Scrivere lo spazio-tempo del mondo

Francesca de Lena
Scrivere oggi
Published in
4 min readApr 7, 2016

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L’anno scorso ho letto “Sembrava una felicità” di Jenny Offill.
È la storia di una donna che deve fare i conti con il fatto che suo marito si è innamorato di un’altra. La voce narrante passa dalla prima persona alla terza (“io” diventa “la moglie”) ma rimane sempre frammentata, progredendo per pieni ed ellissi, come se t’invitasse a entrare in casa per poi giocare con l’interruttore ad accendere e spegnere la luce: qualcosa la vedi e qualcosa no.

Questa voce frammentata è anche molto ironica, di quell’ironia cattiva tipica delle donne che devono darsi da fare per risollevarsi; subiscono un colpo e in men che non si dica ne viene fuori un nuovo sguardo, che si posa severo su tutte le cose dell’esistenza.
E a pag 59 a venire fuori è questa battuta grazie alla quale, mi ricordo, non riuscivo più a smettere di ridere:

È probabile che io stia diventando troppo vecchia e nervosa per insegnare. Eccomi qui, a sbraitare su articoli determinativi e indeterminativi, sul punto di vista. Pensa alla distanza autoriale! Chi è che parla adesso?

La mia amica che insegna scrittura a volte diventa matta a valutare i racconti e continua a scrivere a margine la stessa cosa.

DOVE SIAMO NEL TEMPO E NELLO SPAZIO?
DOVE SIAMO NEL TEMPO E NELLO SPAZIO?

Jenny Offill trad. di Francesca Novajra — NN editore

C’è tempo perché io diventi troppo vecchia e nervosa, ma già ora capita che diventi matta a scrivere più e più volte a margine dei racconti quello stesso appunto: DOVE SIAMO NEL TEMPO E NELLO SPAZIO?

Il fatto è che lo spazio/tempo non è solo una necessità tecnica (dare al lettore le coordinate in cui si svolge la vicenda) ma è soprattutto una questione di sguardo. Quello che veramente fa chi scrive, scegliendo dove e quando la storia debba compiersi, è dire: per me il mondo è qui.

Una delle belle video lezioni di scrittura di Giulio Mozzi è sul tempo della narrazione. In maglietta scura e quel suo modo paradossale di fare le cose lo scrittore se ne sta in piedi sulla sponda di un fiume a dire:

“Se non riusciamo a collocare con molta precisione la storia che ci viene raccontata in un certo ambiente in un certo tempo in una certa epoca in un certo groviglio di relazioni sociali rischiamo di trovarla davvero poco interessante.”

E questa considerazione riguarda la necessità tecnica.
Ma poi, va avanti Mozzi, c’è un’altra necessità:

“Il romanzo è attraente perché ciascun personaggio deve risolvere dei problemi in successione per ottenere ciò che desidera, ma non possiamo concepire un romanzo come una continua velocissima successione di problemi. […] Un meccanismo romanzesco anche lungo è fatto di pochissimi elementi che si combinano in continuazione. Invece un romanzo ha bisogno anche della spazzatura, dei tempi morti, delle descrizioni, dei momenti nei quali non si capisce esattamente che cosa succede; perché il lettore deve attendere: deve essere messo in tensione.”

La tensione la crea la voce della storia.
Più di ogni altra cosa — degli eventi grandiosi, della struttura, della scelta del punto di vista, della durata, dell’azione, dei conflitti e delle idee — a tenere in piedi la narrazione è la voce che la conduce. È attraverso la voce che chi scrive sceglie quale spazzatura mettere dentro; e quanta, come, perché: uno specifico modo di guardare il mondo che concede a chi la incontra di dare un senso allo spazio-tempo.

Alla Biennale di Venezia del 2011 l’artista americano Christian Marclay vinse il Leone d’oro con The Clock: un’opera video di 24 ore composta da innumerevoli spezzoni di film in cui compare un orologio o un altro tipo di riferimento orario (un gesto, una battuta). Dando vita a un movimento d’immagini cronologicamente progressive, Marclay riesce a rappresentare l’intero arco della giornata. Il suo film è un maestoso lavoro di montaggio cinematografico con un profondo significato visivo-strutturale. Una cosa molto, molto interessante.

Ma Marclay sa bene che questa asfissiante e affascinante struttura non può, da sola, comporre una narrazione, perché manca la voce in grado di stabilirne la tensione. E allora decide di proiettare il suo film in modo da creare una coincidenza temporale tra i minuti che scorrono nelle immagini e quelli che passano nella realtà. Costringe gli spettatori a guardare il suo film sul tempo mentre il medesimo tempo, minuto per minuto, scorre nelle loro vite. È questa la sua poetica.

Chiunque scriva una storia deve tenere a mente che la vita del lettore scorre inesorabile. Se intende ricostruire uno spazio-tempo in cui condurlo, se desidera mostrargli il mondo, allora deve trovare la specifica voce che sappia indicargli da che parte si va.

Originally published at ilibrideglialtri.com on April 7, 2016.

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