Cosa ci insegna la vicenda di “Piovono Zucchine” circa la comunicazione sui social network

Anna Sidoti
Segnale Rumore
Published in
7 min readOct 31, 2016

Fra qualche anno, spero, scriveranno una teoria, un principio che regola le contraddizioni di internet; qualcosa che spieghi perché se parli di qualcosa lo fai per i click, se non ne parli non t’importa abbastanza e tutte le varie sfumature in mezzo a questi punti cardini tra cui oscillano milioni di flussi di data ogni qualvolta succede qualcosa su internet. Ossia praticamente sempre.

Ma approfitto del momento in cui questa teoria non è ancora stata formulata, premo il tasto “mute” alla mia inner-voice che mi dice di stare zitta e passare avanti perché non vuole che internet la additi come “e vabbè ogni volta che succede qualcosa se ne deve parlare per forza?” e parlo anche io.

Premessa: in realtà non sono (solo) una social media manager. Nella mia vita, però, mi piacerebbe poter comunicare con e per gli altri, nel modo più efficace possibile. È questa la mia priorità: essere chiara, disponibile, intavolare un dialogo o rendere subito chiaro ciò che voglio comunicare; o ancora, essere persuasiva, sfruttare il momento, gestire al meglio le cose che vanno male. Quindi non ho né le competenze né la voglia di fare la guru della situazione.

Sbagliamo ogni giorno, e questa non è una novità, lo dicono meglio di me i motivatori americani. Ancor di più sbagliamo a comunicare, perché gli strumenti che decodificano il linguaggio, pur essendo apparentemente uguali per tutti, sono influenzati dalla nostra percezione delle cose, modellata dalle nostre esperienze. Anche con le migliori intenzioni, possiamo potenzialmente arrivare a generare un malinteso, una discussione, che se mal gestita porta ad una lite.

La comunicazione sui social media è diventata una gara di visibilità, e fin qui, ancora una volta, si sono spese tante parole e non mi dilungherò molto nemmeno su questo punto; come si ottiene rilevanza? Dovremmo puntare sull’evidenziare l’intelligenza, la cultura, premiare la curiosità e seguire la bontà. Ma il motivo per cui non si parla più solo di social network ma di social media è perché non importa più stabilire un dialogo, un’interazione, una rete connessa in nome della comunicazione efficace — per quanto possibile — , bensì interessa fare un monologo, ottenere consensi, informare gli altri di ciò che si crede, pensa o piace. Vendere il proprio prodotto o diventare famosi ed essere il prodotto desiderato. Il mezzo sociale è quella rete di comunicazione che fa leva sulla gratificazione personale per favorire la condivisione di contenuti.

E questo è il motivo per cui sentiamo il bisogno di condividere la foto del bonifico della nostra donazione con l’hashtag #PrayforItaly dopo qualche ora dalla tragedia.

Questo contenuto, postato in un social network, sarebbe utile? Instaura un dialogo? Comunica qualcosa? È un quesito? L’autore di questo post ha bisogno di aiuto? È una notizia che riguarda la sua vita o i suoi cari?

La risposta a tutte queste domande è no.

Ma in quanto social media fa parte di una trasmissione, di un programma. E così come ci ritroviamo a piangere davanti ad una storia strappalacrime su “C’è Posta per Te”, così, da spettatori di uno stream di contenuti, scrolliamo la pagina e lasciamo cuori, condividiamo, spolliciamo e reactioniamo tutto quello che ci trasmette qualcosa. Quel post comunica che quel tipo ha donato dei soldi. Io, sul mio piedistallo da “studiosa dei dietro le quinte dei social”, penso che non sia utile un contenuto del genere, perché ogni gesto di solidarietà pura dovrebbe esser fatto in silenzio e senza il cartello con su scritto “guardatemi! L’ho fatto!”. Ma se sei sotto i riflettori quel tweet è il tuo palcoscenico, quindi cosa fai per farti notare? Questo, una battuta, un messaggio solidale, un messaggio incazzato. Se poi sei titolare di una pagina social, ti lanci, perché no, in una campagna di real time marketing, approfittando delle telecamere ancora attive sull’argomento.

Piovono insulti

È il caso del ristorante vegano pugliese, che ha postato questa immagine.

Ora, io non voglio fare la polemica del lunedì, affatto. Però questo è l’ultimo di tanti casi che mi sono passati davanti agli occhi ogni otto (e più) ore di lavoro. Non sono nemmeno il guru della comunicazione di turno, come premesso. Sono solo una persona che su internet ci scrive da più di dieci anni e il mio primo comandamento è instaurare un dialogo volto alla crescita.

Ho scritto sopra che è inevitabile sbagliare, soprattutto quando si ha a che fare con un pubblico, una nuova tecnologia e un’eccessiva leggerezza nell’utilizzo dello stesso, che è sintomo di una non conoscenza dello strumento e delle sue potenzialità.

Anche con le migliori intenzioni (comunicare che il 31 Ottobre il ristorante avrebbe svolto il servizio serale e fare beneficenza), la voglia di ottenere la telecamera puntata addosso tentando un’acrobazia che sembra tanto funzionare nelle altre pagine (il tanto amato/odiato real time marketing) ha fatto sì che anche questa volta si sia precipitati nel loop del “quando qualcuno fa una stronzata e tu devi fargli notare che è una stronzata”, seguito da “ma perché non ricorrere alla giustizia social”.

Faccio un esempio culinario, visto che si parla di ristorante: non basta mettere nella stessa padella tutti gli ingredienti stagionali per fare un buon piatto. Ad esempio in questo periodo abbiamo i kaki (o cachi) e la zucca, ma a farci un risotto anche Massimo Bottura mi sputerebbe in faccia. Ed è così che l’immagine, che comunica solo — purtroppo — incapacità nel riuscire a comporre il difficile piatto della comunicazione online, mischiando ingredienti a caso (seppur stagionali), diventa motivo di rivolta sociale.

Come si risolve una situazione del genere? Chiedendo scusa e cancellando il contenuto, evitando ripercussioni ben più gravi che il semplice marasma di qualche giorno sui social. Certo, fra una settimana nessuno si ricorderà più di “Piovono Zucchine” così come tutti siamo ritornati a comprare la pasta Barilla o il panettone Melegatti, ma c’è qualcosa che resta: lo storico, la reputazione. Quell’ammasso di dati che ancora ci classifica come colpevoli.

E così come nella prima puntata della terza stagione di Black Mirror, usiamo una delle armi più letali per un’attività online: il ratings, le stelline, il giudizio.

Una delle cose che mi chiedo è se sia giusto e leale utilizzare questo strumento per giudicare un’attività in cui non si è mai stati. Se sia giusto boicottare. Da un lato dico “sì”, perché in fondo la strategia di comunicazione è tanto importante quanto il piatto di pasta che mi verrebbe servito se entrassi in un locale e se già leggendo la pagina di Facebook non mi viene voglia di visitarlo, la loro strategia ha avuto un effetto.

Dall’altro dico “no”, perché armarsi di tastiera e iniziare ad attaccare in gruppo qualcuno o qualcosa ha più lati negativi che positivi e i pecoroni che non capiscono ma emulano sono dietro l’angolo. In questo caso per “una buona causa”, ma fra qualche giorno ce li ritroviamo contro i matrimoni gay o a sostenere la teoria delle scie chimiche, solo perché “è l’internet che lo dice”.

E quindi l’esercito del boicottaggio è qualcosa da sostenere solo se è un argomento giusto o rispecchia ciò in cui crediamo o è sbagliato a prescindere?

In questo caso, la maggior parte delle recensioni ad una stella hanno una motivazione, parlano chiaro ed hanno reagito più per l’atteggiamento presuntuoso del Social Media Manager della pagina che ha peggiorato la situazione, rispondendo in modo saccente, “provocatorio”, a suo dire, così come l’immagine.

Morale della favola, la pagina è in preda alla cosiddetta shitstorm, che tra qualche giorno si concentrerà sicuramente su altro, ma cosa si può imparare dalla vicenda?

Un errore di comunicazione è inevitabile, in ogni caso, professionisti o meno. L’errore iniziale sta in un’immagine che non trasmette né comunica nulla. Non riesce nemmeno a “provocare”, né svegliare le coscienze come desiderato dalle titolari del locale. Che poi, cosa c’è da svegliare dopo un terremoto?

Questa vicenda ci insegna che la comunicazione non significa la stessa cosa per tutti. Che quella pagina rimane ancorata ai suoi principi, alle sue risposte, convinta di agire nel modo corretto per sé e per la propria azienda.

C’è da ricordarsi di questa cosa, perché è molto importante e ritengo che non tutti siano consapevoli di questo: a volte siamo i peggiori comunicatori di noi stessi. E non tutti, nemmeno i professionisti con il curriculum bellissimo e chilometrico sono adatti a parlare per conto nostro. Bisogna trovare chi sa farlo e chi ci riesce seguendo il nostro spartito.

Internet è pieno di contraddizioni: dimentica presto ma mai del tutto, ti punisce se dici una cosa o quella opposta, sei nulla o sei qualcuno, duri un secondo oppure per sempre (Microsoft ha cambiato identità al suo browser per la nomea compromessa). La soluzione per tutto non esiste, ciò che fa la differenza è il modo in cui si reagisce.

Un po’ come la vita, no? Ecco, internet è un’estensione della realtà. Smettiamola di prenderlo alla leggera.

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Anna Sidoti
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Persona nell’universo. Cavi ethernet al posto delle vene. Lavoro con le parole, in ogni loro declinazione. Copy, web writer. Tech, Web e Series.