Scrivere è inseguire la verità

Quello che le scuole di scrittura non dicono

Francesca de Lena
Scrivere oggi
Published in
6 min readMar 3, 2017

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(Avviso: le buone scuole di scrittura sono importantissime! Iscrivetevi ai loro corsi!)

Se provate a leggere il programma di un’onesta scuola di scrittura la successione degli argomenti delle lezioni che troverete sarà grosso modo questa:

PUNTO DI VISTA

VOCE NARRANTE

STRUTTURA DELLA STORIA (I 3 ATTI)

PERSONAGGI

CONFLITTI

TRAMA

SCENE

MONTAGGIO

STILE

EDITING

Parlo dei programmi seri, non di quelli che hanno come titolo delle lezioni “l’incipit”, “il dialogo”, “la descrizione”, “il finale”. Quelli meglio lasciarli perdere.

I programmi seri prendono in considerazione l’approccio a un testo narrativo nel suo insieme, analizzando le singole parti senza dimenticare di cosa si sta parlando: una storia. Non esercizi scolastici ed estemporanei (punto di vista: scrivi come se fossi un gatto; dialoghi: due sconosciuti s’incontrano al bar, cosa si dicono?), ma prove di composizione: disporre un’idea in forma narrativa.

Comunemente per idea s’intende una cosa a metà tra “di cosa parla la storia” e “di cosa vuoi parlare tu” e il “di cosa vuoi parlare tu” si declina ora in “la mia esperienza” ora in “i temi che mi stanno a cuore” ora in “la mia ossessione” (il più affascinante, e molto spesso il più fasullo). Raramente in: “quello in cui credo”. Invece è proprio da lì che parte la narrazione. Senza credere in qualcosa, senza avere una verità di cui parlare, si scriverà una, perfino buona, progressione di eventi, ma non una storia.

Non bisogna avere paura della parola verità: la verità è una cosa che esiste — anche se non se ne può avere certezza condivisa, anche se non è data e non la si può dare — e che muove la vita di ognuno di noi: cerchiamo la verità in ogni cosa che facciamo, in ogni scelta che prendiamo, in ogni azione che compiamo. Possiamo non ammetterlo e può farci paura, ma la verità è il motivo per cui — e attraverso cui — ci costruiamo. È il motivo per cui — e attraverso cui — si possono costruire e muovere i personaggi di una storia.

Dice Giulio Mozzi in “Parole private dette in pubblico”:

“Insisto: la letteratura serve a parlare della verità. Non ha competenza esclusiva sulla verità. Non ha pretese sulla verità. Non si dà lo scopo di determinare la verità. Semplicemente ne parla: come due persone che fanno conversazione, una terza arriva, e dopo i saluti le si dice: «Stavamo parlando della verità», oppure: «Stavamo parlando della partita». […]

Però possiamo parlare della verità così come possiamo parlare di un sacco di cose che non conosciamo: degli abitanti di Marte, della mente dell’imperatore Adriano, e così via. Possiamo parlare della verità indipendentemente dalla nostra opinione sulla sua esistenza, così come possiamo parlare indifferentemente di cose che esistono e di cose che non esistono […]

La letteratura non ha altra utilità. Non serve a consolare, non serve a distrarre, non serve a riposare, non serve a estraniarsi, non serve a fantasticare, non serve a non pensare alla guerra; la letteratura serve a parlare di ciò che non sappiamo chi o che cosa sia, di ciò che non possederemo mai.”

La verità (che non possederemo mai) di un narratore è quello in cui crede e quello in cui crede determina il mo(n)do — il contenuto, la forma, lo stile, il montaggio, il punto di vista, i personaggi, la trama, le scene — con cui comporrà la storia. Questo è il motivo per cui un corso di scrittura creativa e qualsiasi discorso sulla narrazione dovrebbero cominciare non dal “punto di vista” o dal “personaggio” ma da: l’idea in cui credi.

Keen — design by Klaus Begasse

Robert McKee, uno dei più importanti sceneggiatori di sempre, nel suo Story — contenuti, struttura, stile, principi per la sceneggiatura e l’arte di scrivere storie, in cui letteralmente smonta ogni passaggio tecnico e inventivo della scrittura di storie, dice a proposito dei famigerati eventi (le cose che devono accadere nella trama):

“La struttura è una selezione di eventi tratti dalle storie esistenziali dei personaggi, sistemati in un ordine scelto per causare precise emozioni ed esprimere una precisa visione della vita.”

E poi:

“Qual è la vostra visione? Ogni racconto che voi create dice al pubblico: «Io credo che la vita sia così». Ogni momento deve essere riempito di questa vostra appassionata convinzione, altrimenti noi sentiremo puzza di falso».”

McKee scrive un manuale tecnico di 400 pagine, eppure affronta il problema della visione (in cosa credi?) ben prima di analizzare di cosa siano fatti personaggi e conflitti, come scegliere il punto di vista di una storia, o quale sia il disegno delle trame; lo fa prima di riportare e analizzare pezzi di dialogo e di parlare di flashback e flashforward. Perché secondo lui avere qualcosa in cui si crede non è un aspetto filosofico della questione, un approccio di cui sbarazzarsi in fretta per passare alle cose serie, non si tratta di “esplorare sé stessi” a fini terapeutici o di portare alla luce i temi che stanno a cuore: si tratta di tecnica creativa: si tratta di trovare quella che lui chiama “l’idea di controllo” della storia.

“Un vero tema non è una parola, ma una frase — una frase chiara e coerente che esprima in modo irriducibile il significato di una storia. Io preferisco l’espressione idea di controllo, perché, come per il tema, esprime la radice della storia o l’idea centrale, ma indica anche la sua funzione: l’idea di controllo modella le scelte strategiche dello sceneggiatore […]”

“[…]meglio costruite la vostra storia intorno a un’idea ben definita maggiore sarà il numero di significati che il pubblico scoprirà nel vostro film perché afferrerà la vostra idea e ne seguirà le implicazioni in ogni aspetto della propria esistenza. Al contrario più idee cercate di inserire in una storia più esse imploderanno in se stesse, con la conseguenza che il film crollerà tra le macerie di concetti tangenziali non dicendo assolutamente nulla.”

Non solo per scrivere una singola storia, ma anche per imparare a raccontare attraverso la scrittura bisogna definire la propria idea di controllo: inseguire la propria verità. Il sistema secondo il quale bisognerebbe prima perdersi in esercizi fini a se stessi, in esplorazioni dell’intero mondo dell’immaginario, in metodi scolastici del tipo “provate a fare così” o “provate a fare colì” non fa altro che perpetrare la credenza in un incontro fortuito con l’idea ispiratrice, con il caso, e di lì con il dono, il destino.

C’è tutta una parte del lavoro d’invenzione, invece, che può venire addirittura prima della pagina scritta, prima dell’esperienza di scrittura, può anche solo rimanere in testa, e che serve a formulare in maniera esatta ma personale, privata ma complice la domanda: io in che cosa credo? È da quella domanda che dovrebbe venir fuori la scrittura — non la scrittura legittimamente esercitata per hobby, per passione, o quella funzionale allo studio o alla professione — ma la scrittura che intende comunicare agli altri, quella che desidera farsi ascoltare e, a dirla senza inutili imbarazzi: che desidera essere pubblicata in forma di storie.

Chi s’iscrive a una scuola di scrittura perché vuol “fare lo scrittore” e cioè vuol raccontare storie, piuttosto che provare a mettersi nella testa di un gatto e parlare come lui cominci a chiedersi che cosa vuol dire ai lettori, come può convincerli di quello in cui crede. Se non lo fa, il rischio è ritrovarsi con quaderni pieni di ottime prove di voci stranianti e di ottime descrizioni di paesaggi e di ottimi dialoghi da bar che però non serviranno a niente.

Se l’idea di controllo di una sceneggiatura o di un romanzo dev’essere racchiudibile in un’unica frase, la verità che muove la scrittura di un autore dovrebbe esserlo in poco più: qualche riga, un disegno, cinque minuti di chiacchierata, un breve video, tre passi di danza, qualsiasi cosa che assomigli a questo:

“E dove sono le finestre? Da dove entra la luce?
Bernie, vecchio amico, perdonami, ma per questa domanda non ho risposta. Non sono neppure sicuro che questa particolare casa abbia delle finestre. Forse la luce deve cercar di penetrare come può, attraverso qualche fessura, qualche buco lasciato dall’imperizia del costruttore. Se è così, sta’ sicuro che il primo a esserne umiliato sono proprio io. Dio lo sa, Bernie, Dio lo sa che una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi.”

Richard Yates, Costruttori
in Undici solitudini traduzione di Maria Lucioni Minimum fax

Paolo Scirpa — espansione curva, 1979

L’immagine di copertina è “Mosca bianca” un’opera di Antonio Riello

Originally published at ilibrideglialtri.com on March 3, 2017.

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