Come ti acquisto un album oggi

Ovvero: un viaggio in musica (poco viaggio, molta musica)

Marco Castellani
Segnale Rumore
5 min readNov 21, 2016

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Mi rendo conto che un post che inizi con “ai miei tempi…” rischia di perdere subito una buona fetta di lettori. Eppure oso dirlo, devo dirlo, ai miei tempi le cose erano profondamente diverse.

Per acquistare un album te lo dovei andare a comprare, ma prima magari te lo dovevi cercare. Dovevi resistere a vari tentativi a vuoto (eh? Il secondo dei Grisembergs Revival? No, l’abbiamo appena terminato, mi spiace…).

Diciamocelo pure: ormai tutto gravita intorno al concetto di attesa zero. Se voglio acquistare un libro, mi collego con il Kindle e mi scarico l’ebook. Inizio a leggere subito, senza dove aspettare. Senza nemmeno dover passare in una libreria (questo tra parentesi è un peccato atroce, perché le librerie sono attrezzi fantastici, orizzonti infiniti nei quali ci si potrebbe perdere per intere stagioni, ci si potrebbe fare casa, ci si potrebbe riparare dalle avversità, ci si potrebbe costruire una dolce corazza rimpolpata di parole, e così via).

Eh no. Ormai no. Se voglio acquistare un certo album musicale (ragazzi, ho scritto acquistare, non acquisire…) mi rivolgo ad uno dei servizi di musica online, tipo iTunes, oppure Google Music, cerco il mio titolo, e il gioco è fatto. Con due click l’ho acquistato, e magari anche scaricato nel mio dispositivo. Bello pronto per essere ascoltato.

Come dite? Ah la copertina, le note di produzione, il senso del possesso fisico dell’oggetto? Chiaramente, niente (o quasi) di tutto questo. Però la musica — quella sì. E immediatamente.

Roba che — per dire — funziona anche da fermo, in mezzo al traffico.

Così, qualche giorno fa.

Ho l’appuntamento alle sei, zona San Giovanni. Come gli altri giovedì. Mi metto in strada con un anticipo che mi pare congruo. Ma quando arrivo in zona, la situazione mi colpisce in tutta la sua inesorabile gravità. Tutto bloccato, completamente bloccato.

Non si sa se perché la tangenziale è parzialmente chiusa, o che altro sia successo. Ma tant’è: praticamente congelati in una determinata posizione. Bloccati in un ingorgo esiziale.

Mettere in marcia il motore / avanzare tre metri, e poi staccare…

Così cantava Lucio nel 1976, in quel meraviglioso Automobili che si avvale del talento letterario di un Roberto Roversi (tanto per dire, mica pizza e fichi, mica Toto Cutugno, con rispetto scrivendo). E sì che nel 1976 — immagino (non ricordo bene) — gli ingorghi erano appena uno spunto, un accenno, un’ombra, un topos letterario, una pallida eco di quelli che possiamo incontrare nel 2016.

Ecco, insomma. Per dire, un ingorgo di quel tipo, epico proprio così. E per giunta, nemmeno con Parigi come obiettivo ultimo, ancorché remoto.

Parigi è laggiù bella e lontana / sembra un pavone / con le piume aperte…

La situazione degenera. L’universo stazionario esiste, ed è qui. Adesso. Niente si muove, nessuno. L’aria è pervicacemente attraversata da afflati di clacson, impulsi irregolari e frequenti che innervano l’aria di trattenuta disperazione, mal riposta ostilità, aspra e smodata voglia di essere totalmente altrove. Di essere. Con chiunque, dovunque. Ma non qui.

D’accordo: telefono, rimando l’appuntamento. Qui ora si vola basso. Si punta appena a questo, a tornare a casa.

I wanna go home. Simple as that. Tu mi capisci, Michael.

Casa, va bene.

Ma nemmeno questo si rivela molto facile.

Imposto la nuova rotta sul navigatore (con una prece silenziosa ma sentita, portami via di qui prima possibile). Ma la cosa è complicata ugualmente: in un vero universo stazionario, non si muove niente. In un vero universo stazionario (come quello in cui sono capitato), è tenacemente difficile andare in qualsiasi posto, in qualsiasi posto diverso da quello dove sei.

Dopo un po’ — molta fatica nervosa, poco chilometraggio — mi ritrovo sulla Casilina. Devo farne un pezzetto prima di sbucar fuori verso una rotta — si spera — più praticabile, dove forse poter osare velocità superiori ai 5 Km/h.

Ebbene, questo pezzetto è allucinante.

E’ un pezzetto congelato in una immobilità imbarazzante. Devastante.

Lo scenario fantatecnologico evocato da Dalla/Roversi nel 1976 sta finalmente trovando la sua piena incarnazione pratica. Qui dove sono io, appunto. Che culo.

Allora devo cercare di fare qualcosa, di distrarmi. Di lasciarmi alle spalle il nervosismo che mi monta dentro, dribblarlo, fargli una finta. Subito, prima di prendere a pugni il cruscotto (nuovo) della macchina (nuova), rischiando magari lo scoppio dell’airbag. Cosa poi, questa, che darebbe un tono di vivacità alla situazione, anche se non troppo gradito.

Agire. Subito.

Ecco, mi ricordo che mi manca uno disco. Poi, d’accordo, ognuno si fissa i suoi obiettivi, ripone le sue attese di soddisfazione in qualcosa. E’ normale. Io mi sono fissato — tra altre cose probabilmente meno raccontabili — l’obiettivo di chiudere i buchi nella produzione solistica di Peter Gabriel (dài, è un obiettivo ragionevole). E sono arrivato che me ne manca uno.

Allora me lo compro? Me lo compro. Adesso.

Qui, fermo sulla Casilina. E inizio a sentirmelo da subito.

Vado su Google Play (ho già visto che lì è ad un ottimo prezzo) e acquisto. Senza muovermi dalla macchina, claro (che poi, anche volendo…).

Noto solo di passaggio, che senza intenzione ho appena acquistato — ironia della sorte — un album che si chiama (informalmente) Cars, ovvero Automobili.

Come l’album di Lucio.

Come tutto quello che si vede qui intorno, a perdita d’occhio.

Avanzare tre metri, e poi staccare.

Inizia a suonare Peter, dal telefono lo mando in streaming nello stereo dell’auto, con il bluetooth. Arriva presto la gloriosa Solsbury Hills.

Quella melodia inizia a ridare un pizzico di sensatezza all’universo il quale, ancorché abbastanza stazionario, mostra appena qualche traccia di lento movimento (laggiù, verso l’orizzonte degli eventi).

Ok. Ragioniamo.

Io sto ancora in fila, ma intanto ho comprato un album.

Ho fatto anche tre quattro metri, tra una cosa e l’altra. Niente male.

Inizio a sperare, posso uscirne.

Forse posso.

Forse.

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