza. […] Le impalcature danno sicurezza quando uno non ne ha, riducono il senso di smarrimento, creano un obiettivo — per quanto artificioso — un traguardo a cui arrivare. Usatele per suddividere quello che vi sembra un tragitto senza fine e senza punti di riferimento; ma sappiate che così facendo, come Zenone, estendete all’infinito la distanza da percorrere.”

4. La magia del linguaggio

“A metà di un romanzo è un luogo della mente. E lì accadono strane cose. Il tempo si accartoccia su se stesso. Vi sedete a scrivere alle nove di mattina, e in un batter d’occhio comincia il telegiornale della sera e sulla pagina ci sono quattromila parole, più di quante ne abbiate scritte in tre lunghi mesi, un anno fa. Qualcosa è cambiato. E non solo dentro casa. Se uscite, tutto — dico davvero, tutto — confluisce spontaneamente dentro il romanzo.”

5. I lettori non sono stupidi, o forse sì, ma non ne siamo certissimi

“Verso la fine del romanzo, arrivata all’ultimo quarto, quando la strada ormai è tutta in discesa e procedo spedita, mi volto indietro a leggere quelle prime venti pagine. Sono zeppe come un barattolo di sardine. Con calma, apro il coperchio e lascio entrare un po’ d’aria. Quello che è divertente delle prime venti pagine — certo, ci rido su adesso, a tre anni di distanza, quando non ci sono più imprigionata dentro — è vedere quanta poca fiducia uno ha nei lettori quando comincia a scrivere. Gli si dà sempre tutta la pappa pronta. […] Non si confida nel fatto che il lettore abbia un po’ di pazienza, un po’ di intelligenza. […] È terribile, questa oscillazione pendolare della frode letteraria: di volta in volta non riusciamo a decidere se l’idiota fraudolento siamo noi o i nostri lettori.”

6. Persone fatte di grammatica

“L’idea di dar forma a delle persone a partire da una serie di elementi grammaticali sembra così assurda, all’inizio, che si tende a nascondere il proprio terrore dietro una cortina fumogena fatta di frasi elaborate, come se il carattere di un personaggio si potesse cavar fuori a forza dai ghirigori di certi aggettivi ammucchiati senza pietà uno sull’altro. […] In realtà, il personaggio nasce da una pennellata leggerissima. E ovviamente, ci vuole pochissimo anche per distruggerlo.”

7. Dimenticarsi di aver scritto un libro

“Allontanatevi dalla macchina, come ordinano i poliziotti dei telefilm. Il segreto per editare bene il vostro lavoro è semplice: bisogna che ne diventiate il lettore invece che l’autore. […] È un vero peccato, ma a quanto pare lo stato mentale perfetto per fare editing sul proprio romanzo è quello che si raggiunge due anni dopo la pubblicazione, e dieci minuti prima di salire sul palco di un festival letterario. […] E, detto per inciso, questo vale anche per gli editor di professione: dopo aver letto un manoscritto tante volte, non riescono più a vederlo davvero.”

8. Le bozze sono crudeli, ma l’editor di più

“Correggere ciò che bisogna correggere, aggiustare ciò che bisogna aggiustare. L’unica risposta adeguata a una busta piena di pagine con i commenti a fianco è: «Ridatemelo! Fatemi ricominciare daccapo!». Ma non lo dice nessuno, perché ormai si è raggiunto l’esaurimento. Non è il libro che uno sperava, forse si potrebbe ancora fare qualche ritocco: ma la forza di volontà se n’è andata. Non ce n’è più neanche una goccia. Ecco perché le bozze sono così crudeli, così tristi: l’esistenza stessa della bozza dimostra che è già troppo tardi. […] Fortunato Eliot, ad avere Ezra Pound. Fortunato Fitzgerald, ad avere Maxwell Perkins. Fortunato Carver — adesso lo sappiamo — ad avere Gordon Lish. Hypocrite lecteur! — mon semblable — mon frère! Che fine hanno fatto tutti gli estranei intelligenti?”

9. Il valore è vintage, mai presente

“Ecco la cosa strana della critica letteraria: odia sempre la contemporaneità, riconoscendone il valore solo a vent’anni di distanza. E poi, passati altri vent’anni, quel periodo lo romanticizza furiosamente, per nostalgia di una gioventù collettiva.”

10. La forma del bisogno

“Quello che c’è di universale ed eterno nella letteratura è il bisogno: continuiamo ad aver bisogno di scrittori che sembrino sapere e sentire, e che si spostino fra queste due modalità operative con straordinaria fluidità. Quello che non è universale o eterno, però, è la forma. La forma, gli stili, le strutture — usate il termine che preferite — dovrebbero cambiare come la lunghezza delle gonne. Anzi, devono farlo per forza, altrimenti trasformiamo una forma in una regola, una religione; diciamo: «Vedi questa forma qui, ecco com’è la realtà», e ci dà soddisfazione dire così (specie se siamo inglesi) perché significa che non c’è più bisogno che leggiamo, o pensiamo, o sentiamo niente.”

Sono un’editor e una consulente freelance che si occupa di branding e marketing. Dal 2009 vivo una relazione impegnativa col mondo editoriale, ma ancora non ci siamo lasciati. Se ti piace come scrivo, unisciti alla tribù dei lettori di Elementary, la mia newsletter personale. È strana, simpatica e arriva sempre nel momento giusto.

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Alessandra Zengo
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I’m a red-haired editor obsessed with blue. I was born sick and sour.