Scrivere, come Anne Frank

Michela Pibiri
Scrivere oggi
Published in
7 min readJan 20, 2017

“La cosa più bella per me rimane poter scrivere quello che provo e quello che penso, altrimenti soffocherei del tutto”. (Anne Frank, Diario, 16 marzo 1944)

Siamo alla fine degli anni Ottanta, il Muro di Berlino è ancora in piedi e io ho appena cominciato la terza elementare. Leggo e scrivo discretamente, ma mi devo abituare ai nuovi quaderni, quelli con le righe strettissime. La cosa migliore di tutte è avere dei libri nuovi: hanno meno immagini di prima e molto più testo. Il libro di lettura è una miniera d’oro da spulciare nel tempo libero, persino con un lieve senso di colpa che deriva dal fare le cose senza la guida — e il permesso — di un adulto.

Fin qui non ho mai sentito parlare di Annelies Marie Frank, nota come Anne, nata a Francoforte sul Meno il 12 giugno 1929 e morta nel campo di concentramento di Bergen-Belsen tra il febbraio e il marzo del 1945. Un pomeriggio apro una pagina a caso del mio libro e trovo la foto in bianco e nero di una ragazzina con i capelli scuri che sorride e tiene le braccia conserte sopra il banco di scuola. Mi colpiscono la pettinatura e il vestito che indossa: mi sembra una foto vecchissima, proveniente da un mondo lontano. Impiegherò ancora del tempo per capire che quella ragazzina appartiene al mondo di cui il mio nonno materno, deportato in Germania tra il luglio del 1944 e il maggio del 1945, mi ha tanto parlato.

Proprio lei, Anne

Accanto alla foto c’è un brano intitolato “Il diario di Anne Frank”, che comincia così:

“Spero di poterti confidare tutto, come non ho mai potuto fare con nessuno, e spero che mi sarai di grande sostegno.” (12 giugno 1942)

Questa ragazzina, scopro, scrive lettere personali a un’amica che si è inventata e che chiama “Kitty” perché nessuno accanto a lei è un confidente abbastanza affidabile:

“Con tutte le mie conoscenti posso soltanto divertirmi; si fanno solo discorsi banali e non si parla mai di argomenti più intimi, qui casca l’asino. Forse sono io che non mi fido, comunque il problema esiste ed è un peccato non poterlo eliminare. Ecco il perché del diario.” (20 giugno 1942)

Le racconta i suoi pensieri, i suoi sentimenti, le sue opinioni sugli altri e ciò che crede che gli altri pensino di lei. L’idea è folgorante e merita di essere copiata.

Maturo l’idea di cominciare a scrivere qualcosa anch’io. Per cominciare, snobbo i diari segreti col lucchetto e le copertine tutte rosa che vanno di moda in questi anni, e sottraggo un anonimo quaderno alla scorta annuale per la scuola: il diario di Anne Frank è un oggetto con la copertina di tela a quadri, per niente frivolo e fitto di scrittura rigorosa: una cosa da adulti. Ma ho bisogno di saperne di più, e mentre comincio a scrivere, scopro che a casa esiste una copia del libro.

“Non ho intenzione di far leggere a nessuno questo quaderno cartonato che porta l’altisonante nome di Diario” (Anne Frank, 20 giugno 1942)

Leggo e scrivo, scrivo e leggo. Anne vive nascosta e dà un senso tangibile a parole come clandestino e rifugiato che noi oggi usiamo a sproposito. All’epoca non ci faccio troppo caso e il contesto storico passa in secondo piano: prima di tutto Anne è un’amica che mi suggerisce cosa si può mettere dentro un diario. Mi legittima a lamentarmi della mia famiglia e del fatto di sentirmi fraintesa, a raccontare le mie giornate tra scuola, amicizie e primi amori, a parlare delle cose che mi è permesso fare e di quelle che mi sono vietate. Naturalmente, la segretezza è requisito indispensabile della scrittura di un diario, e questo accresce enormemente il fascino dell’operazione.

Anne è vivace, intelligente, vanitosa, spesso insofferente, autodeterminata e ribelle, ma incredibilmente diligente nel raccontare tutto ciò che fa e pensa: parla di un paio di scarpe color burgundy che riceve in regalo e dei bombardamenti, dei battibecchi con gli altri rifugiati e delle trasmissioni di Radio Londra, del cibo terribile che deve mangiare e dei suoi tormenti sentimentali; ma soprattutto parla della necessità di scrivere per esistere in una dimensione che la sottragga allo sguardo costante degli altri, che confermi la sua identità indipendente in uno scontro generazionale incastonato nel peso enorme della storia che sta vivendo. Emerge la sua sete di conoscenza, la dedizione per lo studio e la grande ambizione di diventare, un giorno, giornalista e scrittrice.

Il mio esperimento riesce fin troppo bene: dai 9 ai 18 anni scrivo ininterrottamente e la mia grafia cambia forma e dimensione molte volte, fino ad assestarsi sul tratto minuto e leggermente obliquo che ha oggi. Gli anni dal 1990 al 1992 si perdono in un moto di rabbia distruttiva un giorno in cui il nascondiglio del mio diario viene scoperto, e mi riprometto di non scrivere più per non tradirmi di nuovo. Invece ricomincio subito e cerco un nascondiglio migliore.

Guardo e descrivo me stessa in rapporto al mondo ancora in larga misura analogico in cui vivo, fatto di libri, musica su cassette e i primi ambitissimi CD, cinema e VHS, televisione e telegiornali, riviste, lettere e cartoline postali, fotografie su pellicola, telefono fisso e orari in cui rientrare a casa. Il diario non è solo uno strumento per l’introspezione e la costruzione del senso critico, ma anche un campo di sperimentazione linguistica straordinario, in cui posso permettermi di sbagliare e correggermi, imparare parole nuove e giocare con la sintassi, creare neologismi, usare uno slang e sviluppare un idioletto, ignorare la punteggiatura e lanciarmi nel flusso di coscienza, copiare lo stile di qualcuno e poi smontarlo: in una parola, imparare le regole per poterle rompere.

Nel frattempo leggo il Diario di Anne diverse volte e in diverse versioni, incasellandolo con sempre maggiore precisione in tutto ciò che da bambina avevo ignorato perché ancora troppo difficile, nella sua assurdità, da capire.

1994: un frammento del mio diario di tredicenne, che pubblico con molta vergogna per le “x” usate al posto dei “per” ma con un certo tronfio orgoglio per la mia curiosità.

Poi parto per l’università: è il 2000, la mia vita cambia radicalmente e il diario sembra una cosa adolescenziale che non mi servirà mai più.

Nel 2003 vado a visitare l’Alloggio Segreto di Prinsengracht 263 ad Amsterdam. Oltrepasso la libreria girevole ed esploro con grande emozione le stanze, ora spoglie, così a lungo immaginate, fino a raggiungere la soffitta in cui Anne incontrava Peter. Provo a immaginare la sua gioia nel contemplare la chioma del castagno nel cortile (che oggi non c’è più, abbattuto da una tempesta nel 2010) e uno spicchio di cielo dalla finestra.

La libreria girevole che collega l’Alloggio Segreto all’edificio antistante di Prinsengracht 263. Foto tratta dal sito ufficiale della Casa-Museo di Anne Frank www.annefrank.org, in cui è possibile fare un bellissimo tour virtuale in 3D

Nello stesso anno ricomincio a scrivere. Il diario è lo strumento privilegiato di un lavoro di ricerca interiore, divenuto necessario durante una crisi profonda, ma all’inizio mi sento a disagio e in dovere di giustificarmi come se fossi fuori tempo massimo. Scrivendo mi sembra di infrangere il proposito di gestire le cose come fanno gli adulti. Già, ma come fanno gli adulti?

Nel 2007 comincio a scrivere per lavoro e non scrivo più per me, se non in maniera episodica su fogli sparsi. La mia vita scorre veloce, intasata dagli impegni e tracciata passo per passo dai neonati social network, ma tutto ciò che ho imparato organizzando sulla carta i miei più intimi pensieri torna utilissimo nel lavoro di redazione: dalla progettualità dei contenuti alla chiarezza esplicativa da adottare per ogni concetto. Nulla di ciò che ho imparato va perso, ma comincia, anno dopo anno, a mancarmi qualcosa.

Solo nel settembre del 2015 recupero la disciplina che serve per tenere nuovamente un diario: all’inizio è faticoso trovare il tempo, ricalibrare la grafia dopo un decennio di videoscrittura, fare ordine nei pensieri sapendo di non poter cancellare o spostare i paragrafi a piacimento. Il polso fa male e il passato, nel frattempo, è diventato un groviglio da districare: la scrittura autobiografica in piena età adulta fa correre il rischio di mettere in discussione tutto ciò che si sa, o si pensa di sapere, su se stessi. Scrivere non è una faccenda indolore, in nessun senso. Ma nulla nella vita avrà mai, per quanto mi riguarda, lo stesso sapore di quella immersione totale in una dimensione di creatività calda, di pura concentrazione, in cui le cose si esprimono spontaneamente e intensamente, senza aggiustamenti, filtri e ritocchi.

Ad Anne Frank, che voleva fare la giornalista e la scrittrice e che è morta a 15 anni in un campo di concentramento, la storia deve moltissimo. Io, oltre al tributo che le pago come parte di una coscienza collettiva che non deve assopirsi, le devo ancora di più: avermi insegnato a scrivere come strumento per leggere me stessa e il mondo.

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