Lo Zio Carlo

Cristina Graziani
Scuola del Viaggio
Published in
6 min readJul 29, 2016
Lo zio Carlo a Venezia negli anni ‘30

Lo zio Carlo era nato alla fine dell’800, la data esatta non la sapeva nessuno. Alla sua morte i parenti ereditarono un gran numero di casse piene di libri, che dovettero essere trascinate dal suo alloggio al terzo piano fino alla barca per trasportarle lungo i canali. Uno dei nipoti individuò con un’occhiata rapace i libri di valore per venderli. Non ci fece molti soldi.

Lo zio Carlo non aveva lasciato risparmi. La pensione era sufficiente per la pigione alla Ca’ di Dio, a Castello, una delle ultime residenze degli enti elemosinieri dove aveva preso alloggio alla fine degli anni ’70 . Diceva che nelle giornate molto limpide dalla sua camera si vedeva la cima del Monte Rosa. Come tanti vecchi a Venezia, passava molto tempo alla finestra a guardare la gente che passa.

Negli ultimi anni aveva preso l’abitudine di andare qualche giorno a Verona per le feste. Stava dal nipote e dalla cognata Derna, siciliana ed esuberante nonostante l’età avanzata. Derna aveva sposato suo fratello Attilio, morto più di trent’anni prima, e abitava nella villa liberty dal grande giardino costruita nei primi anni del secolo. Si fermava poco da loro, non era abituato alla vita domestica e in più erano quasi trent’anni che la cognata tentava di convincerlo a sposarla.

Nel tempo aveva portato a Verona alcune delle casse di libri che costituivano i suoi soli possedimenti, inclusi due libri scritti in gioventù sotto pseudonimo, una sua traduzione in inglese delle poesie di Ungaretti, vecchie fotografie, e una decina di diari scritti in inchiostro stilografico verde tra il 1920 e il 1945. Aveva tenuto per venticinque anni un resoconto delle sue avventure di scapolo colto e viveur, del grande amore per la Wanda Osiris, dell’incontro veneziano con Ernest Hemingway , e soprattutto degli avvenimenti bellici raccontati sui giornali di mezza Europa che arrivavano in Svizzera, dove era stato direttore di banca durante la guerra.

Mentre lui scriveva e frequentava i teatri ancora aperti, i fratelli facevano carriera nell’esercito di Mussolini, forse aiutati dall’omonimia con il più famoso generale Rodolfo Graziani. Attilio aveva anche tentato di seguire il duce a Salò, ma la moglie lo aveva chiuso in camera a chiave per due giorni, e lo aveva fatto uscire solo dopo che lui ebbe promesso di rinunciare per sempre all’ardita impresa.

I diari dello zio Carlo mescolavano italiano, inglese, tedesco e francese nella stessa frase. Aveva incollato uno accanto all’altro i ritagli dei giornali della stessa notizia, mescolati ai suoi appunti personali, cosicché le vignette satiriche su Churchill e Hitler avevano finito per trovarsi fianco a fianco alle stampe delle donnine svestite e gaudenti del varietà.

La Ca’ di Dio

Le campane della Chiesa dei Greci suonarono il mezzogiorno.

Lo zio Carlo piegò il quotidiano, lo avrebbe finito dopo mangiato. Si alzò un po’ faticosamente dalla sedia, e si avviò a passo ingobbito lungo il canale. Pranzava raramente in casa, consumare i pasti senza sale con gli altri pensionanti lo faceva sentire vecchio. Gli piaceva invece, soprattutto in primavera, sedersi ai tavolini all’aperto delle trattorie in campo e guardare la gente che passa.

Imboccò Calle del Forno sperando di non incrociare nessuno, perché era così stretta che non ci si passava in due, e se uno è costretto dall’età a camminare col bastone, addossarsi al muro è una fatica. Proseguì trascinando i piedi oltre le case popolari di Calle Caboto, e si sedette alla trattoria all’angolo, dove la calle si allarga un poco a formare uno slargo tra i palazzi. Indossava come sempre il vestito completo, panciotto, cappello e cravatta che non toglieva nemmeno per stare in casa, neanche la domenica.

Dopo mangiato, rientrò a passi lenti alla Ca’ di Dio e si sdraiò sul letto per fare un sonnellino, come aveva fatto tutti i giorni negli ultimi 85 anni.

Lo zio Carlo morì nel sonno di un pomeriggio afoso, nella stanza sottotetto affacciata sulla Riva degli Schiavoni, proprio sopra una delle finestre rotonde del palazzo. Il direttore della Ca’ di Dio telefonò a mio padre per dargli la notizia. Papà non volle andare al funerale. Anche lui è un signore silenzioso, come lo zio Carlo e tutti gli uomini della famiglia. Quella sera a cena ci raccontò di quando per Natale andavano a trovare la nonna. Dopo le domande di cortesia sulla salute e il lavoro, e le risposte brevi che ne seguivano, lo zio Carlo e i fratelli tiravano fuori il giornale dalla giacca e si mettevano a leggere in poltrona. Non scambiavano più una parola fino al momento dei saluti, con grande noia di mogli e figli. Ci raccontò anche di quando, prima di sposarla, portò mia madre a conoscere questo suo zio eccentrico, che li aveva portati a pranzo in un ristorante lussuoso di Venezia dove la mamma aveva mangiato per la prima volta il prosciutto crudo con i fichi. Non era mai stata in un ristorante prima di quel giorno, e lo zio del marito le aveva insegnato con garbo a sbucciare i fichi con il coltello e la forchetta. Non avevano parlato quasi per niente. Tutti i ricordi sullo zio Carlo erano caratterizzati da grandi silenzi.

La mamma e io partimmo da Caorle con la motonave del mattino. Sbarcammo nel bacino di San Marco, poco lontano dalla Ca’ di Dio. Salimmo i tre piani fino alla sua stanza, dove io ero stata una volta sola da bambina e di cui avevo un ricordo confuso di caldo, polvere e odore di vecchio. Accatastate contro il muro c’erano una decina di casse di legno marcito. Il direttore del pensionato aveva chiamato due facchini per portarle al piano terra. Le legarono con le cinghie delle tapparelle, che si fecero passare sulle spalle per scendere le scale. Dovettero poi trascinarle su e giù per due ponti su un carrettino fino alla barca noleggiata per portarle via.

Lo zio aveva lasciato istruzioni per essere cremato. Aveva anche fatto testamento chiedendo che le sue ceneri fossero sparse in laguna, come le ceneri dei corpi cremati nei templi vengono accolte dalle acque sacre dei fiumi indiani. Diversamente dall’India, spargere le ceneri in laguna era vietato. Roba di salute pubblica e igiene delle acque, benché a guardarne il colore venga il dubbio che vi si riversino ogni giorno cose ben peggiori delle ceneri.

Nel viavai del trasporto in barca dei bauli la mamma, che portava l’urna funeraria, perse la presa e la rovesciò oltre il bordo della barca, e l’ultima richiesta dello zio fu accontentata senza formalità.

Quando la nonna Derna morì, ne ereditai la casa. Nella stanza dietro al tinello, che aveva ospitato lo zio Carlo nelle sue visite veronesi prima, e la badante ucraina della nonna poi, trovai le casse di libri dello zio, una collezione di numeri del “Punch, or The London Charivari”, e una scatola di biscotti di latta gialla, con scritto sopra “No gh’è al mondo no più bel biscotto, più fin più dolse più lisìero e san, del Baicolo nostro venesian”. Dentro la scatola, i diari scritti prima e durante la seconda guerra mondiale, e un pacco di fotografie tenute insieme da un elastico. Foto di gioventù, di parenti in divisa dell’esercito fascista, e anche una fotografia autografa di Mussolini che si congratulava con il colonnello Lupica per il matrimonio della augusta figlia Derna con il giovane ufficiale Attilio Graziani.

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