La Topofilia nell’era del 2.0

Quale spazio per la sensorialità nell’epoca del web?

Gionatan Squillace
Segnale Rumore
6 min readJan 19, 2017

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Un posto. L’odore di quel posto. La sensazione che hai provato in quel posto. La sensazione che provi adesso in quel posto. Quel posto riesce ancora a lasciarti senza parole. L’aria può sapere di sterco. Di fumo. Di vernice fresca o di cipolla fritta degna del peggior fast-food.

La bellezza di quel posto può essere relativa. Un fienile. Un terrazzo con vista verso palazzi e vetrate. La riva di un fiumiciattolo nei pressi di qualche fabbrica tossica.

Tutto ciò che è sensorialità, vista o tatto trascende e diventa solo un contorno. Quel posto non è solo un posto fisico. È un posto emotivo. È una natura emozionale oltre che reale. Le sue radici si sono ispessite nel tuo cuore, nei tuoi ricordi, nella tua malinconia.

La natura reale si fonde con la natura astratta del nostro essere e diventa un posto, una città, un panorama o un sentiero allargato, nuovo e senza confini se non quelli legati alle emozioni suscitate.

Se è Topofilia, è tutto questo. La parola originaria la descrive sinteticamente come attaccamento verso un luogo specifico.

Io comunque ho sempre trovato più poetica una parola inglese che forse descrive al meglio questa sensazione (perché la Topofilia non è una parola ma una sensazione), ossia Nowhere.

Questa parola significa letteralmente “nel nulla” “il nulla”. Paradossalmente, associata ad un posto e ovviamente a seconda del contesto, acquisisce il valore di “un posto nel nulla” o meglio ancora “in mezzo al nulla” (in the middle of nowhere). Ed è, a mio avviso, questa la definizione che più si addice a ciò che la Topofilia vuole essere. Un posto che in realtà non lo è per connotazione letterale ma nel termine più inconscio e astratto. Il posto che ci attrae e ci fa ricordare la nostra infanzia magari in campagna, la passeggiata metodica con la nostra ex in una pista ciclabile, oppure l’ultima chiacchera sul terrazzo di un lounge-bar con l’amico caro che partirà per l’estero non ha sembianze solo materiche ma va oltre. Trascende tutto ciò che vediamo e diventa nulla. Quel nulla a cui saremo attaccatissimi per il resto dei nostri giorni. Ogni volta che ci torneremo. Quella dannata malinconia cosi dolce da naufragar in quell’oceano di ricordi emozionali.

Ma questa dannatissima ed emblematica parola-sensazione (che la maggioranza potrebbe associare ad atti di pedofilia verso i ratti) è ancora valida nel 2k16 ?

Nell’era degli updates automatici e delle condivisioni istantanee di qualsiasi contenuto sul cloud c’è ancora posto per questa autentica sensazione? O ancora, questa sensazione si prova in altre maniere magari alternative o è scomparsa totalmente?

Per rispondere esaustivamente a queste domande dobbiamo ammettere l’esistenza dei cosiddetti luoghi virtuali. Da quando internet è alla portata di tutti, piano piano, cominciando dai forum, ossia vere e proprie arene dove ci si incontra loggandosi in rete. Qui ci si scambia pareri, contenuti e file. Ogni topic aperto è un luogo, un posto, virtuale.

Poi sono fioccati rapidamente i social network, veri e propri posti dove ognuno deinea il proprio spazio (profilo). Si interagisce entrando negli spazi, negli ambienti, nei posti altrui interagendo, instaurando amicizie e a volte anche storie d’amore.

Infine le app di istant message come WhatsApp, Telegram, Messenger e affini. Queste hanno dato un enorme contributo all’interazione mondiale, ribaltando il concetto di comunicazione e rinnovandolo. Basta un type in una chat e il messaggio arriva istantaneamente al destinatario di qualsiasi luogo nel mondo!

I topic, le chat e i luoghi di ritrovo su internet sono diventati posti topofiliaci. Il paradosso è che ci siamo attaccati ai posti della sostanza dei pixel senza sapere nulla di questo fenomeno così intimista. Non è forse vero che spesso dopo una storia finita male o chiusa con una punta di amaro vai spesso dentro quella stramaledettissima chat a rivedere i media inviati (foto e vocal notes) e i messaggi passati? Come fosse un luogo reale dove riassaggiare le gioie passate di un evento vissuto intensamente. Oppure non è vero che ritorniamo spesso nei siti dove abbiamo lasciato un nostro contributo (magari in un blog o in sito o in un programma open-source) e decantiamo il nostro operato con un attimo di fierezza? Ritorniamo nei «posti» dove abbiamo «vissuto» qualcosa, «operato» qualcosa. Dove abbiamo «interagito» con qualcuno o qualcosa. Solamente che le insegne e sentieri si chiamano semplicemente link o url. E non servono le gambe ma un mouse. Forse un po’ troppo semplice …

Il dilemma?

Siamo cyber-topofiliaci. Amiamo il virtuale e va bene. Ma dimentichiamo spesso il reale. E il reale è fatto da piccole certezze e da minuziose e delicate impressioni che solleticano i sensi.

Nessun problema, sono il primo dei cyber-topofiliaci. Me ne rammarico e dimentico spesso il presente. Dimentico l’odore di sterco. Dimentico il fumo delle strade di città che esala dai tubi di scappamento. Dimentico la vernice fresca e a volte invasiva dei negozi cinesi. Dimentico anche la grandiosa cipolla fritta sulla piastra in un qualsiasi MCqualcosa.

A volte, ripetutamente, sbatto contro la mia tesi empirica che le cose più stupide o più palesi rimarranno per sempre nei nostri ricordi. Come il ricordo di quel fienile e di ciò che rimembra. Come le vetrate monotone e ovattate di quelle strutture metropolitane di fronte al terrazzo e sopratutto di quel fiumiciattolo color acido che sgorga attorno a quella fabbrica tossica. Quel «nulla» evoca ciò che abbiamo vissuto in quel posto con una forza ultraterrena. Con un’energia inspiegabile.

Se solo la batteria dei nostri smartphone smettesse di vivere per mezza giornata…

Qualsiasi ragazzo alzerebbe gli occhi verso la strada, verso il cielo, verso il mondo davanti a sé e vivrebbe episodi che diventeranno ricordi in posti reali. Si sentirebbe l’ebrezza dell’aria, l’odore di catrame nelle strade, le grida dei mocciosetti che escono saltellando dalle scuole comunali. Insomma, tutti i nostri sensori si attiverebbero. Ecco cosa distingue la cyber-topofilia dalla topofilia. La messa in gioco di tutte le sensorialità. L’immersione di tutto se stesso nel profondo mare della vita. Non quella che carichi con lo spinotto ma quella che respiri.

L’altro giorno ho portato un ragazzo che presto si integrerà in una comunità adatta alle sue esigenze in un posto di campagna. Nessun panorama mozzafiato. Nessun tappeto di fiori. Solo campi da coltivare. Solo zolle ed erbaccia sotto la corona di un cielo mezzo bigio mezzo limpido. Presto ci saremmo divisi dopo anni di assistenza e sentivo il bisogno di rivivere con lui il posto dove per la prima volta eravamo andati a fare una chiacchiera.

Nulla di speciale mi dicevo. Solo un attimo, giusto per chiudere il cerchio. Quella mattinata invece si sarebbe rivelata indimenticabile, scoprendo un elegante bellezza legata non al luogo in sé (già accennato che era simile ad un porcaio senza porci) ma a ciò che rappresentava. Lo stesso luogo che ci aveva legati ora ci invitava ad alzare le mani al cielo. Come a gridare libertà, prendendo il volo e salutando quello spazio che ci aveva accolti in un momento specifico della nostra vita migratoria. Provavamo delle sensazioni silenziose che solo la natura fisica in simbiosi con quella emotiva avrebbe saputo dare. Vento e odore di fané. Gioie e malinconie. La parola umana non aveva senso.

No, la topofilia non è svanita. Non è solamente dentro i luoghi del WWW e non si rifugia solamente nelle connessioni. La topofilia è ovunque noi vogliamo vivere la vita e condividere il reale. Dovunque il nostro flusso di pensiero si unisce ad un posto vicino e lontano del mondo. Dovunque lasciano traccia di noi. Dando e ricevendo in cambio ricordi.

È come un libro bellissimo e profondo dove le frasi più belle vengono sottolineate. Così bello che va ripreso e riletto, avallando nuove sensazioni alle vecchie nei punti di lettura a noi più cari.

Se solo sconnettessimo i nostri dispositivi elettronici e ci connettessimo totalmente con ciò che ci circonda una volta tanto…

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Gionatan Squillace
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Le mie ossessioni compulsive sono la pellicola di celluloide, la buona tavola e la carta su cui sputarci scaracchi d'inchiostro. Per il resto esiste il Prozac+