Caorle, Ucraina
Sul lungomare di Caorle mi colpisce la mescolanza di lingue in convivenza pacifica per il tempo di una vacanza. Famiglie da ogni angolo d’Europa, spinte dal desiderio di una pausa tranquilla con i bambini, mare, sole, una gita a Venezia. Nessun bisogno vitale dietro l’acquisto di un pacchetto mezza pensione, gratuità per i figli sotto i 6 anni, ombrellone in riva al mare. Anche nel negozio dei pesciolini pedicure la clientela è multilingue, tutti con i piedi a mollo per 10 minuti di relax mentre gli animaletti piluccano. Ina si rivolge a tutti in una lingua diversa.
«A fine stagione riportano i pesci in Turchia, saranno troppo cresciuti per questo lavoro. Di solito c’è anche un’estetista ma adesso abbiamo pochi clienti. Basto io che studio russo e inglese. E oltre all’italiano parlo ucraino, la mia lingua.»
«Ucraina? Da che zona vieni?»
«Ternopil’, poco lontano dal confine polacco. Sono arrivata in Italia a 11 anni, e ora faccio l’università. Qui lavoro per la stagione.»
Ina è una ventitreenne minuta che parla volentieri tra un cliente e l’altro. Ritorna dopo aver venduto dieci minuti di pedicure a una famiglia tedesca, quaranta euro.
«Vengono soprattutto la sera, ma oggi è nuvolo e magari andranno in spiaggia più tardi.»
«Avevo anch’io ventitré anni quando sono partita per Kiev con una borsa di studio. Le opere dell’autore russo su cui facevo la tesi erano vietate alla consultazione, così ho avuto modo di passare molto tempo fuori dalle biblioteche. La gente di città parlava russo, in quei due anni l’ucraino lo sentivo solo al mercato quando compravo miele e ricotta dalle contadine. Oggi in Italia ci sono migliaia di ucraini ma io non mi ci sono ancora abituata e ogni volta che sento nominare quelle zone mi vengono in mente tanti ricordi.»
«In un certo senso l’Ucraina manca anche a me, ma direi che sento nostalgia soprattutto delle persone, come mia cugina, la mia migliore amica. Oggi lì si vive male, abbiamo perso la dignità del lavoro e poi c’è l’alcol. Gli uomini bevono, non lavorano e quando sono ubriachi maltrattano le mogli. Mio padre per fortuna non è così, ma non ne voglio sapere di un marito ucraino, sposerò un uomo che mi rispetti e sappia occuparsi dei figli.»
Ina sottolinea le ultime parole con movimenti decisi delle mani sottili.
«Ricordo il primo gelo a Kiev, aveva nevicato e la temperatura era scesa di colpo. Una sera vidi un tipo a torso nudo addormentato nella neve, una bottiglia di Moskovskaja vuota ancora stretta nel pugno. Volevo chiamare un’ambulanza ma i miei amici si misero a ridere. Il peggio che poteva succedergli, mi spiegarono, era che venisse raccolto dal furgoncino del vytrezvitel’. L’avrebbero fatto tornare in sé con la pompa dell’acqua gelata e un’iniezione di vitamina B, trattenendolo finché un familiare non gli avesse pagato la multa.»
«Si tratta di istituzioni sparite con il crollo del regime sovietico ma la piaga dell’alcolismo è rimasta. La maggior parte degli uomini è un pericolo per la propria famiglia. Però mi mancano le tradizioni, voi non sembrate averne bisogno, mentre da noi sono rimaste vive nonostante il comunismo. Qui forse si lavora troppo, c’è quasi il culto del lavoro. I miei genitori non verrebbero mai in ferie in un posto come Caorle, preferiscono la Croazia dove alla sera si balla. Gli italiani fanno molto sport, ma il ballo tiene insieme le persone. Voglio la mia festa di nozze anche in Ucraina, balleremo fino alle 6 del mattino quando lancerò il velo con la corona alle mie amiche e la mamma verrà a coprirmi il capo con il fazzoletto, sarò diventata una donna. Anche la messa qui dura meno di un’ora e poi tutti a casa propria. Da noi è diverso. A Pasqua, per esempio, andiamo in chiesa alle cinque di mattina con cestini pieni di cibo che viene consacrato in una cerimonia di tre ore. La celebrazione continua a casa, quando tutti in famiglia ne mangiamo un po’. Non era così anche a Kiev?» chiede Ina prima di andare a esaminare i piedi screpolati di un’anziana signora inglese.
«Temo che Kiev fosse molto diversa dall’Ucraina occidentale, meno europea, adesso non so come siano le cose, dopo l’81 non ci sono più stata. Nessuno dei miei amici era religioso e quando chiedevo informazioni sulle chiese mi rispondevano che delle poche non distrutte quasi nessuna funzionava. Ne avevano fatto magazzini, palestre e anche musei dell’ateismo. Poi c’era il complesso di monasteri sul Dnepr con i turisti in coda per visitarli, ma erano solo le vecchiette a inginocchiarsi davanti alle icone e accendere le candeline di cera d’api. A Kiev i legami erano forti con le persone di cui potevi fidarti. Se eri amico di un amico ti davano le chiavi di casa anche senza avere avuto il tempo di conoscerti. Come mi disse un amico, “stiamo così vicini l’uno all’altro perché viviamo sul bordo della tomba”. Erano gli anni di Brezhnev, non di Stalin. Ma il rischio di una visita del KGB era reale per tutti.»
«Da noi era diverso, forse perché Ternopil’ è una città piccola. Quando emigrarono, i miei genitori mandarono me e mio fratello in campagna. I nonni non ci lasciavano lavorare perché dovevamo andare bene a scuola. Nei villaggi la gente chiacchiera e la nonna, che pure è un medico, temeva si dicesse che venivamo su male perché i nostri genitori erano all’estero. Una mia amica invece doveva aiutare la famiglia. Qualche sera stavo con lei a lustrare i pomodori con lo straccio, così si vendevamo più facilmente.»
«Una cosa che mi è rimasta impressa di quel mondo era il contrasto tra la povertà materiale e l’alto livello di istruzione, la curiosità della gente. In metropolitana quasi tutti avevano un libro in mano e appena usciva una nuova raccolta di poesie andava a ruba. Sapevano recitarti poesie per ore, mi chiedo come siano le cose oggi.»
«Anch’io studiavo tanto. Passavo il mio tempo a leggere e studiare, forse perché ero timida e malata. Era stata mia madre a decidere di emigrare. Non c’erano gli strumenti per la mia malattia, ci davano pochissime strisce per misurare la glicemia. Da quando lei ha cominciato a mandarmele, la misuro sei o sette volte al giorno, e non solo prima di andare a dormire. Avevo paura di non svegliarmi…»
Ina fa una pausa e poi riprende a parlare con un tono che non tradisce emozioni. «Arrivai in campagna che stavo molto male, i medici mi avevano proibito pasta e pane e così ero diventata magrissima. La nonna cominciò a darmi le patate che cucinava dopo averle tenute a bagno la notte perché perdessero l’amido. Ma è stato in Italia che ho cominciato a riprendere peso.»
«Ricordo la prima volta che mi ammalai a Kiev. All’ambulatorio universitario la dottoressa mi diagnosticò una bronchite. Mi prescrisse un antibiotico e uno sciroppo. Così andai in farmacia, e poi in un’altra, e poi in un’altra ancora. La scena era la stessa dappertutto: leggevano la ricetta con aria inespressiva e poi me la restituivano con un semplice “njetu”. Nessuno che si prendesse la briga di spiegarmi che avrei potuto avere i medicinali solo sottobanco, come del resto la maggioranza dei prodotti. Fui curata da un’amica che mi applicava coppette sottovuoto sulla schiena dopo averle scaldate con la fiamma. Mi consigliò anche pediluvi con semi di senape — ottimi anche se rimanevi incinta, purché te ne accorgessi in tempo. Come quasi tutte le donne della sua età, lei di aborti ne aveva subiti parecchi: era più facile interrompere una gravidanza che trovare anticoncezionali. »
«Il crollo del muro ha distrutto la sanità pubblica, non ci sono stati più soldi per i medici e le medicine sono diventate proibitive. Da piccola volevo fare il medico come la nonna, ma dopo un episodio di artrite reumatoide ho perso fiducia in quello che avrei imparato. Seguii per due mesi la terapia prescritta dal medico ma i dolori alle articolazioni non diminuivano. Allora buttai le medicine e cominciai a studiare, leggevo tutto quello che trovavo sul diabete e sull’artrite. Dopo sei mesi di dieta vegana mi sono passati i dolori. Eliminare le proteine animali abbassa i livelli di infiammazione dell’organismo. Così, quando in un’agenzia di Conegliano ho visto che cercavano persone con conoscenza del russo e dell’inglese, ho deciso di studiare lingue e coltivare per conto mio la passione per la medicina.»
«Mi domando come sia studiare la lingua del nemico. Per me il russo era la lingua dei romanzieri dell’Ottocento su cui mi sono formata, non riesco a immaginare che sentimenti susciti in te.»
Ina distoglie lo sguardo e per qualche attimo sembra considerare la domanda come se non se la fosse mai posta prima, e poi conclude semplicemente «Ucraina e Italia sono mondi diversi che ti fanno sentire e pensare in modo diverso. No, non credo che avrei scelto il russo se fossi vissuta ancora a Ternopil’, ma qui i russi non sono nemici.»
In quel momento uno dei timer suona e con un cenno della mano Ina segnala a un grosso signore italiano che il suo tempo è scaduto. Lui segue la raccomandazione di Ina di togliere lentamente i piedi dall’acqua, poi li asciuga sommariamente e li reinfila negli enormi sandali di gomma nera. La moglie lo fissa con aria perplessa.
«Lei non ha provato?» le chiedo. «Non sono ancora pronta» mi risponde leggermente seccata, e sempre fissando il marito mi dice «lei piuttosto che ha fatto tante domande, dovrebbe provare.»
Per non contraddire quella moglie dubbiosa, compro anch’io dieci minuti di immersione fra i pesciolini mangiapelle.