Elisa Gaudio
Scuola del Viaggio
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4 min readJul 29, 2016

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Quando si scioglierà la neve, dove andrà a finire il bianco?

Quando la nebbia si sarà dispersa, dove troverò la mia sostanza? Sarà un enorme vuoto? Un sogno incompiuto? Un’interpretazione incerta del reale? O sarà la fine, sarà la morte?

Non riuscivo a smettere di guardare quella porta chiusa. Una sensazione irritante, una certa irrequietezza interiore, l’incapacità di accettare un no, come tutte le altre volte.

L’insegna dell’esposizione della mostra d’arte contemporanea ospitata a Palazzo F0rtuny a Venezia.

Il portone di Palazzo Fortuny era serrato, inaccessibile. Perché il martedì, a Venezia, il museo dalle ariose finestre gotiche rimane chiuso al pubblico. E io non lo sapevo.

Eptafore ad arco acuto della facciata di Palazzo Fortuny.

La mia mente era svuotata, come un panorama brullo liberato dalla nebbia, forse per via del caldo e della stanchezza. Mi sono appoggiata al muro, di fronte al palazzo, nell’unico triangolo d’ombra sulle mattonelle sconnesse del marciapiede. E senza più forze, con le palpebre pesanti e gli occhi stanchi, sono scivolata nel sogno.

Il sonno profondo mi ha trasportata all’interno dell’edificio e ora, finalmente, posso vedere ad occhi nudi cosa c’è dentro la mostra. Mi accoglie un enorme pannello bianco. Sono sola. Non ci sono custodi né altri visitatori. Sul pavimento gocce di vernice bianca invitano a seguire un percorso. L’unica certezza è che si tratta di un’esposizione di quadri.

Il Primo è di Turi Sameti:

Turi Sameti, Opere Bianche alla galleria Dep Art.

Ovali di un bianco antico fluttuano su una tela bianco floreale. Una commistione di toni puliti e brillanti.

Proseguo e ammiro altre tele, senza capire fino in fondo il senso del percorso.

Nella seconda sala mi colpisce l’opera di Enrico Castellani:

Enrico Castellani, “Superficie Bianca”, 1977.

Le chiazze grigio ardesia dei fori inferti da colpi immaginari turbano il bianco avorio.

Nella terza sala i riccioli bianco fumo si increspano come onde e culminano in gocce di grigio cadetto.

Cretto bianco, Verona, 1988.

I dipinti si impregnano di gradazioni di bianco sempre più impure.

Come le rose bianco di zinco che sembrano uscire dalla tela come vortici di metallo.

Rose Bianche, Anonimo, 1995.

Nell’ultima sala, ormai disorientata, mi imbatto nell’opera di Mimmo Roselli:

Mimmo Roselli, oil on canvas 2009.

Il bianco non esprime più la sua purezza. E’ sporcato in una tinta di un grigio chiaro che non è argento. Come la neve sciolta si fonde con la terra e fa sparire il suo candore in una varietà di colori che lo contaminano.

Per tornare verso l’ingresso devo ripercorrere tutte le sale ma — che strano! — ogni opera è sparita... La vernice bianca sul pavimento si è dissolta, le luci si abbassano.

Voglio uscire. Il senso di inquietudine cresce.

Sulla porta è appesa una poesia di François Villon, la “Ballata delle donne del tempo passato”:

Ditemi dove, in quale paese

è Flora, la bella romana,

Alcibiade e Taide,

sua cugina germana,

Eco parlante quando scorre una voce

sul velo di un fiume o di uno stagno,

Eco, bellezza molto più che umana?

Ma dove, le nevi dell’anno passato?

Dov’è la sapiente Eloisa

per cui Abelardo fu castrato

e chiuso in convento a San Dionigi?

Per amore subì tale destino.

Ditemi ancora, dov’è la regina

che ordinò che Buridano fosse gettato

nella Senna in un sacco e affogato?

Ma dove, le nevi dell’anno passato?

E lei come il giglio, Bianca la regina,

che cantava con voce di sirena,

Berta dal grande piede, Alice, Beatrice,

Erembourg signora del Maine,

la buona Giovanna di Lorena,

che gli inglesi bruciarono a Rouan,

dove sono, dove, Vergine suprema?

Ma dove, le nevi dell’anno passato?

Principe, è inutile cercare con affanno

dove sono ora, nel corso dell’anno,

se non vuoi che riprenda il motivo andato,

dove, le nevi dell’anno passato?

Dove sono finite le nevi dell’anno passato? La neve si è sciolta e non c’è più il bianco. Cosa troverò ora?

Esco. O forse non sono mai entrata. Gli occhi socchiusi si aprono, sgranchisco le mani intorpidite. Il portone d’ingresso della mostra è spalancato, i visitatori in coda aspettano il loro turno sotto il sole.

Non io; io ci sono già stata.

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