valentina ross
Scuola del Viaggio
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5 min readJul 29, 2016

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Capitolo 1

26 luglio

È il 26 luglio. Sto vagando per Venezia. La tua città. Una volta era nostra.
Fa caldo. Mi siedo sui gradini. C’è un gabbiano davanti a me. Forse si è perso.

Non so dove sei, non so chi sono io, non più. Forse non l’ho mai saputo.
È il 26 luglio. Come quel giorno di tanti anni fa.

Ero a Caorle con i miei genitori, nel 1988, come ogni estate. Avevo vent’anni e dei lunghi capelli rossi.
Ero quella che si dice “una ragazza di buona famiglia”, che in sintesi vuol dire “una coi soldi”.
Abitavamo a Milano. A Caorle avevamo una villa.
Quei giorni oziosi passati a prendere il sole in spiaggia erano rassicuranti e soffocanti al tempo
stesso. Mi sentivo inquieta, nervosa.
“Domani è il tuo onomastico” mi disse mia madre la mattina del 25.
“Io e tuo padre abbiamo pensato di portarti a Venezia per festeggiare”.
Accolsi la notizia con un sorriso tiepido.
“Hai mandato una cartolina a Egidio?”
“No”.
“Allora puoi spedirgliela domani. Gli farà sicuramente piacere”.

Il giorno dopo ci alzammo all’alba per prendere il traghetto.
Arrivammo a mezzogiorno al ristorante, in fondo a Calle delle Botteghe.
“E su Anna, sta’ un po’ contenta!” esclamò mia madre, appena seduti a tavola. “Siam venuti fin qui per te!”
“Non l’ho chiesto io” risposi.
Mi stavo annoiando. Fissavo la tovaglia. Era verde smeraldo.
“Anna, di’ un po’ al signore cosa vuoi” disse mio padre, ad alta voce, per scuotermi dal mio torpore.
Alzai lo sguardo.
Eri lì, davanti a me, con un blocchetto in mano e una biro.
Non so che mi prese. Sentii una fitta nella pancia, e poi qualcosa come una scarica elettrica che mi attraversava tutto il corpo.
Non eri particolarmente bello, ma avevi qualcosa di sottile, di invisibile, che mi colpiva.
Rimasi imbambolata a guardarti. Tu aspettavi con pazienza e sorridevi un po’ con gli angoli della bocca.
Aprii il menù. Ordinai la prima cosa che lessi.
“Volevo i..i bigoi in salta…in sal…”
Stavo balbettando, per la prima volta in vita mia.
“In salsa veneta” concludesti tu.
Arrossii.

Ero passata di colpo dal dormiveglia all’agitazione. Non facevo che sbirciare nel locale, per vedere dov’eri e cosa stavi facendo. A un certo punto mentre giravi tra i tavoli mi guardasti anche tu, e io abbassai gli occhi, imbarazzata.
“Vado in bagno” dissi ai miei.
Mentre percorrevo il lungo il corridoio, sentii di nuovo la tua voce:
“Ehi!”
Mi voltai.
“Hai perso questo”.
Apristi la mano. Riconobbi il ciondolo a forma di cuore che portavo al collo.
“Grazie” dissi. Lo presi, piano. La tua mano era morbida, vellutata.
“È molto bello” aggiungesti. “Giada, vero?”
“Già…”
Mi stavo ingarbugliando di nuovo con le parole.
“Come ti chiami?” mi chiedesti poi.
“Anna”.
“Ah! Auguri! Oggi è il tuo onomastico. Sant’Anna: non giura e non inganna” dicesti. Sorridevi, e indicavi la colonna davanti a noi.
Il calendario era lì appeso. C’era la data, 26 luglio, e il proverbio che avevi appena pronunciato.

Quella notte non riuscii a dormire. Mi stava accadendo qualcosa di insolito e misterioso. Ero in preda a una specie di febbre.
Ogni singola parola che mi avevi detto mi echeggiava nella mente.
“Giada, vero?”
Era piuttosto singolare che tu conoscessi il nome della pietra.
Sentivo ancora il tocco gentile della tua mano.
La tua mano aveva accolto la mia giada. E la mia giada era diventata per me ancora più preziosa, una specie di talismano. La rigiravo tra le mani in continuazione. La posavo sul petto, vicino al mio cuore. Mi trasmetteva la tua energia. Ti sentivo, anche se eri uno sconosciuto ed eri lontano.

“Mamma, devo tornare a Venezia”.
“Ma certo, ci andremo di nuovo”.
“No, vado da sola. Oggi”.
“Sei sicura? E perché tutta questa urgenza?”
“Ecco, ieri in uno dei vicoli vicino a Piazza San Marco ho visto un bel regalo per Egidio. È un oggetto un po’ particolare. Solo che era l’ultimo…e ho paura che poi non ce ne siano più”.
“Oh! E che sarà mai questa cosa così rara?”
“È un…un gilet di stoffa. Stoffa pregiata, di Fortuny. Sai che va matto per queste cose. Non l’ho preso ieri perché eravamo un po’ di fretta, dovevamo tornare, ricordi?”
“Eh, sì, abbiamo fatto tardi”.
“Voglio tornare in quel negozio e vedere con calma”.
“Ma certo cara, se è per Egidio sono più che contenta. Stai attenta, mi raccomando. Non perderti!”

Non conoscevo affatto Venezia. C’ero stata pochissime volte, e sempre durante il soggiorno a Caorle.
Per me era solo una città noiosa, e assurda, con tutta quell’acqua mista alla terraferma.
Mentre cercavo di rintracciare il ristorante però Venezia mi appariva di una bellezza speciale. Avrei voluto conoscerla meglio.
Venezia assumeva un nuovo significato.
Perché a Venezia c’eri tu.
Attraversai Piazza San Marco, come al solito piena di turisti. Un paio di volte sussultai, perché mi parve di vedere il tuo volto. Non eri tu.
Non sapevo la strada. Ricordavo che la locanda era nel sestriere di San Marco, dietro a campo Santo Stefano, ma era ancora molto distante. Mi pareva che uscendo fossimo passati davanti a Palazzo Grassi.
Arrancavo, guidata da questi pochi indizi. Il sole picchiava. Ero tutta sudata.
E se tutto questo fosse solo un sogno, un’allucinazione gigantesca? I dubbi arrivavano, ma non mi fermavano. Mi suggerivano che tu fossi gentile con tutti, probabilmente, era il tuo mestiere sorridere ai clienti. Non era niente di personale. Magari facevi così con tutte, e tutte cadevano nella tua fascinazione.
Ma non m’importava, o meglio, era più forte ciò che provavo io in quel momento, rispetto a ciò che potessi pensare tu. Dovevo andare, e basta. E vedere che cosa accadeva.
Mi persi nelle stradine semi deserte. La massa di avventori era da tutt’altra parte, in mezzo ai simboli della Venezia turistica.
Credetti di svenire. Ma poi mi apparve finalmente l’insegna del ristorante.
Entrai, fiacca e trafelata. Guardai nelle sale. Vidi i camerieri, tre o quattro. Ma tu non c’eri.
Provai nel corridoio: magari ti eri assentato un attimo, magari eri in bagno, o nel retro.
Non c’eri.
Sentivo lo sciacquettio dei piatti che proveniva dalla cucina, e le voci confuse dei clienti che mangiavano. Era ora di pranzo.
Tornai verso l’ingresso. Tutti quegli estranei mi guardavano, prima con meraviglia, poi con sospetto.
Il padrone del locale, che stava dietro al bancone, mi chiese, minaccioso:
“Ha bisogno di qualcosa, signorina?”

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